64. Dentro alle mani stringevi il fucile
Dentro alle mani stringevi il fucile
Dentro alla bocca stringevi parole
Troppo gelate per sciogliersi al sole
(F. De Andrè, La guerra di Piero, 1966)
—
27 maggio 1989
«Oggi pomeriggio mi piacerebbe fare una piccola passeggiata.»
Nic fece un sorrisone.
Aveva piovuto per gli ultimi tre giorni, quindi, nonostante Raf stesse meglio, erano rimasti tappati in casa. Quella mattina si erano svegliati con un sole splendente che illuminava le punte delle montagne. I tetti del paesino scintillavano, ancora un po' umidi di pioggia.
Raf prese un gran morso da una fetta di potica che Nic aveva acquistato nella panetteria del paesino. «E stavo pensando anche a un'altra cosa...» disse con la bocca ancora mezza piena. «Tu hai completamente trascurato il tuo allenamento, per starmi dietro.»
Nic finì in una sorsata il suo caffè. «No, in realtà guarda che nei ritagli di tempo qualcosa ho cercato di fare. Tipo un po' di flessioni, piegamenti, addominali, stretching...»
«E ti sembra un allenamento serio, rispetto a quello che facevi prima?»
«Se tu hai voglia di ricominciare ad allenarti, io ne sarei molto contento. Mi sono portato la mia racchetta nuova e quella vecchia di legno, se vuoi possiamo...»
«No» lo interruppe seccamente Raf. «Ti prego, in questo momento ho un po' di nausea per il tennis. Però mi piacerebbe fare un po' di attività, magari un po' di corsa, non so... Mi sento tutto anchilosato, un po' deboluccio, non mi piace sentirmi così. E poi secondo me se mi stanco un po' dormo anche meglio. Non credi?»
Nic era felicissimo di vedere che l'amico aveva qualche impulso d'azione che veniva da sé stesso. Nei giorni passati aveva cercato di spronarlo a fare diverse cose, senza successo. Era la prima volta che esprimeva un desiderio di quel tipo. «Certo che ti fa bene!» disse con entusiasmo. «Siccome sei ancora debole cominciamo con calma, meglio non esagerare. Oggi ci facciamo una bella passeggiata per il paese, poi nei prossimi giorni se vuoi possiamo fare anche qualche escursione. Qui intorno ci sono tantissimi bei sentieri nei boschi. E poi possiamo fare un po' di corsa, sì. Anche a me farebbe piacere ricominciare a correre.»
Raf gli rispose con un sorriso malinconico.
***
Il povero Raf si era talmente indebolito che la passeggiata non poté durare più di mezz'ora.
Approfittarono dell'uscita per andare insieme a comprare qualcosa da mangiare al minimarket. Era la prima volta che Raf entrava in un negozio da quando erano arrivati lì. Ancora non aveva un bell'aspetto. Era davvero magro, una magrezza che si notava anche sul viso, le cui guance erano un po' scavate, e lo stato dei brufoli non era affatto migliorato, anzi, aveva uno sfogo abbastanza brutto sulla fronte, che lui copriva in parte con un ciuffo di capelli. Però le occhiaie erano meno marcate, e radersi quasi ogni giorno gli dava un aspetto più pulito. La sua postura era gobba, la sua andatura stanca, e i vestiti gli stavano larghi. Per quella sera comprarono delle bistecche per Raf, delle uova per Nic, e un po' di roba per il resto della settimana.
Mentre tornavano a casa, Raf disse di aver voglia di cominciare a cucinare, ma un piccolo capogiro in cima all'unica rampa di scale fece capire a entrambi che era meglio se fosse stato seduto. Le attività fisiche andavano riprese con calma.
La passeggiata gli aveva messo fame, però, e pretese la più grossa delle bistecche che avevano comprato, solo per poi lasciarne un pezzo nel piatto a fine cena. «Scusa, ho sovrastimato la capacità del mio stomaco.»
Al momento di buttare l'avanzo Raf espresse una perplessità. «Scusa... ma perché non la mangi tu?»
«Ehm... sono vegetariano?»
«Sì, ma qual è la logica scusa? Io le capisco bene le tue ragioni etiche, ma ormai quel povero animale è morto. Non è meglio non rendere inutile la sua morte?»
Quelle parole fecero riecheggiare nella testa di Nic altre parole più antiche che credeva di aver dimenticato. Riportarono dentro di lui un'angoscia che pensava di aver superato, e il suo disagio dovette essere così evidente che anche lo stesso Raf se ne accorse.
«Oddio... ho detto qualcosa di sbagliato?»
Nic si affrettò a minimizzare. «Ma no! Hai ragione, È una cosa senza senso, povera vacca. La metto da parte e la mangio domani.»
«Ma domani farà schifo, sarà una ciabatta. Il punto era proprio mangiarla subito per non doverla buttare.»
Nic fece spallucce. «Ok, la mangio anche subito.»
Raf aggrottò le sopracciglia. «Nic, non lo devi fare per dimostrare qualcosa. Mi mi avevi detto che la volevi mangiare domani, perché in realtà l'avresti buttata di nascosto, giusto?»
«Ma che cazzo è, un interrogatorio della polizia?» Il suo tono di voce fu molto più alterato di quanto avrebbe voluto.
«Una specie. Sto cercando di tirarti fuori quello che non mi stai dicendo.»
