48. Per poterti sfiorare non so cosa darei

Per un'ora d'amore non so cosa farei
Per poterti sfiorare non so cosa darei

(A Stellita, G. Belfiore, Per un'ora d'amore, 1976)

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Marzo 1984

Un grido orribile fece svegliare Nic di soprassalto. 

Veniva dall'altra camera. 

Nic si alzò dal letto, affrontò il freddo della casa con indosso il suo pigiama leggero e aprì la porta della stanza di Raffaele. Aveva lasciato a lui la camera matrimoniale per farlo stare comodo, e aveva preso per sé la tripla che aveva sempre condiviso con le sorelle (un letto a castello e un secondo letto singolo).

«Oh Nic... ho mica gridato?» La luce dell'abat-jour era già accesa e illuminava fiocamente la vecchia stanza, mobili scuri e massicci d'inizio secolo, muri di pietra con l'intonaco storto e pavimento in legno non trattato; al centro della camera, un Raffaele più spaventato che mai. L'orologio sveglia sul comodino segnava le tre e venti.

«No, sembrava un canto d'usignolo, guarda.»

Raf fece una risatina, la mano sul cuore. Stava ansimando. «Vedi quando ti dico che faccio sogni tremendi? Quando ti dico che ho paura? E peggiorano. Peggiorano invece di migliorare.»

Nic sospirò. «Staresti più tranquillo se dormo nella stessa stanza con te?»

L'espressione di Raf si fece speranzosa. «Molto meglio!»

«Allora vieni in camera mia, ci sono tre letti, ti preparo quello dove dorme sempre la Fulvia, il posto sotto del castello.»

«Non è che...» Raf si zittì.

«Non è che... cosa?»

Raf scosse la testa. «No, no, niente. Vengo di là.»

***

Plezzo – o Bovec, in sloveno – era una cittadina pre-montana. Povera come tutta la Jugoslavia ma molto graziosa, in gran parte composta da piccole case che, nell'architettura, ricordavano quelle che si vedevano negli stessi paesini delle Prealpi friulane (il confine era poco distante). Era circondata da passeggiate e sentieri in mezzo ai boschi e sullo sfondo si potevano ammirare le vette innevate delle Alpi. Alla sua destra scorreva il fiume Isonzo, che poi scendeva verso Gorizia, solo che lì in Jugoslavia si chiamava Soča, ed era anche quello meta di passeggiate e di attività sportive. Faceva ancora freddo, in quell'inizio marzo, e le montagne erano ancora abbondantemente innevate. La cima del Canin, la montagna più alta al confine tra Friuli e Slovenia, svettava bianchissima sullo sfondo delle case.

L'appartamento della famiglia Bressan si trovava in centro, non molto distante dalla chiesa, dietro la quale c'era un piccolo complesso sportivo: un campo da calcio in terra, un campetto da basket con due anelli storti e, incredibilmente, anche un campo da tennis in cemento crepato, con erba che cercava disperatamente di uscire dalle fessure.

Il parroco per fortuna parlava un po' di italiano, e Nic ottenne, pagando delle piccole offerte in lire, di poter usare il campo da tennis per una o due ore al giorno durante la loro permanenza; la lira per fortuna era accettata da tutti molto volentieri, sul confine jugoslavo, perciò non erano stati costretti a cambiare i loro soldi (i soldi di Raf) in dinari.

Iniziarono ad allenarsi sin dal primo giorno. Nic aveva imposto a Raf una disciplina: «Secondo me la cosa che ti può fare meglio è che ti poni un obiettivo, così riempire le tue giornate di attività regolari. Per me è stata la salvezza.» Quindi sveglia alle sette, un'ora di corsa per le stradine del paese, poi una bella colazione con caffè nero e palačinke o potica, comprate alla pasticceria in piazza, un'ora di tennis nel campo tutto buche (e Raf si lamentò del fatto che avevano poche palline e dovevano fermarsi troppo spesso a raccoglierle, ma incredibilmente non si lamentò delle buche), relax, pranzo a casa, passeggiata distensiva, un'altra ora di tennis, un'ora di potenziamento, cena a una delle due gostilne del paese e altro relax prima di andare a dormire.

Raffaele prese il compito con grande impegno e sin dal primo giorno si mostrò desideroso di migliorare il tennis di Nic, oltre la propria disciplina. Durante i primi tre giorni di allenamento – il giorno in cui erano arrivati l'avevano dedicato a riassettare la casa – era sembrato davvero entusiasta.

«L'ultima volta che ricordo di aver lavorato con così tanta passione è quando ero bambino, che volevo fare di tutto per far contenta mia madre, sperando che mi cagasse di più» disse durante la cena del terzo giorno a Nic.

«E non ha funzionato?»

«No. Anzi. Quando ha capito che ero bravo ha assunto uno staff e si è fatta ancora di più i cazzi suoi.» Raf abbassò la testa e tagliò un pezzo dalla gigantesca lubjanska che gli avevano servito.

«Poi però non hai mica smesso. Sei diventato lo stesso un fenomeno» osservò Nic. Lui aveva preso una frittata alle erbe e un Matevž di contorno, un piatto tipico a base di fagioli, patate e cipolle. Aveva il dubbio che quest'ultimo fosse stato cotto con il grasso di maiale, perché gli sembrava di sentirne l'odore, ma cercò di non pensarci e si ripromise di non prenderlo i giorni successivi. Era, a ogni modo, delizioso.

«Perhé oumai era l'uniha hosa he ero rravo a fare e ho hontinuato in automatiho» rispose Raf mangiucchiando.

«Che schifo, puoi finire di masticare prima di parlare, per piacere?»

Raf alzò un pollice in cenno di assenso.

