62. Metti tutta la forza che hai nei tuoi fragili nervi

Quando ti alzi e ti senti distrutto
Fatti forza e va incontro al tuo giorno
Non tornar sui tuoi soliti passi
Basterebbe un istante

(E. Bennato, Un giorno credi, 1973)

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10/11 maggio 1989

Quando arrivarono a Bovec era ormai sera tardi e Raf stava gemendo da almeno un'ora. 

Nic scese dalla macchina e dovete aprirgli la portiera, perché lui non sembrava in grado di farlo.

«Senti Nic... non è una buona idea. Portami in un serT, in un ospedale... da qualche parte dove mi danno il metadone» disse continuando a restare seduto sul sedile, sempre in quella posizione coi piedi tirati su.

Nic appoggiò una mano sulla sua spalla. «Ce la puoi fare, Raf. Non è eterno, passa. Devi solo resistere.»

«Non toccarmi. Mi da fastidio la mano» gemette.

Nic tolse la mano. «Ok, scendi adesso, andiamo in casa.»

Raf scosse la testa con un movimento frenetico. «Portami in un ospedale.»

«Preferisci passare la notte in pronto soccorso? Con rischio che nemmeno ti danno qualcosa?»

Raf rispose con l'ennesimo gemito.

«Scendi» gli ordinò Nic.

«Mi puoi dare almeno qualcosa da bere?»

«No. Devi buttare fuori tutta la merda dal corpo.»

Il suo sguardo si fece rabbioso. Digrignò i denti. «Se solo non mi buttavi la roba, stronzo!»

Nic strinse le mascelle. «Se non ti buttavo la roba cosa facevi? Sentiamo la tua idea geniale. Ti facevi. E poi? Quando finiva la roba? Ne compravamo altra?»

«No, ma magari potevo ridurre in modo graduale...» Il suo tono, adesso, era di nuovo lamentoso.

«Non mi risulta che ci sia una singola comunità di recupero che riduce la roba in modo graduale.»

«Il metadone te lo danno come sostitutivo e poi lo riducono graduale! È uguale! È un oppiaceo anche il metadone, sai?»

«E allora perché usano il metadone e non direttamente l'eroina se è uguale?»

«In certi posti usano anche l'eroina!»

«Mi stai raccontando una cazzata! Smettila di raccontare cazzate!» Il volume vocale di Nic si stava via via alzando.

«Ti odio!» gridò Raf in risposta. «Ti odio ti odio ti odio ti odio ti odio!» Era un grido roco e disperato, con schizzi di saliva che esplodevano fuori dai denti.

Nic si sforzò di rimanere impassibile. Dentro stava provando una pena immensa per lui. «Alzati e andiamo dentro.»

Lamentandosi, mugolando, borbottando, Raf infine si alzò. «Ma tipo un Aulin?»

«Un Aulin? Ma che cazzo ci fai con un Aulin? Ma sei scemo?»

«Non lo so! Qualcosa che mi faccia stare un po' meno male!» Raf sembrava avere solo due modalità espressive: lamento lagnoso o grido rabbioso. «Mi scappa da cagare.»

«Il bagno è a tua disposizione.»

Entrarono, Nic chiuse a chiave la porta a doppia mandata. Avrebbe voluto sprangare anche le finestre, se avesse potuto farlo in qualche modo. L'appartamento era solo al primo piano, e Nic era terrorizzato all'idea che Raf, per scappare, potesse buttarsi fuori dalla finestra, magari spezzandosi una gamba nell'impatto, o peggio.

Raf corse verso il bagno. Ricordava ancora dov'era, ci andò a colpo sicuro. Spalancò la porta, non si preoccupò nemmeno di chiuderla. Nic, che era sicuro non avesse niente addosso, preferì lasciarlo solo e nel frattempo andò ad aprire i rubinetti dell'acqua e del gas e accese il riscaldamento. Sua madre aveva ragione: faceva ancora decisamente freddo, lì in montagna.

Dopo un po' sentì dei conati provenire dal bagno. Raf uscì dopo altri dieci minuti, stravolto. «Mi puoi dare uno straccio?»

