39. Cercavo in te la comprensione che non so trovare in questo mondo stupido

Insieme a te non ci sto più
Guardo le nuvole lassù
Cercavo in te
Le tenerezze che non ho
La comprensione che non so 
Trovare in questo mondo stupido
Quella persona non sei più
Quella persona non sei tu

(P. Conte, Insieme a te non ci sto più, 1970)

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8 gennaio 1983

Il viaggio durò circa cinque ore. Arrivarono a Capriva nel primo pomeriggio, dopo essersi fermati a mangiare un panino in Autogrill, e furono accolti dai pianti della madre, che Nico sopportò di buon grado, e dai rimproveri del nonno, che Nico fu costretto ad ascoltare anche se non erano rivolti a lui.

Erano per i genitori. 

Nonno Giovanni fece loro una lunga ramanzina spiegando cosa avessero sbagliato nel tirare su Nico (troppo permissivi, troppa televisione, troppi giocattoli), perché Nico fosse diventato finocchio (troppi libri e distrazioni da damerino, tipo il tennis), cosa dovessero fare per raddrizzarlo (niente uscite, lavoro nei campi, meno libri, meno televisione – che a dire il vero Nico già guardava poco – zero tennis).

La Grazia e la Fulvia furono mandate in camera, durante queste discussioni «che non sono adatte a due signorine.»

Nico venne quindi spedito a sua volta in camera dove venne raggiunto dalla Fulvia, che fece anche lei una specie di inaspettata ramanzina a Nico. «Tu sei tutto scemo a scappare così, a minacciare denunce...» gli disse. «Hanno ragione a dire che sei viziato.»

«Io voglio vivere la mia vita» ribatté Nico.

«Con quali soldi?»

Nico rimase zitto.

«Tu vuoi vivere la tua vita, ma allo stesso tempo vuoi continuare a essere mantenuto dalla mamma e dal papà. E se non fanno come dici tu, scappi di casa. A me sembra una reazione molto infantile.»

Nico rimuginò. «Forse hai ragione. Sono sempre stato abituato ad avere tutto quello che volevo, però... però penso che non sia giusto che mi trattino così.»

«Questo è un discorso diverso, e con questo sono d'accordo. Il papà è uno stronzo. Ma non è scappando di casa che gliela farai vedere. Fagli vedere che puoi vivere in modo indipendente come sto facendo io! Pensi che sia contento, lui, dei miei lavoretti e che a settembre mi trasferisco a Bologna? No! Ma non mi dice un cazzo perché i soldi che prendo mi rendono indipendente! Lo capisci?»

***

Nico avrebbe voluto riflettere sulle parole della sorella, ma la sua mente era occupata da altro: Leonardo.

Ci aveva pensato durante tutto il silenziosissimo viaggio di ritorno in macchina col padre. Ci aveva pensato, a tratti, persino durante le ramanzine. E ci stava pensando in quel momento.

Il senso di colpa lo stava soffocando. L'aveva tradito. E stava riflettendo su ciò che gli avrebbe detto quella sera al telefono. L'avrebbe chiamato in caserma, sperando che il suo desiderio di ripicca fosse scemato. L'avrebbe fatto dalla camera della sorella, gliel'aveva già chiesto.

Nico aveva trascorso le prime ore di viaggio meditando storie e scuse, elaborando ricche menzogne per riscrivere la realtà, ciò che era successo, per giustificarsi e dare persino a Leonardo dello stupido geloso immotivato.

La sua coscienza si era poi fatta strada, e aveva capito che non avrebbe mai potuto vivere in pace con se stesso: doveva dirgli la verità.

Doveva dirgli che l'aveva tradito. Con la testa e con le intenzioni, anche se non era di fatto successo niente. E questa confessione avrebbe avuto, probabilmente, un impatto distruttivo sulla loro relazione.

Arrivarono finalmente le sei, Nico sgattaiolò dalla Fulvia, le chiese di lasciarlo solo e lei, come sempre, scese di sotto a controllare che i suoi non usassero il telefono.