«Comunque, vedi qual è la soluzione ai tuoi problemi? Devi trovare un modo per appassionarti di nuovo» osservò Nic.

«L'ho trovato! Quando mi alleno con te sono contento!» disse Raf con la bocca finalmente libera. Bevve un po' del vino rosso che avevano preso per accompagnare il pasto.

«Ma io non starò sempre con te.»

Raf si incupì per qualche istante, fece roteare il vino nel bicchiere con aria pensosa, prima di rimettersi a parlare con entusiasmo. «Sai qual è la cosa che mi fa più contento? Poterti aiutare. Cercare di capire quali sono i tuoi problemi e risolverli. Non hai idea di quanta soddisfazione mi dà vedere che capisci i tuoi errori grazie al mio aiuto. E chissà, magari riuscirò perfino a vederti migliorare!»

«Sei un bravo allenatore, è vero. Quando finisci la tua carriera potrai diventare un allenatore.»

«Avoja, ancora... Ho appena compiuto diciassette anni...» Anziché tirarlo su quella prospettiva sembrò demoralizzarlo.

In generale, però, Raf era visibilmente migliorato nel suo umore. In tre giorni non aveva mai scritto su quel quaderno, tanto per cominciare. Nic aveva l'impressione che il quaderno peggiorasse il suo stato d'animo anziché aiutarlo «a fare chiarezza», come diceva Raf. Quando ci si metteva si immergeva in se stesso e si lasciava inghiottire dai suoi problemi. Tenersi attivo, invece, riempiva d'altro la sua testa e i suoi problemi passavano in secondo piano.

Andarono a dormire anche quella sera abbastanza presto, stanchi morti, intorno alle nove e mezza, dopo aver giocato una partita a Monopoli vinta da Raf. C'erano parecchi giochi da tavola, in quella casa, e ogni sera ne aprivano uno diverso. La sera prima era stata una partita di Scarabeo (sempre vinta da Raf), quella prima ancora a Cluedo (vinta da Nic). Raf aveva provato ogni sera a convincere Nic a giocare con un aggeggio idiota che era stato un giocattolo d'infanzia di Nic e delle sorelle, un meccanismo rotante con dei pesci che spuntavano e andavano pescati, ma Nic si era rifiutato in maniera categorica.

Raf, come al solito, trascorse una buona mezz'ora in bagno, prima di tornare in camera pulito e profumato. A Nic aveva fatto piacere vederlo addormentarsi come un sasso, le due sere prima: stancarsi gli faceva bene. E quella sera sembrava persino più stanco delle sere precedenti, entrò sbadigliando e con gli occhi chiusi e si lasciò cadere a peso morto sul materasso.

«Vado io, se hai sonno chiudi pure la luce, tanto mi oriento anche al buio» gli disse Nic uscendo.

«Mh, mh» rispose Raf con la testa immersa nel cuscino.

Nic si lavò i denti, fece pipì e al momento di tirare l'acqua si accorse che lo sciacquone non funzionava.

No, merda... Non dirmi che dobbiamo chiamare un idraulico e farci capire a gesti...

Tirò qualche volta la catenella, ma sembrava bloccata. Sbuffando salì sulla tazza, per vedere se il gancio era bloccato da qualcosa, e sì, era bloccato.

Da una bottiglia di liquore Pelicovec, praticamente finita, nascosta dentro il serbatoio.

Nic la estrasse e la osservò per circa cinque minuti, col cervello incapace di elaborare.

Non appena elaborò, il cuore gli sprofondò nel petto dal dispiacere.

Poi venne assalito da una rabbia che gli fece pulsare le vene del collo.

Tornò in camera, dove trovò Raf steso immobile nella stessa posizione, la luce ancora accesa, lo scosse, lui si alzò annaspando: «Ah, soffoco!»

«Certo che soffochi, coglione! Avevi bocca e naso dentro il cuscino, ma vuoi morire?!» gridò Nic. Poi gli sventolò la bottiglia sotto il naso. «Cosa cazzo è questa?!»

Raf sembrava confuso, inizialmente non rispose, gemette e basta, e Nic sentì solo in quel momento che puzzava un po' d'alcol. Come aveva fatto a non accorgersene la sera prima? Perché era ovvio che avesse bevuto anche la sera prima... e forse persino quella prima ancora! Ecco perché aveva dormito così pesante! Si era organizzato bene, l'infido, aveva fatto tutto di nascosto, alle spalle di Nic. Non era un odore forte, si era lavato molto bene i denti e aveva del profumo, addosso, e capì che lo aveva usato per mascherare l'odore alcolico.

«Non è mia...» fu la prima cosa che disse.

«Ti prego, non aggiungere meschinità a questa scena penosa...» sibilò Nic tra i denti.

Raf iniziò a piangere e si prese la testa tra le mani. «Oddio, dio, dio cosa ho fatto...»

Nic scosse la testa. Gli era già passata la voglia di rimproverarlo, era evidente che in quel momento non fosse in grado di reggere una ramanzina. «Senti... ne riparliamo domani, ok?»

«Scusa, Nic, scusa scusa...»

«Ho detto: ne riparliamo domani. Adesso dormi.» Aprì le coperte, lo spinse sul letto, a pancia in su, e lo rimboccò, persino.

«Riesco a rimboccarmi da solo» protestò lui, senza però muovere un dito.

«Buonanotte.»

«Non mi cacci via, Nic?»

«Ho detto: buonanotte.»

Chiuse la luce, e dopo neanche un minuto Raf incominciò a russare.

***

A Colazione Raf aveva gli occhi bassi. Non aveva pronunciato una parola da quando si erano svegliati, attendendo, forse, che fosse Nic a dire qualcosa.