«Hai sporcato? Non preoccuparti di pulire, pulisci te stesso, piuttosto.»

«Puoi entrare se vuoi, non ho cagato. Ho solo vomitato e ho schizzato un po' fuori dalla tazza, scusa. Ma sono in grado di pulire, se mi dai uno straccio.» Fece qualche respiro affannato. «Sto sempre peggio. Ed è solo l'inizio! Io lo so già che va molto peggio di così!»

«Vai a sciacquarti la bocca e la faccia, poi vieni in camera, intanto io vado a cambiare le lenzuola, ci metto un secondo. Poi mettiti a letto. Ti lascio il matrimoniale, così stai più comodo.»

«Mi lasci? Cosa vuol dire mi lasci? Mi vuoi lasciare solo?»

Nic sospirò. «No, forse hai ragione. Meglio se non dormi solo. Porto il materasso singolo lo metto per terra. Sul letto con te mi rifiuto di dormirci, sia perché penso che stai molto meglio da solo nelle condizioni in cui sei, sia perché non voglio che per sbaglio mi vomiti addosso.»

«Nnn...» 

«Cos'hai adesso?»

«Niente. Sto male. Generico. Magari se mi sciacquo un po' sto meglio.»

La notte di Raf fu un crescendo di malessere e ansiti. Nic non chiuse occhio. Non aveva nemmeno preparato la cena. Raf  aveva cercato di mangiare, ma qualsiasi cosa Nic gli avesse proposto gli faceva venire la nausea quindi per quella sera si limitò a buttare sotto i denti una singola mela, tagliata a pezzi piccoli dallo stesso Nic. 

Nic era troppo stanco per cucinare solo per se stesso, quindi mangiò il mezzo panino che era avanzato a Raf dall'autogrill, togliendo la fettina di prosciutto e lasciandoci solo la mozzarella gommosa, col pane che era diventato ormai stantio.

Mentre soffriva ascoltando il suo amico soffrire, si rese conto che per l'indomani avrebbe dovuto pianificare meglio i pasti. Raf non poteva stare a digiuno per una settimana, o quanto sarebbe durata quella crisi.

Sete, per fortuna, sembrava averne parecchia, e Nic non era stupito considerato che si era alzato dal letto tre volte con scariche di diarrea e che aveva consumato un lenzuolo a furia di soffiarsi il naso. Altri conati di vomito, per fortuna, durante la notte non ne ebbe.

Rimediò alle prime luci dell'alba. Non fece in tempo ad alzarsi dal letto che sporcò il pavimento con un rigurgito di bile. Pianse guardando a terra e chiedendo scusa Nic che dovete pulire. A metà della pulizia, Raf senti di nuovo il bisogno di andare in bagno, e lascio lì Nic da solo.

Quando fu di ritorno, Nic se lo ritrovò davanti con un'andatura da morto vivente, un'espressione stralunata, le sclere iniettate di venuzze rosse e due occhiaie da far spavento. Fu scosso da un tremito, prima di parlare: «Sono al culmine della sopportazione. Basta.»

«Cosa significa basta? Cosa vorresti fare?»

«Non posso stare un altro mese così.»

«Non dura un mese. Lo so benissimo che non dura un mese, è solo qualche giorno.»

«È più di qualche giorno. Sto tanto male.»

Nic cercò di parlargli in tono dolce, anche se la dolcezza non era il suo forte. «Lo so che stai male. Se potessi prendermi il tuo male e viverlo al posto tuo, lo farei.»

«Riportami a Roma.»

«No. Rimettiti a letto. Cerca di riposare.»

«Impossibile» disse lui. Ma si butto a letto a peso morto e chiuse gli occhi. Per qualche minuto sembrò quasi tranquillo. Poi il tormento ricominciò.

Alle sette Nic scese per andare a comprare qualcosa da mangiare. Voleva cercare di nutrirlo almeno un po'. Anche se poi, probabilmente, avrebbe vomitato buona parte di quello che avrebbe mangiato. Ma qualcosa doveva pur provare a fare. Si raccomandò con Raf di non fare sciocchezze, gli disse che sarebbe stato fuori pochissimo. Per fortuna c'era un piccolo negozio di alimentari proprio dall'altra parte della strada dove Nic comprò del pane fresco, del burro, una confezione di caffè per moka e una di confettura. Aveva ancora  quasi tutta la frutta che gli aveva lasciato la madre, poi ne avrebbe comprato dell'altra.