«Mi leggi il pensiero, forse? Perché credi che non ti stia dicendo qualcosa?»
«Perché è palese, e vorrei sapere cos'è, così evito di fare gaffe in futuro. Ma soprattutto penso che ti farebbe bene parlarne, perché non sei per niente un bravo attore, e quando ti ho detto quella cosa per un attimo hai avuto una faccia sconvolta.»
«E invece io penso che non mi farebbe bene per niente.»
«Quindi ammetti che...»
«In che lingua devo dirti che non mi va di parlarne?»
Raf incrociò le braccia e si stravaccò all'indietro sulla sedia. «Tu quando mi hai praticamente rapito e portato qua pensavi di sapere cos'era meglio per me, giusto?»
Nic lo odiò. «La differenza è che io adesso sono sobrio e so cosa voglio.»
Raf si incupì. «Io pure sono sobrio, ora, e ancora non sono convinto che questa cazzata che hai fatto fosse davvero la cosa giusta per me.»
Quelle parole furono una pugnalata al petto di Nic. «Non sei contento che stai meglio?»
Gli occhi di Raf erano pieni di tristezza. «Io non te lo dico, ma ci penso ogni giorno, sai? Che vorrei scappare e ricominciare a farmi.»
Nic non disse niente.
«E per adesso sono ancora fermo alla fase: se ricomincio Nic si amazza.»
«Cioè lo stai facendo solo per me?»
Raf annuì. «Però ci provo, sai? Tipo stamattina sono voluto uscire per fare una passeggiata, per vedere se mi metteva voglia di fare anche qualcos'altro.»
«E ha funzionato?»
Raf non rispose davvero. «Sono contento di averla fatta» disse.
«Ok. Io lo capisco, che ne hai ancora voglia. Immagino che non sia una cosa da cui se ne esce semplicemente standoci lontani per qualche settimana... Quello che non riesco a capire, però, è come puoi pensare che sia una soluzione accettabile. Come puoi pensare che non sia stata una buona idea disintossicarti. Cioè, io al posto tuo vorrei cercare di uscirne, cazzo!»
«Tu non avresti neanche mai cominciato, Nic. Non puoi capire cosa c'è nella mia testa, siamo troppo diversi.»
Quella risposta demoralizzò Nic al punto che non ebbe la forza di aggiungere niente.
«Nom sono totalmente pessimista» proseguì Raf. «Penso che forse, col tuo aiuto, posso farcela a farmela passare. Posso riuscire a trovare una nuova strada per la mia vita. Però per adesso quella strada non la vedo, l'unica strada che vedo è quella vecchia, e quindi è l'unica che vorrei prendere, anche se porta alla distruzione. La distruzione mi sembra più accettabile del non avere un'altra strada.»
«Il tennis lo vuoi proprio mollare?»
Raf reagì a quelle parole nell'unico modo in cui reagiva alle difficoltà, quando non si drogava: pianse.
«Raf. Smetti di piangere e parla, visto che sei il primo a credere che parlare faccia bene» gli disse Nic cercando di non suonare troppo autoritario.
La crisi di Raf per fortuna durò poco. Inghiottì le lacrime e parlò. «Io non so fare un cazzo. Ma veramente, un cazzo. Niente. Zero. Non so neanche cucinare quelle quattro cagate che mi cucini tu, stasera se ci avessi provato avrei improvvisato e probabilmente avrei fatto un disastro. E non ho finito le superiori, e a scuola non è che fossi un fenomeno, prendevo a malapena la sufficienza in tutte le materie, tranne latino e greco dove avevo cinque fisso. Non ho manualità, l'idea di fare un lavoro pesante mi deprime al punto da farmi venire voglia di ammazzarmi, e probabilmente sono gli unici che potrei fare, qualcuno di quei lavori in cui non serve cervello, tipo in fabbrica, scaricatore di porto, o qualcosa del genere. Già andare a fare l'idraulico o l'elettricista, che di solito sono considerati lavori per gente dal cervello non troppo fino, mi sembrerebbe un'impresa complicatissima, insormontabile, finirei sicuramente per morire di elettroshock o per allagare una casa rompendo qualche tubo. E anche lavori di questo tipo, chiamami snob, mi rendo conto di esserlo, ma non potrei mai concepire di farli. Forse ha ragione tuo padre quando mi chiama contessino viziato. Quindi cosa resta a una persona come me, senza un titolo di studio? Pure per fare l'impiegato ti chiedono il diploma, e pure l'impiegato è un lavoro troppo plebeo, per il contessino.
«L'unica cosa al mondo che so fare, e la so fare anche bene, è giocare a tennis. Ma la competizione mi angoscia, non mi dà mai felicità, prendo sempre in giro mia madre che fa i suoi balletti gay con i cavalli, ma a dire il vero un po' la invidio, vorrei fare anch'io qualcosa di più performativo. Se potessi solo esibirmi, tipo dei balletti di tennis, ecco!»
«Balletti gay?» cercò di scherzare Nic.
Raf ridacchiò. «Ovvio. Qualsiasi tipo di balletto è gay.»
Nic rise. «Allora io non dovrei essere gay per niente, perché odio qualsiasi forma di ballo.»
I due ragazzi risero insieme per qualche secondo, poi la risata si spense lasciandoli in silenzio.