Ma Nic non avrebbe detto niente. Voleva che fosse lui a parlare per primo. Era proprio curioso di sentire cosa avrebbe detto.

E la prima cosa che disse, non appena ebbe finito la sua consueta fetta di potica, fu. «Scusa, Nic.»

«Sei un bugiardo.»

«Hai ragione, mi sento una merda» disse in tono lamentoso.

«E non frignare, stronzo!» sbottò Nic.

Raf si limitò ad annuire.

«Sei un contaballe di professione! Chissà quante cazzate mi hai raccontato!» Nic iniziò a fargli il verso in tono melenso. «Oh, Nic, sei il mio migliore amico! Pciù, pciù, amore della mia vita! Luce dei miei occhi! Ma non te lo dico mica in senso gay, eh! No no! Non lo sto dicendo per illuderti che ti voglio ciucciare il cazzo e intanto sfruttarti senza pietà per farmi da baby-sitter!»

«Sei stronzo tu, adesso! Io non ho mai pensato niente di tutto questo!» reagì Raf.

«Mi chiedi di aiutarti, mi metti in difficoltà con mia madre, ti offro ospitalità per aiutarti a uscire dai problemi che hai... e poi bevi di nascosto!? Ma cosa cazzo credevi di fare? Cosa cazzo ti ho portato qua a fare, me lo spieghi? Per farti far festa?»

«Non l'ho fatto per far festa!»

«Ah no, è vero, lo fai perché hai la bestiolina nella testa che caga merda. Be', mi dici allora perché dovrei volere a che fare con uno che nel cervello ha solo merda?»

Raf scoppiò a piangere e Nic capì di aver esagerato.

Appoggiò le braccia al tavolo e vi nascose il viso. Quando rialzò la testa, Raf piangeva ancora e i clienti sloveni di quella piccola pasticceria li stavano guardando. Nic posò una mano sulla spalla dell'amico. «Scusa, ho esagerato. Ma... ma devi capire che questa cosa mi ha dato una delusione pazzesca.»

«Scusami, non volevo deluderti.»

«Ma perché l'hai fatto? Non sei contento? Non ci stiamo allenando bene? Non sei tranquillo? Cosa... Cosa dovrei fare io?» Nic sospirò. «Io te l'avevo detto che non ero in grado di aiutarti, vedi? Secondo me devi chiedere a qualcuno esperto.» 

«Io... volevo solo dormire.»

Nic sospirò di nuovo. «Dai, alzati, paghiamo e andiamo fuori a camminare un po'. E mi spieghi meglio questa cazzata.»

Tutto ingiubbottato, mentre passeggiavano per le stradine in salita del paese, Raf cercò di spiegare. «Quando bevo dormo sempre pesante senza fare sogni. Sono gli incubi che mi svegliano. Faccio quasi sempre incubi, quando sogno. E ho pensato che se facevo gli incubi e urlavo ti svegliavo, e allora...»

«No, per favore, non tirare in mezzo me nelle tue giustificazioni. Hai bevuto perché volevi bere tu, non per fare un favore a me.»

Raf sembrò colpito da quelle parole. Aggrottò le sopracciglia e annuì. «Hai ragione, Nic. Tu mi capisci meglio di quanto io capisco me stesso. Tu eri solo una scusa. La verità è che semplicemente non voglio fare incubi. Perché ho paura.»

Nic annuì. «E non c'è un altro modo? Solo bere funziona?»

«Non so se c'è un altro modo. Non l'ho ancora trovato.»

«Ok. Non possiamo provare a trovarlo? Hai bevuto tutte e quattro le sere, vero?»

«No, solo le ultime tre. La prima notte ho urlato nel sonno, non ti ricordi?»

Nic alzò le sopracciglia. «Cazzo, hai fatto fuori quasi una bottiglia intera in solo tre notti? È un superalcolico, è forte!»

«Mica tanto. Reggo bene l'alcol. E ieri sera è stata la sera che ho bevuto di più, perché non sono riuscito a controllarmi. È sempre così, perdo il controllo.»

«E abbiamo anche bevuto vino a cena. Be', mi sembra evidente che il vino lo tagliamo.»

«Neanche il vino? Eddai, dicono che un bicchiere di vino a pasto...»

«No. Anche quello è una stampella. Oggi zero alcolici, e poi vediamo stasera come va.»

Il respiro di Raf si fece affannato. «Ok, proviamo» sussurrò.

«Sembri terrorizzato... Non passi mai una giornata senza bere?»

Raf scosse piano piano la testa. «Cioè, non è che mi ubriaco ogni giorno, eh. Però almeno qualcosina la bevo sempre.»

«Il giorno che siamo venuti a Bovec mi hai detto che non avevi bevuto. A parte... be', il solito vino a cena, ora che ci penso.»

Raf arrossì. «In realtà ho bevuto anche qualcos'altro. Tu non te ne sei accorto. Ma poca roba.»

Nic sgranò gli occhi. «E quando?»

«Hai presente appena siamo arrivati che ti ho detto che mi scappava e sono andato al bagno della stazione degli autobus?»

Nic annuì con gli occhi sempre più spalancati.

«In realtà avevo visto il bar in piazza. Sono uscito di nascosto dal retro del bagno, sono corso nel bar, siccome non parlo sloveno ho chiesto una cosa con un nome internazionale: whiskey! E loro mi hanno dato un bicchierino, l'ho bevuto in un sorso, ho pagato e sono corso indietro.»

Nic sbatté le palpebre. «Ah.»

«E poi a cena, nel locale, quando sono andato in bagno, in realtà sono andato di nascosto a chiedere al cameriere che parla italiano se mi faceva uno shot di vodka.»

«Ah. E poi?»