Quando uscì dal negozio vide Raf che si stava sporgendo pericolosamente fuori dalla finestra. 

«Cosa fai, coglione!» gridò, terrorizzato. «Torna dentro!»

«Mi ammazzo, Nic! Se non mi porti via da questo buco di merda mi butto di sotto! Mi ammazzo!»

«Coglione! Se cadi giù dal primo piano finisce che ti rompi solo una gamba! Dove preferisci passarla l'astinenza, in ospedale o a casa?»

Raf tirò fuori una gamba e sedette a cavalcioni della finestra.

Nic era ormai lì sotto, mollo le sporte della spesa a terra. Se Raf si fosse davvero buttato si sarebbe buttato addosso a lui.

«Ti prego» disse Nic, cercando di usare il tono di voce più tranquillo e conciliante che gli riuscisse di produrre. «Torna dentro. Sto salendo.»

Raf stava piangendo e smoccolando. Tirò su col naso. «Tu non vuoi che mi faccio male, vero?»

«No.»

Qualche persona si era radunata lì intorno, nel frattempo, e li guardava. Nessuno di loro sembrava parlare italiano, facevano  commenti in sloveno. Sembrava stessero facendo delle domande, sembravano preoccupati anche loro, ma Nic li ignorò.

«Allora se non vuoi che mi butto di sotto e mi faccio male, giura che mi riporti a casa mia. A Roma. O anche a Bologna, è uguale, conosco spacciatori anche lì.»

«Raf. Ragiona. Cerca di capire che è meglio per te se torni dentro e non fai cazzate.» Il tono di Nic era sempre estremamente tranquillo.

«Potrei cadere male e spaccarmi l'osso del collo, rimanere paralizzato. Giura che mi riporti a Roma o a Bologna!»

Nic fu tentato per un attimo di giurare, al solo scopo di farlo tornare dentro, per poi disattendere quel giuramento una volta tornato in casa. Ma poi pensò che sarebbe stato ancora peggio, perché Raf avrebbe capito che non poteva fidarsi dei suoi giuramenti, e all'uscita successiva di Nic, Raf avrebbe finito per fare ben di peggio.

«Non posso giurartelo. Sarebbe una bugia. Non ti posso portare lì. Non ce la faccio a vederti a morire in quel modo.»

«Preferisci se mi ammazzo subito allora?» lo minacciò Raf, con una luce cattiva negli occhi.

«Ma io non voglio che muori, cazzo! Lo capisci o no che è proprio questo il punto?!» gridò Nic, al culmine della sopportazione.

Raf piangeva, disperato.

«Ti ho comprato una colazione. Se mangi qualcosa secondo me stai un po' meglio. Se vuoi ti compro un Aulin. Penso che ce l'abbiano qualcosa che assomigli all'Aulin, qua in farmacia. Credo che è un Aulin te lo posso anche dare.»

«Dici?» piagnucolò Raf.

«Sì, sì! Questo te lo posso giurare. Ti giuro, andiamo insieme in farmacia e ti prendo un Aulin.» anche Nic si sentiva disperato e sul punto di piangere, ma ormai era diventato bravissimo a trattenere le lacrime.

Raf annuì. Tirò dentro la gamba, e Nic ebbe l'impressione che un peso di cento tonnellate si fosse appena sollevato dal suo cuore.

«Chiudi la finestra, per favore.»

«Non mi butto. Ti giuro.»

«Chiudila lo stesso, altrimenti entra freddo.»

Raf annuì di nuovo e chiuse il vetro.

Nic fece la corsa più veloce e disperata della sua intera vita, attraversando il portone di casa, le scale e la porta dell'appartamento. La foga gli fece mirare male la chiave nella toppa, la serratura si inceppò e finì per metterci più tempo che se avesse fatto con calma.