Gli tremavano le mani, mentre il dito faceva girare i numeri sulla rotella. La voce del centralinista quel giorno era diversa, Nico ne fu sollevato, non avrebbe sopportato un'altra battuta sugli orologi, chiese se potevano chiamare Devetak al telefono.

Dopo circa cinque minuti Leonardo alzò la cornetta.

«Dov'eri ieri sera? Ho provato a chiamarti» disse cupo.

«Ero fuori con Raffaele» rispose Nico.

Leonardo non replicò.

Rimase in silenzio per forse quasi un minuto, durante il quale Nico non ebbe il coraggio di proferire parola. «E me lo dici così?» ribatté infine Leo in un sussurro.

«Leo, se mi ascolti, voglio dirti tutta la verità.»

«Vês taconat. Su chel ljet. Isal vêr?» disse, in friulano per non farsi capire. Avete scopato. Su quel letto. Vero?

«Assolutamente no. Quella foto non è quello che sembra» rispose sicuro Nico. 

«Mi hai raccontato una balla.»

«Sì, è vero. Ma...» Nico sospirò. «Prima di correre a conclusioni, puoi ascoltare tutto? E poi decidi.»

«Tanto lo so che mi racconti altre boiate. Non potrò mai più crederti.»

«Ti assicuro che mi crederai, Leo. Fammi parlare per favore.»

Nico udì un respiro. Era spezzato, come se il fiato avesse inciampato entrando nei suoi polmoni. Nico pensò che fosse crudele che quella conversazione dovesse svolgersi al telefono, ma non c'era altro modo. Negare tutto in quel momento per poi dirgli la verità la prima volta che si fossero incontrati di persona, chissà quando, non avrebbe avuto senso.

«E parla» sussurrò Leo. «Câ puedi doma ascoltà.»

Nico sospirò. E iniziò. «Sono successe tante cose, a Milano. Anche cose belle. Mi ha contattato un allenatore nazionale, sai? Mi ha fatto una specie di mezza proposta di allenarmi. Io ieri, quando ho provato a chiamarti, ti volevo raccontare questa storia, per farti capire che... che il mio obiettivo principale era... è ancora girare il mondo col tennis. Girare il mondo con te.»

Ma perché cazzo sto dicendo queste cose? Perché tergiverso?

Anche Leo sembrò spazientito. «Non mi frega un cazzo di questa roba, dimmi della foto.»

«La foto è la cosa più stupida, Leo.»

Leonardo respirò un po', dritto nel ricevitore. «Cosa vuol dire?»

«Raffaele. L'ho incontrato il primo giorno. Abbiamo un po' parlato. Quando mio padre è spuntato dal nulla al torneo, Raffaele mi ha aiutato a scappare per non farmi beccare da lui e mi ha nascosto in camera sua, in hotel. Era in camera con sua madre, e sua madre ci ha scattato quella foto con la Polaroid di Raffaele, perché Raffaele ha insistito che voleva una foto con me. Non c'è niente di strano dietro quella foto.»

«Mi hai raccontato una balla.»

«Sì, è vero. Non volevo farti ingelosire. Pensavo che eri stupido a ingelosirti e allora ho pensato che era meglio far finta che non ci avevo quasi parlato, per farti stare tranquillo.»

«Non ti credo.»

«No. Devi credermi. Pensavo veramente queste cose, quando ti ho raccontato quella balla. Però, Leo, la verità è che... che forse hai ragione tu. Sono uno squallido.»

«Cosa vuol dire?» ripeté Leonardo con la voce un po' strozzata.

«Sai cosa ha detto mio papà quando ha visto quella foto? È lui che ti ha mandato il fax, tra parentesi. Ha pensato subito male anche lui. Ha detto: che schifo, in camera insieme, finocchi... E io ho pensato che fosse proprio meschino a pensarlo, cioè, a pensare che io, da finocchio, non potessi semplicemente avere un amico maschio.»

«Amico...» disse Leonardo in tono sarcastico.