«No quel giorno basta così. Infatti non era abbastanza e ho fatto gli incubi.»

Stavolta fu il respiro di Nic a farsi più affannato. «Cazzo, Raf, ma sei messo molto peggio di quel che pensavo...» Si prese la testa tra le mani e la scosse. «Io non sono in grado di aiutarti, scusami, non sono in grado di gestire una cosa simile.»

Raf si fermò. Sedette sui gradini di una casa. Mise la testa sulle ginocchia e rimase immobile.

Nic tornò qualche passo indietro per raggiungerlo.

«Stai piangendo?»

«Sto cercando di non farlo.»

«Non puoi reagire a qualsiasi difficoltà piangendo.»

«Lo so. È per quello che sto cercando di non farlo.» Alzò la testa e prese un lento respiro. «Non ero così frignone da piccolo, sai? Sono peggiorato crescendo.»

«E bevendo, magari. Anche. Non pensi?»

Raf passò qualche secondo a fissare il vuoto con le sopracciglia aggrottate. «Dici? Quando bevo sto sempre meglio.»

«Io tutti gli ubriaconi che conosco son gente triste. O violenta. O anche triste e violenta insieme.»

«Io violento ti giuro che non lo sono. Non lo sono mai stato.»

Nic annuì. «Lo so.»

Sedette accanto a lui sui gradini. «Mi sembravi contento di allenarti» gli disse. «Non ti basta quello? Non ti basta la fatica? Lo scopo?»

«Di giorno sì» Raf sorrise debolmente. «Le giornate sono bellissime, qui. Quando sono solo spesso... finisce che mi ubriaco persino da solo, di giorno. O peggio.»

Nic non ebbe il coraggio di indagare su cosa fosse quel "peggio".

«Allora oggi proviamo così» disse Nic. «Ci alleniamo come due matti. Ancora più dei giorni scorsi. Ci stanchiamo di brutto. Però tu devi promettermi che non bevi.»

Raf sospirò. Si alzò in piedi, prese il portafogli di tasca e lo diede a Nic.

«Perché me lo dai?»

«Ti prego, prendilo prima che te lo riprendo con una scusa per tirar fuori di nascosto diecimila lire. È l'unico modo che mi viene in mente per evitare che mi venga la tentazione di scappare a comprare qualcosa da bere.»

«Addirittura?»

«Mi conosco.»

«Mi mette a disagio gestire i tuoi soldi.»

«E quando torniamo a casa ti do anche tutto il resto che ho da parte nella valigia.»

«Cristo santo... tu davvero avevi bisogno di un baby sitter, avevo ragione...»

L'espressione di Raf si deformò, Nic si accorse che stava per mettersi a piangere e si trattenne dallo sbottare. «Posso fare qualcosa per evitare che ti metti a piangere?» gli chiese nel tono più calmo possibile.

Raf chiuse gli occhi e scosse la testa. «No. Scusa.» Stava ancora con le braccia tese di fronte a sé e il portafogli in mano.

Nic, infine, lo prese. «Oltre che smettere di piangere, potresti anche smettere di chiedermi scusa? Abbi un po' di spina dorsale, cazzo, prenditi una responsabilità.»

Raf annuì. «Grazie, Nic.»

«Non so se funzionerà, ma proviamoci.»

***

Arrivarono a sera davvero distrutti. Nic non aveva perso di vista Raf nemmeno un secondo e lo aveva persino accompagnato a ogni sortita in bagno. In gostilna Raf era talmente stanco che quasi si addormentò appoggiato al suo gomito mentre aspettava la sua portata (un goulash accompagnato da focaccia salata). Ma sembrava contento. Ebbe persino la forza di ridere, facendo qualche battuta scema alle spalle di un cameriere con una faccia bizzarra. Quando poi tornarono a casa, Nic acconsentì a giocare con quell'idiota marchingegno di pesca. Raf si divertì un mondo, rise come un matto per tutti i dieci minuti che impiegarono a finirlo. «Lo sapevo che ne valeva la pena!»

Quando arrivò il momento di coricarsi, prima di chiudere la luce, Nic chiese a Raf come stesse.

«Bene» rispose lui.

«Ma senti il bisogno di bere qualcosa?»

«Sì.»

«Nonostante la stanchezza?»

«È un bisogno che è diventato quasi un automatismo, non so come spiegarlo.»

«Ti fa stare male fisicamente?»

«Intendi crisi di astinenza? No. Non credo. Non credo di essere a quel livello.» Sospirò. «Vediamo cosa succede stanotte.»

«Non aver paura. Ci sono qua io, in camera, non sei solo, ok?»

Raf gli sorrise. «È molto importante per me. Grazie.» Chiuse gli occhi. «Comunque sono stanco morto. Addormentarmi credo mi addormenterò in dieci secondi.»

«Ok, buona notte.»

Nic chiuse la luce.

L'incubo arrivò come previsto, dopo circa due ore di sonno. Era da poco passata la mezzanotte. Raf non aveva urlato, ma emesso dei gemiti molto forti che avevano svegliato Nic. Accese la luce sul comodino e corse da lui. Era sudato. Era bellissimo.

Nic distolse lo sguardo e rimproverò se stesso. Si rimproverò duramente, perché quel pensiero frivolo e stupido proprio non doveva aver spazio nella sua testa, soprattutto in un momento simile.

«Nic...» la voce di Raf lo riportò alla realtà.

Nic si voltò verso di lui e fece schioccare la lingua. «Forse non avrei dovuto accendere la luce. Forse era meglio se semplicemente dicevo qualcosa al buio per svegliarti.»

«No, no, hai fatto bene. Mi volevo alzare per pisciare.»