Corse alla camera da letto, la finestra era quella, trovò Raf lì in piedi, in maglietta e boxer, impalato che guardava fuori. Nic non riuscì a trattenersi e lo abbracciò. Aveva un bisogno fisico di sentire che era vivo e intero.

«Mi da fastidio se mi tocchi la pelle» disse lui con un filo di voce.

Nic mollò subito la presa. «Scusa.»

«Però se mi abbracci sento meno freddo. Abbracciami.»

«No, stupido. Hai bisogno di vestirti. Dovrebbe esserci qualche vecchio maglione in armadio.»

C'erano, con delle fantasie inconfondibilmente anni Settanta. Odoravano di naftalina. Nic diede a Raf degli indumenti caldi, poi lo invitò ad andare in cucina, ma si avvide che stava troppo male, allora lo fece tornare a letto, dicendogli che gli avrebbe portato la colazione in camera.

Pane caldo imburrato con confettura di marelice, che a giudicare dal disegno sull'etichetta erano albicocche, caffè appena fatto e fragole, fragole fresche dell'orto di sua madre, che andavano consumate subito o sarebbero marcite.

«Mi viene da vomitare solo a vederla» disse Raf quando Nic gli portò la colazione su un vassoio. «Però ho fame. Ci provo.»

«È un buon segno che hai fame.»

Raf annusò il pane, facendo gorgogliare il muco che aveva nel naso. «Anche col naso chiuso sento che ha un buon profumo.»

Mangiò mezza colazione, promise che avrebbe mangiato la seconda metà più tardi e che se avesse introdotto un altro grammo di cibo nel suo stomaco l'avrebbe vomitato all'istante. Poi si ributtò a letto e ricominciò a gemere e agitarsi.

Raf aveva ragione. Il malessere non era ancora arrivato al suo culmine. L'espressione del suo disagio non fece che aumentare d'intensità per tutta la giornata, e il poco cibo che Nic riuscì a convincerlo a mangiare lo vomitò.

A intervalli sempre più frequenti, Raf implorava Nic, con frasi che più o meno avevano sempre lo stesso significato: ne ho bisogno, ne ho voglia. «In tutta la mia vita, non ho mai avuto tanto bisogno di qualcosa.»

Nic si sarebbe arrangiato ancora per quel giorno con i pasti, grazie alle cose che gli aveva dato sua madre. Ma l'indomani sarebbe stato necessario uscire per comprare qualcos'altro, e Nic non aveva idea di come fare, perché Raf gli sembrava sempre più senza controllo. Se quella mattina era riuscito a farlo desistere dal proposito di buttarsi dalla finestra, nelle condizioni in cui si trovava in quel momento era quasi certo che avrebbe combinato qualche sciocchezza se lo avesse lasciato da solo anche per pochi minuti.

Nic stava meditando di affacciarsi e chiedere a qualcuno in strada di comprargli qualcosa, lanciandogli i soldi con un sacchetto, sperando di trovare qualcuno che parlava italiano: non distavano molto dal confine e non gli sembrava un'impresa impossibile.

Tutti i suoi progetti vennero sconvolti dall'arrivo del padre, intorno alle sei di sera.

Aveva una copia delle chiavi di quella casa, e Nic maledisse e mentalmente sua madre per non avergliele consegnate entrambe. Poi però pensò che forse l'avesse fatto perché temeva qualche ritorsione.

Nic stava aiutando Raf ad alzarsi dal letto per andare in bagno, e si spaventò sentendo il rumore della chiave nella toppa. Lasciò solo il suo amico, corse all'ingresso e se lo trovò davanti.

Fu strano rivederlo dopo tanti anni. Non era cambiato molto nel viso e nel fisico, ma i suoi capelli un tempo castani erano ormai completamente grigi.

«Ingrato schifoso» fu la prima cosa che disse appena entrò in casa. Il suo tono era sommesso ma furibondo.

Nic decise di giocarsi la carta della pietà, di non affrontarlo con aggressività. «Ti chiedo scusa. So che sei contrario, ma non sapevo dove altro andare.»