«Se ti piacciono queste cose artistiche, perché non provi a fare qualcosa di artistico?» propose Nic.
«Non so disegnare, non so suonare uno strumento. Quando ero piccolo mia madre aveva provato a mandarmi a lezione di pianoforte, ma ero negato. Non sono durato neanche un anno.»
«Dici che non sai fare niente a parte giocare a tennis, ma non è vero. Scrivi poesie.»
Raf fece schioccare la lingua. «Ma te prego. Fanno cagare le mie poesie. Sono io che butto giù parole a caso su un foglio per sfogarmi. Stai insultando Montale, Sanguinetti, Neruda e tutti quelli che le poesie sanno scriverle davvero. Qualsiasi adolescente con un diario scrive poesie come le scrivo io.»
«Vorrei essere capace io di esprimere quello che ho nella testa come fai tu. Io più che dire sto male, sto bene non sono capace.»
Raf gli fece un debole sorriso. «Perché non ci provi adesso?»
Nic sbuffò.
«Mi hai raccontato tante cose di te. No, vorrei usare un verbo diverso. Regalato. Da quel giorno a Milano quando mi hai detto di essere gay. Dimmi la verità: hai mai regalato te stesso a qualcuno nel modo in cui ti sei regalato a me?»
«Che paroloni che usi. Io non regalo me stesso a nessuno.»
Raf lo osservò impassibile.
«E comunque no. Non ho mai detto a nessuno tante cose quante a te. Nemmeno Leonardo mi conosceva così bene.»
«Neanche a Elisa?»
«Elisa sa persino meno cose di Leonardo.»
Raf fece di nuovo quel sorriso un po' stanco, leggero. «Se mi avessi detto il contrario sarei morto di gelosia. Sono gelosissimo di te. Gelosissimo.»
Nic fece un sospiro sconsolato. «Tu proprio non la vuoi smettere di usare queste parole a sproposito, eh? Hai cominciato a Milano, e nonostante tutto quello che è successo e quello che ti ho detto non la finisci.»
«Non lo sto usando a sproposito e non lo sto usando alla leggera» disse Raf serissimo.
Nic alzò gli occhi al cielo e scosse la testa. Quando Raf faceva così lo odiava.
«Eviterò di dirti altre cose, che potresti giudicare ancora peggio. Ma sappi solo che è molto, molto più complicato di quello che pensi. E non te lo sto dicendo per illuderti o ferirti, ma perché io ti dico sempre tutto quello che penso e tutto quello che provo.»
«Be', potresti smettere? Alcune cose, forse, sarebbe meglio se le tenessi per te.»
Raf abbassò lo sguardo. Nic lo osservò, e tutti quei discorsi di gelosia e sentimenti non detti, gli fecero sentire bruciante il desiderio di lui.
Non ci aveva pensato, durante quelle settimane. L'unica cosa che era stata nella sua testa e nelle sue preoccupazioni fino a quel giorno era far stare bene Raf. Guarirlo, fargli tornare la voglia di vivere.
Ma adesso guardava il suo viso, risentiva nella testa le sue parole, e desiderava più di ogni altra cosa al mondo un bacio.
Appoggiare le proprie labbra alle sue, socchiuderle e sentire il suo sapore, stringerlo a sé, accarezzarlo. In quel momento, nei suoi pensieri, non c'era eccitazione, solo un'infinita tenerezza.
Si stupì a pensare che forse un bacio, un bacio e basta, gliel'avrebbe anche potuto concedere. Con tutti quei discorsi e quelle ambiguità, che cos'era un semplice bacio? Poco di più.
Ma Nic già sapeva che non gli sarebbe bastato. Ne aveva l'illusione in quel momento, ma già sapeva che un bacio avrebbe portato nella sua testa altri pensieri. Sarebbe subentrata l'eccitazione, il desiderio di toccarlo, masturbarlo, penetrarlo.
E solo pensare a quelle parole già stava virando le sue fantasie su colori più impuri. Quindi si è impose di non pensarci più.
E forse fu per quello, per non pensare ai baci e a tutto il resto, che provò a parlare di quell'esperienza che lo aveva tanto sconvolto, e della quale non aveva mai parlato nessuno.
«Io non sono vegetariano per ragioni etiche. Non sono una persona così nobile.»
Raf alzò gli occhi sorpreso, sembrò felice, e quella felicità fu uno sprone a continuare, per Nic. «Io in realtà non ci riesco. Se provo a mettermi un pezzo di carne in bocca mi si chiude la gola. Mi si chiude anche solo a pensarci.»
Raf fece un'espressione stranita. «Cos'è successo? Sei stato traumatizzato da qualcosa?»
«Sì. Da una battuta di caccia.»
«Oh. E... vuoi parlarmene?»
Nic strinse strinse nelle spalle. «Va be', visto che ci sono... Ci provo... Potrei cambiare idea a metà strada, ti avviso.»
«Fa bene parlare, Nic.»
«Se me lo ripeti ancora una volta la storia è finita qua.»
Raf alzò le mani. «Scusa. Vai.»
«Mio padre, tra le tante cose da vero uomo che fa, va a caccia. Ed è da quando sono piccolo che mi rompe con la caccia. Mi regalava fucili giocattolo quando ero bambino, mi raccontava le sue battute, veniva a mostarmi le prede che prendeva, roba così. Solo che a me non è mai piaciuto. Gli animali morti mi hanno sempre fatto un po' impressione. Tipo, quando ammazzavano i maiali, in novembre, io mi chiudevo sempre in camera mia perché mi facevano impressione le urla, e mio padre mi ha sempre dato della femminuccia per questo motivo.»