Ecco bravo. Quell'immagine fisiologica lo aiutò a togliersi definitivamente qualsiasi pensiero di delicatezza dalla testa.

Raf si fermò sulla porta. Nic si accorse che stava prendendo dei grandi respiri.

«Cosa c'è?»

«Sto trovando il coraggio di dirti una cosa.»

«Cosa?»

«Che non mi scappa da pisciare. Mi ero alzato per cercare se da qualche parte in casa ci fossero alcolici.»

Nic sospirò. Andò da lui. «E io coglione che ti stavo lasciando andare di là da solo, dopo che mi stamattina mi hai raccontato le avventure di Raf Diabolik.»

Raf ebbe una risatina. Fece dietro front e tornò verso il letto. «Chiudi 'sta cazzo di luce, prima o poi mi devo abituare agli incubi. Mica possono andare avanti all'infinito.»

Il secondo risveglio avvenne qualche ora dopo. Stavolta non ci furono gemiti, ma Nic si accorse che Raf stava respirando pesante e rapidissimo. «Raf! Raf, svegliati.»

Si svegliò gemendo un po' tra gli ansiti.

«Incubo?»

«Sì.»

«Me lo vuoi raccontare?»

«No. Troppo orribile.»

«Hai paura?»

«Un po'.»

Nic ricordò la richiesta che Raf gli aveva fatto a Genova.

«Vuoi... mmm... che ti tengo per mano?»

Raf prese un lento respiro. «Lo faresti davvero? Per qualche minuto?»

«Se ti fa stare meglio...» Si era già alzato, era andato da lui. Sedette sul letto, a tentoni lo trovò, si trovarono, si presero per mano.

«Mi dispiace che stai lì seduto sul materasso come un pirla.»

«E dove devo stare? È il posto più comodo.»

Per un attimo Nic ebbe una stupida, irrazionale, deleteria speranza: che Raf gli chiedesse di dormire con lui. Fu turbato da quell'idea. La scacciò dalla mente.

Nel buio gli tenne la mano. Chiuse gli occhi. Pensò a Leo.

Ci pensava sempre meno. Il suo grande amore. Era passato un anno ed era finito. Non lo amava più, non lo pensava più, non lo desiderava più. L'amore era una menzogna. Finiva così come iniziava, bastava un po' di tempo a spegnerlo. L'indomani sarebbe stato un lunedì, a proposito, doveva chiamare Goran per chiedergli come stava. Se si stava riprendendo. Il suo Leo. Continuava ad applicargli quel pronome, ogni tanto. Suo. Anche se non lo era più e non lo sarebbe mai più stato.

«La differenza tra stanotte e Genova» disse Raf, riportando Nic al presente, «è che a Genova, quando mi hai preso la mano, credo fossi ancora un po' sotto l'effetto... eh... di quello che avevo preso.»

«E quindi?»

«E quindi mi sono addormentato subito. Stasera non ci riesco.»

«Ho capito. Torno a letto allora, non ha senso che sto qua.» Fece per alzarsi, ma Raf lo trattenne stringendogli la mano.

«No.»

Nic sbuffò. «E cosa vuoi, allora?»

«Senti Nic... io... Mi sento una merda a chiedertelo.»

«Vuoi dormire con me?» Nic si stupì delle sue stesse parole. Di non aver provato vergogna a dirle. Forse aiutava il fatto che fossero immersi nel buio pesto.

«Sì, ma non qua. Tipo, pensavo... Se andiamo di là sul letto grande, sembra peggio, sembra più gay, no? Ma invece è meglio! Perché il letto e grande e possiamo stare distanti, uno da una parte, uno dall'altra, solo che ti tengo la mano. Sarebbe l'unico punto di contatto.»

«Va bene. Andiamo.»

«Sei sicuro?»

«Meglio così che svegliato dai tuoi urli ogni ora della notte.»

«Grazie, Nic. Solo per stanotte.»

Cambiarono stanza, le lenzuola del lettone erano gelide.

«Madonna, che freddo» si lamentò Raf.

«Se vuoi anche che ti scaldo i piedi con i miei ti avviso subito: la risposta è no. Dammi la mano.»

«Grazie, Nic. Solo per stanotte, giuro.» Le loro mani si incontrarono.

«Sei un disco rotto.»

La notte trascorse serena, senza altri incubi.

***

Nic e Raf dormirono insieme anche la notte successiva. E quella dopo ancora. E non era stato Raf a chiederlo, era stato Nic a proporlo. E glielo propose la prima mattina, alla fine dell'allenamento. «Se ti fa stare più tranquillo, non ho problemi a dormire con te sempre. E il motivo per cui te lo sto dicendo adesso è che vorrei levarti qualsiasi tentazione di andare a cercare da bere in giro.» Raf apprezzò la premura e accettò la proposta.

Ogni notte Raf si addormentava con la mano di Nic nella sua.

E gli faceva bene avere qualcuno vicino. Dormiva come un sasso e si svegliava più sereno. Del resto entrambi dormivano della grossa perché i ritmi di allenamento più intensi li facevano arrivare a sera stanchi morti.

I contatti fisici non si limitavano alla mano, perché Raf, che aveva un sonno movimentato, spesso finiva coi suoi piedi tra quelli di Nic, o girandosi poggiava l'altra mano sulla spalla, schiena o petto dell'altro. Nic non protestava. Accettava il contatto. A volte, timidamente, quella mano provava a prenderla. Raf non protestava mai, probabilmente perché dormiva.

Nic si abituò in fretta a quei contatti e dovette abituarsi anche a qualcos'altro.

Le erezioni.