«Per favore, Leo, so che non sei stupido. Ascolta quello che ti dico e cerca di capire il senso, non fissarti su una singola parola. Amico, sì. Non possiamo avere amici? Non hai amici maschi tu?»

«Si che ce li ho» rispose lui, mogio, dopo qualche secondo di silenzio.

«Ecco. Il punto era quello. Mio papà mi ha detto una cosa, quando ti ha mandato il telefax con la foto: Leonardo adesso vede la foto, pensa che tu lo tradisci con questo bellimbusto e ti lascia. Il suo scopo era quello, che tu mi mollassi. Io non ci potevo credere: in quella foto non sta succedendo niente di male, gli ho detto. E lui: ma quando Leonardo la vede pensa quello che penso anch'io, perché è uomo anche lui e sa come funzioniamo noi uomini. Noi uomini siamo tutti uguali, se abbiamo occasione di tacconare tacconiamo.»

«E tu hai... astu taconât?»

«No, non ho scopato. Il problema però è...» Nico restò a lungo in silenzio, cercando le parole, cercando un modo di dire ciò che stava per dire che suonasse meno squallido, meno triste, meno umiliante, ma non lo trovò, perché ciò che stava per dire era squallido, triste e umiliante.

E quindi semplicemente lo disse. «Il problema è che mio padre ha ragione. Noi uomini siamo degli squallidi. Io con Raffaele non ci ho scopato. Ma ci ho pensato. Me lo sono sognato. Mi è venuto duro, pensandoci. Mi è venuto mezzo duro, vedendolo dormire.»

«Sei... io...» Leonardo, all'altro capo del telefono, stava piangendo.

«Sono uno squallido sì. Uno stronzo. Una merda. E l'ultima sera, ero incazzato con te, e... No, no, scusa, sto cercando una giustificazione. Non so se non fossi stato incazzato con te cosa sarebbe successo, ma forse l'avrei fatto lo stesso. Non posso escluderlo.»

«Cosa...» Leonardo ebbe un singhiozzo. «Cosa hai f-fatto?»

«Ho provato a baciarlo. E lui mi ha rifiutato, perché non è finocchio.»

Leonardo non disse niente, Nico sentì solo un singhiozzo di pianto, e ci volle tutto il suo autocontrollo per trattenere lui stesso il dolore che stava cercando di strizzargli le lacrime fuori dagli occhi. Deglutì prima di parlare. «Quindi non ti ho veramente tradito, ma è come se l'avessi fatto, perché avrei voluto farlo.»

Leonardo continuava a stare zitto e piangere. 

«Ha ragione mio padre» proseguì Nico. «Noi uomini siamo squallidi e schifosi, non possiamo essere fedeli, e queste scopate sono solo squallide scopate, fini a se stesse, non vanno da nessuna parte, non c'è amore, sono destinate a finire nella merda.»

«Ma non è vero. Io...» Leonardo singhiozzò. «Ma...» Singhiozzò ancora. «Io...» Ci fu un'altra pausa, e quando parlò di nuovo la sua voce era un sussurro. «Io ti amo...»

Nico dovette sedersi a terra, e far scorrere un po' di lacrime. Non riusciva più a trattenerle.

«Tu no, invece. Non me lo hai mai più detto.»

«Lo pensavo» sussurrò Nico, la voce ancora un po' rotta dal pianto, che stava riuscendo a ricacciare indietro. «Forse lo penso ancora.»

«Forse?»

«Non so... non so più cosa penso, Leo. Non so più se il motivo per cui non riesco più a dirtelo è che rivedo mio padre che ci guarda quel giorno a casa di tuo nonno, o se non riesco a dirlo perché non lo penso più.»

Leonardo piangeva, in modo molto rumoroso.

«Se lo pensassi ancora, non avrei sognato di scopare con Raffaele. Forse non sono capace di...» Di amare... possibile che non riuscisse a dirlo nemmeno così? «Perché sono un uomo, sono squallido, e penso prima a scopare. Io pensavo che eri tu lo stronzo che voleva solo scopare. Ti odiavo, cazzo. Pensavo che eri egoista e pensavi solo a far godere il tuo cazzo e che di me non te ne fregava niente.»