«Le urla dei maiali?» chiese Raf quasi spaventato. «Si accorgono che stanno per morire?»
«Non so se è per quello o semplicemente perché li spostano e li trascinano e loro non ci sono abituati, però...» A Nic sembrò quasi di risentirli, quei grugniti acuti, e pensarci gli mise lo stomaco sottosopra. «Scusa, possiamo smettere di parlare dei maiali?» Poi si rese conto che se stava male parlando di una scena che aveva vissuto ogni anno della sua vita da che ne aveva memoria, una scena a cui quindi sarebbe dovuto essere abituato, come avrebbe reagito il suo corpo quando fosse arrivato a... «No, senti, ho cambiato idea. Non ce la faccio.»
Raf fece una smorfia comprensiva. «Va bene. Non voglio forzarti, se devi stare male.»
Nic annuì. «Perché la verità è che sono molto più debole di quel che sembra, e questa cosa proprio non riesco ad affrontarla.»
«Non penso che sia debolezza.»
Nic stava vivendo un conflitto interiore. «E invece sì che è una debolezza. E a me non piace essere debole.» Si massaggiò il collo con una mano. «No. Voglio affrontare questa mia debolezza. Te lo racconto.»
Raf sembrava divertito. «Stai facendo tutto tu.»
«Ok. Insomma. Il punto era che io da piccolo la carne la mangiavo, però ero un paraculo, perché la mangiavo senza voler vedere tutto quello che succedeva prima. Non volevo vedere i maiali appesi a dissanguarsi in cortile...» Dovette fermarsi un attimo per scacciare l'immagine dalla testa. «O mia madre che tirava il collo alle galline...» Si stava sforzando di essere brutale nelle descrizioni, sperando che l'approccio shock sarebbe servito a dargli una svegliata. Non stava funzionando.
E Raf se ne accorse. Si alzò dal tavolo, era seduto di fronte a Nic, e andò da lui, gli sedette accanto, strofinò una mano sulla sua schiena. «No, basta. Se devi stare così male non ne vale la pena. Cazzo! È veramente una cosa che ti ha sconvolto tanto.»
«Penso sia la cosa che mi ha sconvolto di più in tutta la mia vita.»
O a parimerito con quella volta in cui suo padre l'aveva beccato a scopare con Leonardo. Anche se in realtà di quella vicenda la cosa che lo aveva sconvolto di più non era stata tanto che il padre l'avesse visto fare sesso, ma che lo avesse sentito dire quelle parole a Leonardo. Era quella la cosa che lo faceva ancora soffrire ogni volta che ci ripensava. Alla vergogna provata quasi non ci badava più.
«Per stasera lasciamo perdere, dai... Magari me lo racconti un'altra volta.»
«No. Devo farcela.»
«Tu non devi niente a nessuno» gli disse Raf.
«Sì. A me stesso. Affrontare le mie debolezze è una cosa che devo a me stesso. Quando ho compiuto dodici anni mio padre mi ha regalato un fucile da caccia.»
Raf non disse niente, si limitò a fare un piccolo cenno della testa, come per invitarlo a proseguire.
«Non so neanche se era legale, ma me l'ha regalato. Mi portava fuori nei campi per insegnarmi a mirare, a sparare. E io per farlo contento ci andavo, ma siccome non avevo proprio voglia di andare a caccia con lui, miravo male apposta, per sembrare molto più scarso di quello che ero. Solo che a un certo punto lui ha iniziato a scazzarsi e a insultarmi, a dirmi che ero un buono a nulla e che non aveva mai visto una persona tanto incapace a imparare un compito così facile. E sai com'è... quando sei ragazzino sei più suscettibile a queste cose. Non mi andava che pensasse di me che ero un inetto, e c'era anche mio nonno che ci metteva il carico da novanta e faceva quei discorsi del cazzo tipici dei vecchi, sulle nuove generazioni che non sono capaci di fare niente, e quindi ho cominciato a fare sul serio. E quando lui ha pensato che finalmente avessi imparato, ha deciso di portarmi fuori con lui alla mia prima battuta di caccia.»
Nic senti il bisogno di fare una pausa. Riordinò i pensieri, cercò quale linea avesse potuto dare al racconto per renderlo più asciutto possibile.
«E poi... non è che c'è molto da raccontare. Era l'autunno dei miei tredici anni, e in quel periodo si cacciano uccelli. Che sono anche abbastanza difficili come preda, quindi ci sono andato relativamente tranquillo del fatto che non avrei combinato un cazzo. E come penso puoi intuire mi sbagliavo. Fine.»
Raf annui. «E quindi l'idea di aver causato la morte di un animale ti ha fatto stare talmente male che non sei riuscito più a mangiarne. Lo capisco molto bene. Mi dispiace, forse sarebbe successo lo stesso anche a me.»
Solo che la storia non era finita. Nic l'aveva interrotta nel punto più ovvio, ma c'era dell'altro che fatica persino a richiamare alla mente. E non perché l'avesse dimenticato, ma perché era troppo doloroso.