Avere un ragazzo nel letto lo eccitava. E ogni sera, appena spegnevano la luce, con quella mano stretta alla sua, lo sfiorare di un piede, l'odore ormonale, la consapevolezza di un'entità fisica accanto a lui, tutte queste cose agitavano il suo sangue, senza che lui potesse farci nulla.

Ma lungi dallo struggersi nella frustrazione, Nic impiegò anche quell'occasione per migliorare se stesso e imparare la disciplina e l'autocontrollo. Quelle notti furono una grande lezione per lui: sì, il suo corpo aveva delle pulsioni, ma quelle pulsioni, così come il suo amore per Leonardo, erano controllabili, trasformabili, spegnibili. L'eccitazione arrivava suo malgrado. E Nic faceva quindi subentrare la ragione: iniziava a pensare a quale fosse il vero motivo di quella vicinanza (aiutare un amico), si imponeva di rilassarsi, pensava al suo respiro, ai dettagli della stanza, alle piccole inezie della realtà, proprio come quando si calmava nelle situazioni di tensione in campo, e in breve l'eccitazione se ne andava.

Nic era convinto che allenarsi a controllare le proprie emozioni gli sarebbe stato utile anche nel gioco. Non c'era più un Leonardo con cui scappare via e girare il mondo, ma lui voleva scappare lo stesso. Il tennis sarebbe stato il suo futuro.

Ovviamente non rinunciava del tutto alle pulsioni sessuali, sarebbe stato sciocco e malsano farlo. Quindi una volta ogni tre o quattro giorni si masturbava sotto la doccia, e sfogava così il suo bisogno di piacere fisico. Pensava a Raf, mentre lo faceva. E a chi altri avrebbe dovuto pensare? Era lì, era bello e dormiva nel suo letto.

Finita la seconda settimana, la sua assenza da Capriva cominciò a essere un problema. Aveva detto al padre che avrebbe partecipato a un seminario tennistico che sarebbe durato un paio di settimane e il padre, quella sera, rubò la cornetta alla madre e gli chiese in tono brutale quando il seminario sarebbe finito e quando lo avrebbero rivisto a casa. 

Aveva sentito i suoi al telefono ogni sera, chiamando da una cabina telefonica con gettoni jugoslavi finanziati da Raf. C'era un telefono in casa, attaccato alla spina perché Nic aspettava (sognava) la chiamata di Ravaioli, ma voleva evitare di usarlo: meno consumi in bolletta, meno possibilità che il padre se ne accorgesse. Nic e Raf erano attenti a tutto: tenevano acceso il riscaldamento solo di sera, anche se faceva ancora abbastanza freddo, per consumare meno gasolio in caldaia; lo spargher avevano evitato di accenderlo per non consumare legna (Nico non avrebbe avuto idea di dove ricomprarla), tranne una sera in cui Raf aveva chiesto con insistenza di vedere il funzionamento della stufa; non cucinavano mai a casa, solo qualche moka di caffè ogni tanto, Nic non credeva sarebbero state sufficienti a consumare la bombola di propano; in generale, non passavano molto tempo in casa, ma la doccia la usavano, denti e mani le lavavano, lo sciacquone lo tiravano e bevevano acqua di spina. Di sera le lampadine toccava accenderle, e ogni tanto l'aspirapolvere toccava passarlo. La lavatrice, un vecchio arnese di produzione sovietica, si erano rifiutati di usarla sia perché era l'elettrodomestico che consumava di più, sia perché a entrambi faceva un po' schifo. Gli indumenti intimi li lavavano a mano (altra acqua consumata), e il resto lo portavano alla lavanderia del paese. Lì in Jugoslavia tutto costava poco, Raf si era chiesto più di una volta come fosse possibile «Pagare solo cinquemila lire per una bistecca gigante e contorno.» Nic, invece, non si stupiva: ricordava bene come Leo andasse ogni settimana in missione oltre confine a comprare carne di contrabbando.

Ma nonostante la vita parca, i soldi di Raf presto sarebbero finiti, e non erano riusciti a capire come e se fosse possibile ricevere vaglia all'estero. Il confine, però, non distava molto, e il comune di Uccea, il più vicino italiano, era a mezz'ora di corriera: sarebbero potuti andare all'ufficio postale di quel paesino a ritirare il vaglia, per prolungare eventualmente la loro permanenza lì.

Nic tergiversò col padre. «Mi hanno proposto di restare altre due settimane, ma non sono sicuro di farmele tutte.»

«E che soldi stai usando per pagare questa stupidaggine?»

«Te l'ho già detto, quelli che ho guadagnato vincendo i due turni di Genova, più qualcos'altro che avevo da parte.»

«E li stai consumando, bravo, bravo! Sprecone che non sei altro!»

«Li sto investendo sul mio futuro.» Nic si sentiva ridicolo a inventare giustificazioni per delle spese che in realtà non stava facendo: i suoi soldi di Genova erano al sicuro a casa, Nic li aveva affidati alla madre, che li aveva nascosti per lui.

La telefonata finì con una bestemmia del padre e Nic tornò mestamente a casa, che era a pochi minuti di camminata dalla cabina.

E quando tornò a casa ebbe un'orribile sorpresa.

Raf era sparito.

Si sentì un idiota. Si maledisse, si tirò i capelli, emise persino un grido di frustrazione.

Stupido! Stupido Nic! 

Era da qualche giorno che si arrischiava a lasciare Raf da solo, quando andava fuori a telefonare. «Siccome non posso stare con te per sempre, è bene che ti abitui a stare per conto tuo, così poi quando ci salutiamo non sarà uno shock.» Si era sentito abbastanza tranquillo a proporglielo perché in casa non c'era l'ombra di un alcolico (aveva controllato ogni cassetto) e i soldi li aveva tutti in gestione Nic.