«Fate le valigie e andatevene entro mezz'ora, altrimenti chiamo la milicija.»

Non sapevo che sapessi parlare sloveno, fu la prima battuta di risposta che venne in mente a Nic. Ma si trattenne dal farla, non voleva provocarlo. Inoltre, purtroppo, Nic era piuttosto certo del fatto che in quella zona di confine i miliziani parlassero almeno un po' di italiano, e che quindi il padre sarebbe stato perfettamente in grado di farsi capire.

Nic vide gli occhi del padre saettare alle sue spalle; si voltò e vide Raf in piedi in mezzo al corridoio, tutto sudato, con le mani sulla pancia è un'espressione sofferente. Nic si aspettava che lo implorasse di restare lì, ma che aspettativa stupida! In realtà Raf non vedeva l'ora di andare via.

«Signor Bressan, mi aiuti! Suo figlio mi ha rapito! Mi porti via di qua!»

«Io con te non ci parlo, finocchio drogato del cazzo!»

«Papà...»

«E tu hai perso il diritto di chiamarmi papà.»

Nic ingoio un grumo di disperazione che stava cercando di risalire in gola. Aveva due persone contro. Due persone che non volevano che lui continuasse occupare quella casa. E non sapeva come fare per uscire da quel vicolo cieco.

«Come preferisci che ti chiamo? Signor Bressan va bene?»

Il padre sembrò disturbato da quella richiesta. Sembrò rendersi conto solo in quel momento dell'implicazione della sua affermazione di prima. «Ma cosa dici, stupido. Sono o non sono ancora tuo padre?» borbottò in tono sommesso.

Nel frattempo Raf, arrancando, era arrivato accanto a Nic, alla fine del corridoio. Si appoggiò a lui perché non riusciva nemmeno a stare in piedi, e fu paradossale: si serviva del suo aiuto, ma a parole lo rifiutava. «Io non voglio stare qui. Chiami subito questa milizia» disse.

«Ti ho detto che non ci parlo, con te!» sbottò il padre.

Raf sembrava aver dato fondo a tutte le sue energie per camminare fino lì e pronunciare le parole che aveva pronunciato. Continuando a tenersi aggrappato a Nic, cadde sulle ginocchia, rischiando di far cadere anche l'amico.

«Ma non lo vedi quanto sta male? Non hai neanche un po' di pietà per lui?»

«Non ho nessuna pietà per i drogati.» Il viso del padre era una maschera crudele.

Nic, che stava trattenendo frustrazione e lacrime da giorni, cedette, stanco e disperato com'era. Cominciò a piangere.

«Il contessino viziato, qua. Come tutti i viziati ha fatto una brutta fine. Pensano di poter fare quello che vogliono, e poi guarda!» Il padre indicò Raffaele che gemeva inginocchiato a terra. «Guarda con la loro arroganza dove finiscono. Credono che a loro queste cose non gli fanno niente, perché sono abituati che non hanno conseguenze quando fanno le cazzate, che i soldi risolvono sempre qualsiasi cazzata che fanno. Poi fanno la cazzata troppo grossa, e guarda come finiscono! Non ho nessuna pietà per gente così.»

Nic non aveva né la forza, né la prontezza mentale per rispondere. Riusciva solo a piangere. Era esausto.

«E tu finiscila di piangere come une frutute.»

Nic ci riuscì davvero. Ebbe un ultimo singhiozzo, tirò su col naso e il suo pianto si fermò. Si asciugò gli occhi con la manica della felpa.

Fece un sospiro e cercò di assumere un'aria dignitosa. Tirò le spalle indietro, alzò la testa. «Che cosa devo fare perché ci lasci stare qui?»

Raffaele biascicò qualcosa di incomprensibile. Entrambi lo ignorarono.

«Niente» fu la spietata risposta del padre.

«Ti pago.»

«I soldi non comprano tutto. Te l'ha insegnata lui questa bella lezione? A me i soldi non mi comprano.»

«Mollo il tennis e torno a vivere a casa. Aiuto la Fulvia con l'azienda.»

«Cosa?» disse Raf con un sospiro. Nic si stupì che avesse sentito.