Leonardo non rispondeva, ma piangeva.

«Ma io sono uguale. Forse anche peggio.»

Leonardo non disse altro. Nico sentì il click del telefono che si appoggiava, e il segnale di occupato che si perdeva nel nulla.

***

10 gennaio 1983

Il telefono quel giorno iniziò a squillare dal primo pomeriggio. Forse aveva squillato anche di mattina, Nico non lo sapeva, era a scuola.

Aveva risposto sempre sua madre e aveva sempre chiuso la chiamata con ostilità.

Alla sesta chiamata, staccò il telefono.

È Leonardo? non poté evitare di pensare Nico.

Era abbastanza sicuro che con lui fosse finita per sempre, e per due notti quella idea lo aveva tormentato. Faticava ad accettarla, anche se sapeva che era necessario farlo e andare avanti. Aveva cercato di riempire le sue giornate studiando e allenandosi (di nuovo da solo, di nuovo nel campo, o fuori casa), ma la sera era solo con se stesso, con la persona di merda che era, con quello che aveva fatto, con la sua eterna, irrisolvibile solitudine.

Non aveva mai pianto, anche se aveva avuto l'impulso di farlo: le lacrime erano una debolezza. Piangere non serviva a un cazzo. I bambini piangevano. Non gli adulti.

E adesso il telefono squillava a ripetizione. Cosa voleva Leo? Riprovarci? Nico non era sicuro di volerlo fare. I sensi di colpa lo avrebbero dilaniato in eterno.

Ma nonostante tutto, non avrebbe esitato un attimo a rispondere al telefono per parlare con lui. 

Era certamente Leo, chi altri poteva essere? Coi suoi che rispondevano ostili e chiudevano la chiamata in quel modo. Doveva per forza essere lui.

Di sera, Nico scoprì chi era davvero.

Non Leonardo. Goran. 

Che si presentò a casa loro, suonò alla porta. Nico non ebbe nemmeno modo di accorgersi che era lui, in un primo momento, perché fu il nonno ad alzarsi dalla sua poltrona, dove stava leggendo il giornale, e uscire immediatamente salutando l'ospite con insulti. 

Nico lo riconobbe dalla voce, mentre era seduto al grande tavolo del salone, adiacente all'ingresso e stava risolvendo degli esercizi di trigonometria. Goran gridò talmente forte da farsi udire da dietro la porta chiusa: «È da stamattina che chiamo e non mi rispondete!»

«Tornait in Jugo, câ no vi vuarìn!» rispose il nonno, invitando lui e la sua famiglia a tornare in Jugoslavia.

«Fatemi parlare con Nico, Diobòn! È importante!»

Nico fece per uscire di casa, ma dalla cucina arrivò di corsa la madre a cercare di fermarlo. «Nico, lascia stare quelle persone, resta con la tua famiglia» gli disse.

Per fortuna il padre di Nico non era a casa, sarebbe stato più difficile far valere la propria volontà. «Mamma, se è venuto fino a qua deve essere qualcosa di importante.»

Aprì la porta, uscì.

E lo trovò sconvolto. Occhi arrossati, capelli spettinati, aveva persino la camicia, che spuntava dal giaccone aperto, abbottonata male.

«Cosa è successo?» disse Nico in un sussurro, non riuscendo a elaborare nulla nella sua mente, se non la sensazione che fosse qualcosa di orribile.

«Leonardo ha provato ad ammazzarsi.»

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Note

È successo quello che in molti di voi temevano. Ma vorrei sottolineare che Goran ha usato il verbo provare, e nel prossimo capitolo vedremo come si conclude questa discussione.

Non vi lascio facendo la simpatica, stavolta, vi do appuntamento a lunedì e se vi va di lasciarmi una stellina di apprezzamento, nonostante la tristezza, mi fa piacere.

Solo una cosa: se non l'avete fatto, ascoltate la canzone del capitolo odierno, perché a mio avviso è uno dei pezzi più belli della storia della canzone italiana.

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