Ma evidentemente quell'infido aveva trovato il modo di rubarne qualcuno e adesso era uscito a bere.

Tornò dopo neanche un minuto. «Oh, ciao Nic! Ero uscito a fare una passeggiata perché dentro mi sembrava di soffocare.»

«Alitami in faccia!»

«Eh? Cos... no! No, Nic, non ho bevuto ti giuro.»

«E allora alitami in faccia, ho detto!»

Raf lo fece. Nessun odore strano.

«Mh» commentò Nic.

«Nic, ti giuro, era solo una passeggiata.»

Nic ebbe l'impulso di chiedergli di allargare le braccia per perquisirlo, ma non lo fece, più per evitare di sentirsi a disagio toccandolo, che per remore nei confronti dell'ingerenza.

Decise per il momento di lasciar perdere.

Quando, però, Raf si tolse il giubbotto, Nic intravide una piccola busta spuntare dalla tasca interna. 

Oh no!

Vederla lo terrorizzò al punto da paralizzarlo. Non ebbe il coraggio di chiedergli cosa fosse.

Nic trascorse tutta la cena, e tutta la mezz'ora che della consueta partita a Monopoli serale pensando a quel sacchetto, a quella piccola busta bianca. Possibile che Raf fosse riuscito a trovare uno spacciatore, lì, in quel minuscolo paesino di montagna, per giunta all'estero, in un posto in cui solo in pochi parlavano italiano?

Si pentì di non avergli chiesto subito conto di cosa fosse quella busta. Poi, però, risolse che forse era stata la cosa migliore. Aveva già sperimentato le menzogne di Raf, e se gli avesse fatto una domanda, lui avrebbe inventato chissà cosa. Non aveva perso di vista Raf per un solo secondo, ed era certo che quella busta fosse ancora nel suo giubbotto, nella tasca interna da cui l'aveva vista spuntare. Avrebbe atteso che andasse in bagno, più tardi, e avrebbe approfittato di quel momento per perquisire il suo giubbotto.

Gunse finalmente il momento che avrebbe confermato le sue terribili certezze. Perquisì il giubbotto di Raf e, con estremo orrore, si rese conto che quella bustina era sparita. 

Quando cazzo è riuscito a toglierla? E come? È stato sempre con me!

Trovò però qualcos'altro, che confermò ancora di più le sue paure: dei soldi.

Era riuscito, come Nic aveva sospettato, a sottrarre qualcosa al fondo in denaro. Di nascosto, chissà quando, forse mentre Nic era in bagno. 

Non posso nemmeno cagare, cazzo! Non posso lasciarlo solo neanche un secondo!

E con questi pensieri in testa, e il terrore che stesse usando in quell'esatto momento qualsiasi cosa ci fosse in quella busta bianca, Nic corse al piano di sopra, si lanciò sulla porta del bagno.

Raf era dentro già da un po'. Dieci minuti, forse. Nic bussò, frenetico, disperato.

«Occupato!» 

«Raf! Cosa stai facendo?» Nic provò ad aprire la porta, ma era chiusa a chiave.

«Ehm... ci tieni tanto a saperlo?» 

«Sì, ci tengo tanto! Cosa stai facendo!?» 

«Sto facendo la cacca. Ti scappa? Ho quasi finito.» 

«Apri immediatamente!» Nic muoveva freneticamente la maniglia, su e giù, in preda al terrore. 

«Non posso! Giuro che ci metto poco, aspetta!» 

«Ho detto apri! Adesso!» 

«E io ti ho detto che non posso! Sono seduto sul water, cazzo! Non mi posso alzare! C'ho la merda attaccata al culo, scusa il francesismo!»

Nic non ci credeva. Non poteva semplicemente crederci. Raf gli aveva già mentito e stava di certo mentendo anche in quel momento. Ma cos'altro poteva fare? Si era chiuso a chiave dentro e Nic non poteva buttare giù la porta. Batté il pugno disperato, e una volta tanto fu a lui che venne voglia di piangere. Ma non lo fece.

Dopo neanche un minuto, Nic udì lo sciacquone e Raf apri finalmente la porta: «Ecco, adesso puoi entrare, se non ti da fastidio la puzza. Non mi sono neanche lavato il culo, me lo lavo dopo, se ti scappa tanto.» 

«Cosa stavi facendo lì dentro?» 

«Nic, ma cos'hai? Sembri sconvolto!» Raf fisso Nic per qualche secondo negli occhi. «Ma... pensavi mica che...» Accennò un sorriso. «Ti stavi preoccupando per me?» 

«Mi sto ancora preoccupando per te! Oggi pomeriggio, mentre ero fuori, sei sparito. Quando ti sei tolto il giubbotto, l'ho vista quella bustina bianca nella tua tasca! L'ho vista! Che cazzo era?»

Raf sospirò. «Oddio, Nic...» 

«E poi adesso sono andato a vedere il tuo giubbotto e la bustina non c'era più! E ho trovato dei soldi, però, quando li hai presi? Quando li hai rubati? Quante cazzo di volte sei uscito per comprarti da bere o... chissà cos'altro? E io coglione che mi fido a lasciarti da solo! Mi serva di lezione! Non lo faccio più!» 

«Nic, ti giuro che hai frainteso tutto.» 

«Sì, sì. Esattamente come avevo frainteso quando trovato il Pelinkovec nella cisterna del Water!»

«Allora, Nic. Intanto adesso entra e ti renderai conto da solo che stavo davvero cagando.» 

Nic, diffidente, entrò in bagno. Annusò l'aria, e l'odore che si sentiva era, in effetti, disgustosamente inconfondibile. «E io cosa so che non ti sei fatto di qualcosa mentre cagavi?» 

«Ti sembro fatto?» 