Il padre sembrò molto colpito da quell'offerta. La sua espressione cambiò. Da dura e crudele divenne sorpresa.

Nic e suo padre si fissarono in silenzio per parecchi secondi, e durante quel silenzio Raf parlò di nuovo, si rialzò persino in piedi per farlo. «No. Nic, non posso accettare che fai una cosa del genere per colpa mia. Ti giuro...» Raf strinse i denti, esibendo un'espressione sofferente, e Nic non riuscì a capire quanto la sofferenza fosse dovuta al suo malessere fisico, quanto allo sforzo di promettere quello che promise: «Ti giuro che vengo con te da qualche altra parte, e continuo la disintossicazione. Ma non mollare il tennis per me.» Detto questo, il suo corpo non resse più. Barcollando e arrancando, Raf corse verso il bagno, si chiuse dentro.

Nic non si preoccupò di lasciarlo da solo, per il momento. Aveva tolto tutti gli oggetti pericolosi che c'erano all'interno del bagno, tutte le cose con cui avrebbe potuto tagliarsi o farsi del male, e la finestrella era troppo piccola perché è una persona riuscisse a passarci.

«La Fulvia sta facendo un buon lavoro, sai? Non pensavo, ma sta davvero lavorando bene» disse il padre.

«Infatti non voglio portarle via il lavoro, l'aiuterei e basta.»

«Tu sei scappato di casa per giocare a tennis. Hai fatto un cine che non finiva più, hai fatto sacrifici, non credere che non lo so, tua mamma mi racconta sempre tutto, lo sai? Non credere che non mi interessa niente del mio unico figlio maschio.»

Nic non sapeva cosa dire. Non riusciva a capire in quale modo crudele suo padre avrebbe rigirato quel discorso.

«Cosa credi? Sono stato orgoglioso anch'io di te quando hai vinto quei tornei che hai mandato i trofei alla mamma. Sono stato fuori a bere con il Bepi, Angelo Spessot...» Il padre continuò con un breve elenco di conoscenti e amici. «Tutta la provincia di Gorizia adesso sa che hai vinto quei due tornei. E le targhette adesso sono sopra al caminetto, e le ho messe io lì, mica la mamma, io!»

Nic odiò se stesso perché nonostante esistessero al mondo poche persone che disprezzasse più del padre, quelle parole colpirono qualcosa in un buco profondo del suo cuore, forse era il bambino che un tempo era stato e che ancora viveva dentro di lui, il bambino che quel padre avrebbe voluto rendere fiero, quel ragazzino che aveva imparato a sparare per andare a caccia con lui.

Il pensiero della caccia lo riportò al sano odio che doveva continuare a provare. «Cosa vuoi dirmi con questo discorso?» gli chiese in tono duro.

«Che adesso sei pronto a buttare via tutti questi sacrifici che hai fatto, e tutte le vittorie, per cosa? Per quello là? Io avevo capito subito che quello là era un poco di buono che era capace solo di rovinarti la vita! Prima ti ha portato via la tua famiglia, e adesso ti porta via il tuo lavoro!»

«Non è lui che me le porta via, sei tu.»

Il padre strinse le labbra.

«Sei sempre stato tu! La famiglia non me l'ha portata via lui. Tu eri contrario che giocassi a tennis e quindi io me ne sono andato. Lui non c'entrava un cazzo.»

«Ti ha ben tirato su raccontandoti un sacco di...»

«Lui mi ha sempre detto che non ero portato e che avrei fatto meglio a scegliermi un'altra strada. Il tennis è stata una mia idea, la mia passione, nessuno me l'ha messa in testa. Io le cose le decido sempre con la mia testa!» Nic si batté un dito con forza sulla fronte, il padre rimase zitto.

«E per quanto riguarda il mollare tutto per lui... be', sì, lo faccio perché ci tengo a lui. Ma lo faccio solo perché tu ci vuoi cacciare via e io non so dove altro portarlo. E pur di salvargli la vita, sì, sacrificherei la mia carriera se tu mi costringessi a farlo. Io te lo sto proponendo solo perché so che è l'unica cosa che ti è sempre interessata di me. Che lavoro in azienda e che smetto di essere un finocchio. Siccome non posso smettere di essere un finocchio, mi resta solo il lavoro in azienda da offrirti.»