«A te non piace mostrarlo, ma sei una persona tanto sensibile» aggiunse Raf.
«Oh, per favore!» sbottò Nic.
«Guarda che essere sensibili è una cosa bella, perché vai sempre sulla difensiva?»
«Perché se davvero avessi smesso di mangiare carne per una cazzata simile, sarei un cagasotto, non una persona sensibile.»
L'espressione di Raf si indurì. «Non sono assolutamente d'accordo. E sai quando mi dici che non ti piace la mentalità campagnola? Ecco, mi pare che in questo momento tu la stai applicando. Non dobbiamo mica essere tutti dei veri uomini che uccidono la preda e trascinano la propria donna per i capelli con la clava sulla spalla.»
«Ma chi cazzo ha mai detto una cosa simile? Non trarre conclusioni senza senso delle cose che dico!»
«Comunque, mi pare di capire che non mi hai finito di raccontare la storia. Vuoi finirla? O preferisci fermarti qui?»
Nic sbuffò. «Non è che cambia molto, sono cagasotto uguale.»
«Ma che palleeeee! Potresti finire questo racconto senza darti del frocio ogni tre secondi?» disse Raf in tono annoiato.
«Va bene, va bene... Dov'ero arrivato? La battuta, il fucile... che tu ci creda o no quel giorno da quel fucile ho sparato un singolo colpo.»
«E l'hai beccato al primo colpo? Assurdo...»
«Ebbene sì. Perché sono un coglione. E perché ho avuto la geniale idea di mirare nel punto dove non vedevo nessun uccello. Solo che, hai presente che gli uccelli volano e si muovono? Ecco, ho mirato esattamente sulla sua traiettoria di volo. E tu non sai quante volte ci ho ripensato, e ho pensato: Ma perché cazzo non ho mirato indietro? Che cazzo avevo nella testa che ho mirato davanti? E ogni volta che mi torna in mente ci ripenso, e ripenso al fatto che quel minuscolo particolare mi avrebbe potuto cambiare l'intera vita.»
«Oppure avresti semplicemente rimandato il momento. Magari quel giorno non avresti preso niente, ma alla battuta successiva sì, sarebbe successo lo stesso. O magari sarebbe successo in modo ancora peggiore, con tuo padre che ti spingeva a farlo dandoti dalla femminuccia, come fa sempre. Il pezzo di merda.»
Nic non aveva mai voluto tanto bene Raf come in quel momento. Era una cosa a cui non aveva mai pensato, e quelle parole gli furono di conforto. Gli fornirono una specie di giustificazione. Lui odiava le giustificazioni, ma in quel momento ne aveva bisogno. «Forse sì» ammise.
Raf non disse altro. Rimase in attesa, forse aveva capito che la storia era ancora ben lungi dall'essere conclusa.
«Insomma, mio padre ovviamente era contento come una Pasqua. Dovevi vedere come faceva il bullo con i suoi amici: avete visto mio figlio? Avete visto che bravo, come è portato? Neanche io ero riuscito a prendere una preda al primo colpo quando ero piccolo! Non l'avevo mai visto tanto orgoglioso di me. E da un certo punto di vista la cosa mi ha reso l'esperienza ancora più disturbante, perché invece io ero orripilato da quello che avevo appena fatto, mi stavo sentendo in colpa, mi sembrava di aver fatto una cosa sbagliata, e vedere il mio padre che mi approvava in quel modo per una cosa che a me sembrava tanto sbagliata... è stata forse la prima volta che mi ha fatto percepire mio padre come una persona cattiva.»
«Meglio tardi che mai.»
«E quindi...» Nic sospirò e si prese la testa tra le mani. Si sentì melodrammatico nel farlo, ma non riuscì a evitarlo, si nascondeva la testa perché si vergognava. «Sta per arrivare la parte più difficile» ammise. Aveva i palmi delle mani sudati, li asciugò sui pantaloni.
Raf avvicinò una mano a quella di Nic. «Posso prenderti una mano, o mi dici che è una cosa gay?»
Nic esitò per qualche secondo facendo ciondolare la testa avanti indietro. «Ma sì, prendimela. Tanto più finocchio di così non credo di poterci diventare.»
Raf sorrise e gli strinse la mano. Aveva le dita un po' fredde. Nic si stupì di quanto ne aveva bisogno. Era un semplice, piccolo contatto, ma fu ciò che gli diede la forza di continuare.
«Quello che ha reso tutto veramente orribile è... è... che l'uccello non era morto. Era solo ferito.»
Nic sentì la mano di Raf stringersi più forte sulla sua. «Era terribile» proseguì Nic. «Aveva un aletta spezzata e...» Prese fiato. «La cosa che mi ha straziato di più è stato vederlo urlare. Perché non urlava davvero, aveva il becco aperto e muoveva la testolina e...» Prese fiato di nuovo, ma il respiro s'inceppò. Non riusciva a continuare, rivide dopo più di dieci anni quel povero uccello sofferente, lo rivide come se fosse successo il giorno prima e lo ferì allo stesso modo. L'angoscia lo sommerse. «Era un grido muto... ma disperato...» disse con la voce strozzata. «È stata... la... cosa... più straziante che ho mai visto.»