Nic lo guardò. «No, in effetti no» disse, appena appena più tranquillo. 

Raf fece una smorfia dispiaciuta. «Un po' mi secca che lo scoprirai così, ma adesso ti mostro che cosa sono uscito a prendere ieri pomeriggio e oggi pomeriggio. E non era la seconda, ma la terza volta che uscivo, perché...» Fece un cenno verso il fondo del corridoio. «Adesso ti spiego. Vieni con me.»

Raf si incamminò verso l'ultima stanza, un ripostiglio che non usavano mai. Dentro c'era un grosso armadio in cui la madre di Nic riponeva vecchie cianfrusaglie inutili.

«La cosa assurda è che l'uscita di oggi era la più stupida di tutte» disse Raf di fronte all'armadio. «Potevo anche risparmiarmela e tutto questo casino non sarebbe successo. Ma mi ero dimenticato di comprare questa cosetta che però ormai non ha più senso.»  Nic era sempre più perplesso.

Raf aprì l'armadio spostò un vecchio cappotto di pelliccia, e da dietro estrasse...

Nic spalancò la bocca.

Era una racchetta. Nuovissima. Bellissima. Una Wilson in fibra di carbonio, il manico marrone spuntava da una custodia in pelle nera.

«Ma...» Nic inizialmente fu confuso, non capì.

Raf gliela porse con un sorriso. «È per te.» 

«Io... Cosa...?» Nic non ebbe il coraggio di toccarla.

«Sei giorni fa era il tuo compleanno, no?» 

«Ma...»

«Mi dispiaceva un casino di non averti regalato niente. Hai presente il negozio di sport del paese, qua dietro l'angolo, dove hanno gli sci? Avevo notato che c'era anche qualche racchetta da tennis in vetrina, ma erano tutte di legno. Allora il primo giorno che mi hai lasciato da solo, quattro giorni fa, sono andato di corsa lì, il commesso vivaddio parla italiano, mi ha anche detto che il novantanove per cento dei suoi clienti sono italiani che vengono da lui a comprare la roba perché in Jugoslavia costa meno. Gli ho chiesto se avesse racchette in fibra di carbonio, ha capito subito di cosa stavo parlando e culo culo, mi ha detto che doveva incontrare il suo fornitore due giorni dopo, che era ieri. Io ti avrei voluto prendere una Dunlop, lui ha solo Wilson che è una buonissima marca e allora vada per la Wilson, mi ha fatto guardare il catalogo, e ho ordinato questa.» Raf aprì la lampo della custodia che copriva il piatto, ne emerse una elegantissima racchetta dal telaio nero, già incordata. «È una Wilson Sting Oversize, piatto corde 100. Sì, lo so che è molto più largo del piatto che usi adesso, ma ti fidi se ti dico che secondo me per il tuo tipo di gioco è più adatto questo? Grip cinque, come il tuo, l'ho fatta incordare con il sintetico con la tensione che usi tu adesso, ma vediamo, che magari col nuovo piatto corde ti trovi meglio con una tensione un po' diversa. Ti piace?»

Nic era senza fiato. La prese in mano, infine, la fece roteare un paio di volte. Deglutì. «Dio è... è troppo, è...»

«Troppo? Con quello che tu stai facendo per me?»

«È bellissima. Cazzo, è stupenda. Chissà quando me la sarei potuta permettere. Grazie!»

«Ah, e vuoi sapere che cos'era la bustina?» Raf si alzò il maglione, aveva infilato la busta tra cintura e maglietta, ecco come c'era riuscito, a toglierla dal giubbotto senza che Nic se ne accorgesse. Doveva aver fatto molto rapidamente, forse in un attimo in cui Nic era girato. Era più grande di quanto era sembrato a Nic vedendola spuntare dalla tasca.

Raf l'apri e al suo interno, piegata su se stessa, c'era della carta da regalo. Nic si sentì un idiota.

«Mi pareva brutto dartela senza fare un pacchetto ma ieri mi ero dimenticato prenderla, allora sono uscito e l'ho comprata oggi alla cartoleria del paese.» Fece spallucce. «La tipa voleva darmi il rotolo, ma il rotolo era troppo ingombrante, allora me la son fatta piegare, è per quello che ho perso tempo, accidenti! E ormai non serve più.» 

«Questo... è il regalo più bello che mi abbiano mai fatto» disse Nic. «Non avresti dovuto. Io mica te l'ho fatto un regalo, per il tuo compleanno.» 

«Nic, quello che stai facendo è più importante di qualsiasi regalo.»

Nic abbassò la testa. Il suo cuore stava battendo talmente veloce e talmente forte che sembrava volersi arrampicare su per la gola.

«Tu ti preoccupi così tanto per me... La preoccupazione che hai avuto stasera, mi dispiace che l'hai avuta, ma allo stesso tempo mi rende felice. Nessuno si è mai preoccupato così per me. Questo regalo è il minimo che potessi fare. Per sdebitarmi almeno un po', anche se non esiste regalo al mondo che possa ricambiare quello che stai facendo. L'amicizia che mi stai dando. Sei davvero il migliore amico che abbia mai avuto.»

A Nic mancò il fiato, quella parola lo ferì come una pugnalata.

Amico.

Gli straziò il cuore e gli fece capire con dolore, in un istante, qualcosa che avrebbe dovuto capire molto prima.

Che quella parola, amico, non era abbastanza.

Si era innamorato di Raffaele, ed era un amore che non sarebbe andato da nessuna parte.

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Note 🎶

Ahi.

Piaciuta la prima parte della gita a Bovec?

Ci rileggiamo lunedì. E lasciatemi una stellina se amate le tragedie. E lasciatemela anche se non le amate.

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