«Me lo dici come se lasciarti la casa è una cosa dovuta. Questa casa è mia! Decido io chi ci può stare, e drogati qua dentro non li voglio!»

«La casa è anche della mamma e la mamma ha detto che per lei posso starci.»

Il padre strinse le labbra. «Sarà anche sua sulla carta, ma con che soldi l'abbiamo comprata?» Il padre si batté il petto sollevando il mento. «È mia!»

«Quanti soldi vuoi per farmi stare qua? Ti pago.»

«Di nuovo? Ti ho detto che non mi interessano i soldi!»

«Però hai appena detto che consideri la casa tua perché l'avete comprata coi tuoi soldi.»

Il padre fu messo in evidente difficoltà da quelle parole. Nic ne approfittò e rincarò la dose. «E poi sulla base di cosa consideri i soldi tuoi?»

Lui spalancò la bocca, come scandalizzato. «Perché li ho guadagnati col mio sudore, con la mia azienda!»

«E la mamma non lavorava?»

«No!»

«Se la mamma fosse morta quando è nata la Grazia, chi ci avrebbe tirati su a noi tre, mentre tu lavoravi in azienda?»

Il padre rimase in silenzio.

«E chi avrebbe mandato avanti la casa e l'orto? E pulito. E fatto da mangiare.»

Il padre continuò a restare in silenzio.

«Avresti dovuto pagare una baby sitter, una signora delle pulizie, una cuoca, un giardiniere che curasse le piante, un operaio che badasse all'orto. Pensi che ti sarebbero restati soldi per comprare questa casa?»

Il padre dilatò le narici. Poi sventolò l'indice contro Nic. «Tu...» Continuò a sventolare il dito, in modo ancor più rapido. «Guarda che io so benissimo che tua mamma è una gran donna!»

«Quindi la casa è anche sua o no?»

«Vedo che ti hanno insegnato bene a girarti le cose a tuo vantaggio...»

Nic decise di smetterla coi giochetti psicologici. «Papà, per una volta nella tua vita, puoi mostrare un po' di pietà?»

Il padre socchiuse gli occhi e non rispose.

«La mamma non era contenta quando gliel'ho chiesto. Mi ha detto di no all'inizio. Poi ha visto Raffaele e siccome è una donna buona e ha capito quanto stava male, siccome ha capito che aveva un bisogno di aiuto disperato, mi ha lasciato le chiavi, e mi ha anche messo qualcosa da mangiare in uno zaino perché sapeva che la casa era vuota.» La voce di Nic si ruppe un po' sulle ultime parole. «Ecco cosa ha fatto la mamma.»

«La mamma è anche troppo buona. Tu ti approfitti di lei.»

«La mamma è una delle persone più buone che abbia mai conosciuto. Vorrei che tu fossi buono almeno la metà, no, almeno un decimo. Se fossi buono un decimo forse avresti un po' di pena per quel ragazzo e ci lasceresti stare qua.»

Il padre rimase zitto di nuovo. Anche Nic non disse niente, perché temeva che aggiungere altre preghiere sarebbe servito solo a innervosirlo. Nel silenzio si udivano rumori di vomito provenienti dal bagno.

«Che schifo...» sussurrò il padre. «Non starebbe meglio in un ospedale?»

Nic scosse la testa. «Ci è già stato in clinica e ci è ricaduto. Ed è stato anche in comunità. E sì, so già cosa stai per dirmi: se ci è già ricaduto non ci ricadrà di nuovo?»

«Esatto.»

«Non lo so. Ma io devo almeno provare a salvarlo, e questa è l'ultima cosa disperata che mi è venuta in mente di provare. Non ci è riuscita la comunità, non ci è riuscita la clinica, ma quelli erano degli sconosciuti. Io sono il suo migliore amico. Forse ha bisogno di un amico vicino. Forse così funziona.» Nic pianse di nuovo, senza vergogna. «Non so se funziona, ma devo provarci. N-non voglio che muoia in quel modo.»