Raf lo abbracciò e Nic avrebbe voluto farsi soffocare dalla stretta. «Vorrei smettere di respirare, perdere conoscenza» sussurrò. Gli sembrò quasi di non essere stato lui a parlare. Non era un tipo di frase che avrebbe detto in una situazione normale. Si sentiva debole, ferito, bisognoso di cure. Si sentiva quella bestia che aveva fatto morire tanti anni prima. O forse avrebbe solo voluto esserlo per espiare la propria colpa.
«La conosco bene questa sensazione» gli sussurrò Raf nell'orecchio. «È quello che ho sempre cercato nella droga. Annullare me stesso e ogni sensazione dentro la beatitudine.»
Nic riposò la testa sulla spalla dell'amico. Parlò con gli occhi nascosti dalla felpa. «Non avrei voluto farti pensare alla droga.»
«Non preoccuparti, io ci penso sempre.»
Quella frase stupida ebbe il merito di sostituire l'ansia con il disappunto. «Mh. E come dovrebbe tranquillizzarmi questa cosa?» Si sciolse dall'abbraccio e lo guardò negli occhi.
«Intendevo dire... non preoccuparti che sia colpa tua, perché è sempre nei miei pensieri, in ogni istante, lì in sottofondo. Anzi, mentre mi stavi raccontando questa storia terribile, per lo meno non era la mia preoccupazione principale.»
Nic sospirò e deglutì delle lacrime che stavano cercando di uscire.
«La mia preoccupazione principale, adesso» proseguì Raf, «è che tu stai bene. E magari che riesci a tirare fuori questa storia che ti opprime da tanto tempo. Perché sai... a me fa male vederti stare così male, e mi viene da dirti: basta, smettila, se devi stare così male. Però ho cambiato idea proprio adesso, mentre ti abbracciavo e mi hai detto che volevi annullarti. Durante i giorni più tremendi di crisi io pure avrei voluto morire, pur che smettessero. Ma non sempre il dolore, anche il dolore che ci sembra più tremendo, non sempre è cattivo. Magari serve a superare qualcosa, no? E allora magari, adesso, tu stai male, ma soffrire ti servirà anche a superare una cosa che non hai mai più affrontato dopo che ti è successa.»
Nic rifletté su quelle parole.
«Ho detto una cazzata?»
«No, al contrario. Hai detto una cosa che da te non mi sarei mai aspettato.»
Raf sorrise.
«È vero che bisogna avere il coraggio di affrontare la sofferenza. È una cosa in cui io credo molto. In un certo senso credo di doverlo anche a quel povero uccellino che ho ferito, trovare il coraggio di affrontare quello che gli ho fatto, prendermi la responsabilità del dolore immenso che ho causato.» Sentiva di nuovo le parole strozzarsi nella sua gola, ma prese dei gran respiri per contrastare i suoi impulsi codardi.
«Insomma, c'era questo povero uccello, ferito in modo orribile, che soffriva...» Nic strinse i denti. «Soffriva per colpa mia. E mio padre, giustamente, ogni tanto anche lui dice cose giuste, mi ha detto di tirargli il collo per finirlo.»
«Sarà stato anche giusto, ma immagino che non sarà stato facile» disse Raf.
Nic mosse lentamente la testa a destra e sinistra. «No. Talmente difficile che non ne ho avuto il coraggio. Mi sono messo a frignare come una bambinetta e...»
«Nic, no.»
Nic gli rivolse uno sguardo perplesso.
«Piangere come una bambinetta è una delle cose che ti diceva sempre tuo padre. Non parlare con la sua voce.»
«Ma è quello che...»
«E devi smettere di pensarlo, allora. Piangere come un ragazzo traumatizzato. Queste sono le parole giuste. Oppure: piangere come un ragazzo che ha dei sentimenti umani di compassione.»
«Se avessi avuto davvero compassione il collo glielo avrei tirato!» sbottò Nic.
«Va bene, forse compassione è la parola sbagliata, ma il motivo per cui piangevi era che sei una persona sensibile e... no!» Raf alzò la voce, vedendo che Nic stava per interromperlo. «Smettila di dire che essere sensibili è una roba da finocchi! Smettila di pensarlo! Te l'ho già detto prima, non farmi ripetere! Eri sensibile, anzi, sei sensibile, a differenza di tuo padre che ha il cuore di pietra, e da ragazzo sensibile stavi soffrendo. Questa è la ragione per cui piangevi.»
Nic si arrese e non obiettò.
«Continua» lo esortò Raf.
Nic prese il solito respiro, gli sembrava che quei respironi lo calmassero un po'. «Mi sono messo a... stavo per dire frignare ma poi ti incazzi. A piangere. Mi sono messo a piangere e... mi sono messo in testa un'idea del cazzo. Siccome il senso di colpa mi stava dilaniando, mi sono auto convinto che avrei potuto salvare quell'uccello. Curarlo. Mio padre e gli altri due cacciatori che stavano con noi all'inizio ridevano, mi prendevano per il culo, uno di loro, non ricordo più chi, mi ha chiamato crocerossina, e alla fine mio padre ha ceduto: bon, Nico... vuoi curarlo? Torniamo a casa che queste scenate mi hanno rotto i coioni. Adesso non mi ricordo le parole esatte, più o meno mi ha detto così. Vediamo se hai una carriera come veterinario, mi ha detto, e io...» Nic chiuse gli occhi e pianse sommessamente, senza fare rumore, per qualche secondo. Sentì la mano di Raf sulla sua e lasciò che gliela prendesse.
Riuscì a calmare la crisi e ricominciò. «L'ho preso su, ho preso in mano quel corpicino caldo, dio... mi sembra ancora di sentirlo sulle mani, era un caldo appiccicoso perché sanguinava, ma era caldo... perché...»
Nic scosse la testa. Non ce la poteva fare. Gli venne di nuovo da piangere. «P-perché era vivo... Cazzo, non posso metterci quaranta minuti a raccontare 'sta storia di merda!» sbottò.
«Puoi metterci tutto il tempo che vuoi» disse Raf. Gli asciugò le lacrime con le dita, impalmò la guancia di Nic e prese ad accarezzarla col pollice. Nic restò fermo a occhi chiusi a prendersi quell'affetto, in silenzio, gli fece bene, lo calmò.
Quando fu pronto a ricominciare, tolse la mano dell'amico dal suo viso. «Mi sono levato il giubbotto. Eravamo andati lì con un furgoncino di quelli col cassone aperto dietro, un Daily, i tre adulti seduti davanti, io dietro seduto nel cassone. Mi avevano messo una coperta per farmi sedere all'andata, io ho preso coperta e giubbotto e ho fatto una specie di nido per far stare comoda quella povera bestia.»
Nic sbuffò, sprezzante. «Come se avesse bisogno di stare comodo! Probabilmente era anche spaventato, con me che lo maneggiavo, figurati. Dolore e paura, ecco cosa provava quell'uccello, e cosa ha provato finché non è morto! Ecco cosa gli ho regalato cercando di salvarlo come un coglione!» Nic stava gridando. Odiava gridare, ma non riusciva a trattenersi. Sentiva il bisogno di farlo, come se potesse, in questo modo, rimproverare il se stesso del passato. «Sofferenza e paura! Non ha smesso un secondo di gridare, quel suo strano grido muto, sempre più debole, e io... non sapevo neanche che cazzo fare, gli premevo tipo l'aletta con la mano, pensando di fermare l'emorragia. Gli sistemavo intorno al giubbotto, per cercare di tenerlo al caldo. Io stavo battendo i denti dal freddo, siamo arrivati a casa che ero congelato, a prendere il vento nel cassone scoperto, come un coglione. E quando siamo arrivati a casa ormai l'uccello era morto. E io ero lì che piangevo come un coglione. Sei contento? Non piangevo come una femminuccia, piangevo come un coglione.»
Raf si era commosso. Aveva la lacrima così facile, quel ragazzo.
Nic tirò su col naso. «E quello stronzo di mio padre e era persino contento, sembrava contento. Aveva un sorrisetto trionfante! Te l'avevo detto! Lo sapevo! Io sapevo benissimo che sarebbe successo questo, mi ha detto. Te l'avevo detto che dovevi tirargli il collo, ma tu vuoi fare sempre tutto di testa tua. Così impari cosa succede quando non ti comporti da uomo!»
«Che pezzo di merda... Ma perché non gliela tirato lui il collo, allora?»
«Perché a lui che l'uccello stesse male non gliene fregava un cazzo. Gli interessava solo di insegnarmi una lezione a me. E me l'ha insegnata.»
«Ma a che prezzo? Cristo santo! Più conosco tuo padre più lo odio! Penso che sia la persona più merdosa che abbia mai conosciuto in vita mia. E credevo che fosse mio padre, lo stronzo.»
«Anche tuo padre non scherza. Il pezzo che mi ha fatto quando sono andato a denunciare la tua scomparsa ai carabinieri... No non farmici pensare, che uomo di merda. Sai, da un certo punto di vista penso che mio padre sia meglio. Almeno a lui di me gliene frega qualcosa, nel suo modo completamente crudele e distorto.»
Raf sospirò. «Va be', dai. Non ha senso che ci mettiamo a fare a gara di merdosità genitoriale.»
«La mia storia comunque non è ancora finita. C'è una piccola conclusione squallida, che è la vera ragione per cui ho smesso di mangiare carne. Forse, se fosse finita qui, dopo i primi due giorni di shock mi sarei ripreso e le cose pian piano sarebbero tornate alla normalità. O forse no, non lo so, magari col tempo sarei arrivato alle stesse conclusioni.»
«E cosa altro può essere successo ancora peggio di quello che mi hai già raccontato?»
«Son stato malissimo per due giorni. Non avevo voglia di mangiare, stavo chiuso in camera, con mio padre che ogni tanto veniva a gridarmi da dietro la porta di smetterla di fare la femminuccia. E poi sono riuscito a riprendermi, e a cena quella sera c'era carne nel piatto, una cosa che sembrava pollo.»
«Oddio, non dirmi...»
Nic annuì. «Hai già capito. Io, lì per lì, invece no. E ho cominciato a mangiare la carne, ma mentre la mangiavo mi faceva venire in mente l'uccello, e facevo fatica a mandarla giù. Allora gliel'ho detto, a mia madre. Mamma, scusa, ma mi fa un po' impressione mangiare il pollo, mi fa tornare in mente l'uccello morto. Posso mangiare qualcos'altro per stasera? E e quindi mio padre mi dice: no! E invece lo devi proprio mangiare! Quello lì che stai mangiando tu, è proprio l'uccello che hai cacciato, perché devi capire che la sua morte non è stata una morte inutile!»