«Mi rovina la casa. Io lo so come sono fatti questi drogati. Ladri, criminali, violenti... malati di AIDS...» Il tono del padre era sommesso, ora.

«Raffaele non è né violento né criminale. Al massimo sporca un po', ma ti giuro che terrò tutto pulito.»

«Mica ho detto che ti lascio stare qua!» disse il padre in tono quasi offeso. E proprio mentre lo diceva Raf emerse dal bagno.

«Nic, ho freddo...»

Nic voltò le spalle al padre e andò da Raf. «Mettiti a letto, ti metto una coperta in più.» Sentì i passi del padre che li seguiva. Lo ignorò e accompagnò Raf a letto.

«Le lenzuola sono fredde...» Raf stava battendo i denti. «Mi fa male quando mi toccano la pelle.»

«Se stai fermo vedrai che ti abitui. Bevi un po' d'acqua.»

«Non mi va...»

C'erano una brocca e un bicchiere sul comodino, Nic gliene versò uno e glielo porse. «Se non bevi ti disidrati.»

Raf si fece forza e a piccoli sorsi bevve. 

Nic sentiva la presenza del padre sull'uscio della camera. «Tu dormi lì?» disse mentre Raf ancora beveva.

Nic si voltò. Il padre stava indicando il materasso a terra.

«Sì» rispose Nic.

Il padre fece un'espressione a metà tra lo scherno e il disgusto. «Non stai a letto col tuo fidanzato?»

«Non è il mio fidanzato. È il mio migliore amico. Lui è sposato, non l'hai letto sul giornale? È sposato con Viktoria Balakina, quella tennista italo-russa che ha vinto gli Australian Open in doppio con Elisa Morandi.»

L'espressione del padre si incupì. «Elisa... era quella Elisa che tua madre mi ha detto che...»

«La mia ex ragazza, sì.»

Il padre strinse le labbra. «Perché vi siete lasciati?»

«Ci ho provato, papà. Ma non ce la faccio.»

«E perché non lo aiuta sua moglie, al contessino?»

«Ah, Vika...» mormorò Raf.  «Povera Vika so solo farla soffrire.» Stava ancora battendo i denti, come se nella casa la temperatura fosse sotto lo zero, per cui Nic andò da lui, gli prese di mano il bicchiere vuoto e lo invitò a stendersi. Poi prese una coperta dall'armadio e gliela mise sopra.

Solo dopo aver finito si rivolse di nuovo al padre. «Sua moglie è stufa di aiutarlo. Non ce la fa più.»

«E tu no.»

Nic scosse la testa. «No. Io non mi arrenderò mai.»

Il padre guardò Raffaele che gemeva sommessamente sotto le coperte. Poi guardò di nuovo il giaciglio di Nic. Infine si rivolse al figlio. «Prima che andate via di qua voglio che mi chiami. Torno su e controllo tutta la casa in ogni angolo e se non è pulita, intera e splendente com'era quando siete arrivati ti faccio pagare ogni danno il doppio di quello che mi costa!»

Nic sentì quasi traboccare il cuore fuori dal petto, dalla gioia. «Grazie papà!»

«Vado via prima che cambio idea.»

Uscì dalla stanza e dalla casa facendo rimbombare i suoi passi pesanti. Sbatté la porta dietro di lui, e Nic si lasciò andare a un'ultima crisi di pianto perché se non l'avesse fatto sentiva che sarebbe esploso. Si ripromise: doveva essere l'ultima. Piangere non serviva a niente.

--

Note 🎶

Chi se l'aspettava che il padre di Nic cedeva? Raf doveva essere in condizioni davvero penose, se è riuscito a smuovere un minuscolo sentimento di pena nel cuore di pietra del vecchio Giacomo. O forse sono stati i trucchetti psicologici di Nic. O forse entrambe le cose.

La vedete una via d'uscita a questa situazione? Intanto, aspettatevi un altro capitolo forse persino più intenso di questo lunedì prossimo.

E se volete sostenere la storia, lasciatemi una stellina per ogni lacrima trattenuta da Nic in tutta questa storia.

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