Raf portò entrambe le mani alla bocca. «Cazzo, Nic! Adesso capito perché eri così sconvolto prima! Praticamente ti ho detto la stessa cosa che ti aveva detto tuo padre!»
«Sì» ammise Nic. «Quando l'hai detto mi sono tornate in mente quelle parole e mi sono sentito di nuovo di merda. Perché mio padre aveva ragione, e anche tu avevi ragione prima. Una volta che è una bestia è morta, buttare via la sua carne è un insulto alla sua morte, perché almeno se la mangi la sua morte è servita a qualcosa, a nutrirti.»
«Ma vaffanculo, Nic! Sarà anche giusto come principio, ma quello che ha fatto tuo padre era una crudeltà! Cazzo! Eri stato male come un cane per due giorni, e lui l'ha visto che stavi male! Se non voleva sprecare la morte di quell'uccello se lo mangiava lui. Fartelo mangiare a te era solo puro sadismo.»
Nic ebbe – lo promise a se stesso – l'ultima crisi di pianto della giornata. Si ricompose e terminò la storia: «Sì, su quello non ci sono dubbi. Fatto sta che dopo che mi sono reso conto di cosa avevo appena mangiato, ho rivisto quell'uccello che soffriva e mi è venuto da vomitare. Ho rimesso per terra quel poco che avevo mangiato, con mio padre che bestemmiava, mio nonno col suo solito disprezzo, che mi dava del viziato e del rammollito e diceva di tutto ai miei genitori perché mi avevano tirato su male, mia madre che come suo solito faceva la melodrammatica, la Grazia che diceva che schifo! che schifo! e la Fulvia, invece, forse l'unica persona sana di mente a quel tavolo, che diceva stronzo a mio padre. Poi sia io che la Fulvia ci siamo presi una sberla in faccia, e da quel giorno io non sono mai più riuscito a mangiare della carne. Per un periodo ho mangiato pesce, mi faceva meno impressione, non lo collegavo a un animale che potesse provare sofferenza come invece un pollo, o una mucca, o un maiale. Poi però un giorno ho visto un cartoccio pieno di sardelle, un giorno che mia madre voleva preparare le sardelle in saor, e vedevo lì tutti quei pesciolini morti, con i loro occhietti fissi, e mi sono messo a pensare che erano esseri viventi uguali a quegli altri, hanno cominciato a farmi impressione anche quelli e ho smesso di mangiare anche il pesce. Tu pensavi che io fossi una persona nobile, che non mangiavo carne per intenti nobili, ma la verità è solo questa: mi fa impressione. Mi viene da vomitare solo all'idea.
«E ci sono alcune cose che, a essere sincero, non mi fanno neanche impressione, potrei anche mangiarle. Tutti quegli animaletti che mentalmente non riesco a collegare direttamente a un animale. L'unico motivo per cui non le mangio è per coerenza, tipo, non so, le vongole, i molluschi, ma anche se mi metti pasta di acciughe in un piatto, qualche volta mi è capitato di mangiarla, però poi mi sono sentito un coglione e ho deciso: che cazzo, se devo essere vegetariano devo essere vegetariano. E ho smesso di mangiare anche quelle cose lì.»
«Nic, ma chi se ne frega qual è il motivo per cui hai smesso? Anzi, ti dirò di più: ho molta più stima di te di uno che lo fa solo per vantarsi, per far vedere che è una persona giusta, etica. Tu lo fai perché sei sensibile, che per me è la qualità più bella che un essere umano può avere.»
Nic sorrise. «Prima o poi mi abituerò a questa cosa che mi dici, e non la prenderà come un insulto al mio essere maschio.»
Raf Rise. «Posso insultare ancora un po' la tua maschia mascolinità abbracciandoti?»
Nic allargò le braccia. «Poi però basta, eh?»
I due ragazzi si strinsero. Era bello stare stretti, vicini. Nic chiuse gli occhi e cercò di dimenticare le preoccupazioni, di scacciare dalla testa l'idea che un abbraccio fosse una debolezza.
«Ogni dettaglio che mi racconti di te stesso è un regalo prezioso che porterò per sempre nel cuore » disse Raf.
Nic sbuffò. «E poi dici che non sei un poeta.»
—
Note 🎶
C'è un altro bellissimo verso di questa bellissima canzone di De Andrè contro la guerra, che per me potrebbe metaforicamente adattarsi alla storia di Nic:
E se gli sparo in fronte o nel cuore
Soltanto il tempo avrà per morire
Ma il tempo a me resterà per vedere
Vedere gli occhi di un uomo che muore
Una storia di compassione che si ritorce contro, nel caso di Piero nel modo più tragico possibile, in quello di Nic con una lezione traumatica che lascerà in lui ferite profondissime. Perché la morte e la sofferenza di quell'animale per me sono un po' l'origine del suo complesso dell'eroe, del suo desiderio di proteggere e salvare le persone che ama.
Ci rileggiamo lunedì... o forse il 1 dicembre in un piccolo progetto parallelo un calendario dell'avvento femminista (?) a cui sto lavorando da un po'. Se riesco a sistemarlo come vorrei lo vedrete apparire sul mio profilo, altrimenti fate come se non avessi detto nulla, ahah!
E lasciatemi una stellina per tutti i sentimenti che Nic ha represso nella sua vita!
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top