31. In un mondo di luci sentirsi nessuno
E poi mille strade grigie come il fumo
In un mondo di luci sentirsi nessuno
(L. Tenco, Ciao amore, ciao, 1967)
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Nico rimase per qualche secondo paralizzato da quella visione.
Ma non poteva esitare. Doveva scappare. «Dio, ti prego, via da qui, subito! Vengo in Piazza Duomo, qualsiasi cosa ma nascondimi!»
Raffaele all'improvviso era serio. Non fece domande. Lo prese per un braccio e lo trascinò verso gli spogliatoi. «Se andiamo di qua lo incrociamo? Lo vedi?»
«No, no, sta andando dalla parte opposta.»
Accelerarono il passo ed entrarono, si fecero largo tra coach e ragazzi che andavano e venivano dai campi.
«Non devi tornare dagli altri?» gli chiese Nico.
«Non ti preoccupare, intanto usciamo.»
Raffaele lo guidò con passo sicuro verso una serie di corridoi che portavano a un'uscita di sicurezza. La aprì e si trovarono all'esterno, su una via che Nico non riconobbe.
«Di qua» disse Raffaele. Spuntarono sul vialone che costeggiava il circolo. «Corri, dobbiamo prendere quell'autobus!» Si tenne la Polaroid ferma sul petto e schizzò via.
«Dove va quell'autobus?» chiese Nico rincorrendolo.
«Al mio hotel.»
Lo seguì senza fare altre domande, salirono. Raffaele infilò la mano in tasca e ne estrasse due biglietti, che obliterò.
L'autobus era talmente affollato che dovettero stare in piedi. Nico perse l'equilibrio appena il mezzo partì, rovinando addosso a una signora incappottata. «Mi scusi!»
«Si tenga, giovanotto!» lo ammonì lei.
«Tieniti qui» disse Raffaele indicandogli una maniglia di cuoio.
«Ti giuro, non sono mai salito su un autobus così pieno» esclamò Nico.
Raffaele rise. «Ma se è mezzo vuoto!»
«Ma tu non alloggi al Riccardi?» gli chiese Nico, notando che l'autobus imboccava una strada sconosciuta.
«No, figurati se miss Contessa di Montesticazzi si abbassa a stare nell'hotel tre stelle con la plebe.»
Nico rise. Aveva un po' di fiatone, più per l'ansia che per la corsa, e lo spavento unito alla calca di quell'autobus gli avevano fatto passare il freddo. «Scusa, ma qual è il tuo piano?»
«Qual è il tuo, piuttosto. Perché vuoi scappare da tuo padre?»
«Solo adesso mi rendo conto che mi hai portato via senza farmi mezza domanda. Chi ti dice che non stia scappando perché ho commesso qualche crimine?»
Raffaele rise. «Chi? Tu? Scopa in culo Bressan?»
Nico si incupì. «Cosa significa scopa in culo Bressan? Cosa stai insinuando?»
Raffaele lo indicò. «Esattamente questo. Che sei rigido come se ti avessero infilato un manico di scopa dritto su per il culo.»
«Giovanotto, ma le sembra il modo di parlare?» disse la donna addosso alla quale Nico era franato poco prima.
«Mi scusi, madame» disse lui. Poi le fece una boccaccia alle spalle, che fece ridere Nico, e Raffaele ne approfittò per scattargli un'altra foto a tradimento. «Facciamo che mi spieghi tutto appena scendiamo, sono solo altre due fermate» disse subito dopo averla scattata.
«E tu intanto smettila di scattarmi foto!» protestò Nico. Ma era, sotto sotto, lusingato. Perché lo stava facendo?
Forse gli piaccio?
Cercò di scacciare quell'idea dalla mente.
Scesi dall'autobus, Raffaele si lamentò perché la foto era venuta di nuovo sfocata («Eravamo su un autobus in movimento, era ovvio che venisse sfocata») e Nico spiegò a grandi linee ciò che era successo con suo padre, omettendo le vere ragioni e i dieci giorni trascorsi a casa di Leo.
Raffaele si mostrò molto ammirato. «Cazzo Nic, ritiro quello che ho detto sulla scopa in culo! Scappato di casa! Che figata! Tuo padre è davvero uno stronzo. Posso farti una domanda personale?»
«Non è detto che abbia voglia di rispondere» disse Nico, che immaginava le solite congetture sulla sua omosessualità.
«Tuo padre ti mena?»
«Ah. Be', sì, è capitato.»
«E lo dici come se fosse una cosa normale?» commentò lui con aria disgustata.
«Quindi anche tu sei contrario alla violenza fisica?»
«E chi non lo è?»
«Tutti tranne noi due, credo.» Persino il buon Goran giustifica gli scappellotti a fini educativi, rifletté. «Io mi sono ripromesso che se avrò dei figli non li picchierò mai. Ma penso che tutti i genitori picchino i figli per educarli. I tuoi no?»
«Mai! Siamo arrivati, intanto.» Raf indicò il grand hotel cinque stelle in cui alloggiava, un palazzo in stile neorinascimentale con due addetti in livrea davanti all'ingresso.
«Posso chiederti che lavoro fa tuo padre?»
«Notaio.»
«Ecco, vedi? Penso che il problema sia questo. I tuoi sono persone colte, mio padre invece è un ignorante e ha la mentalità da contadino. È una mentalità che odio. Per quello prima ci sono rimasto così male quando mi hai dato del provinciale, io odio essere un provinciale, vorrei vivere in città, vorrei scappare da quel buco di culo del mondo.»
Entrarono nella hall, lo sfarzo delle rifiniture in oro e i lampadari di cristallo lasciarono Nico a bocca aperta.
«È anche per questo che sei scappato?» gli chiese Raffaele.
«Eeeh... in un certo senso sì» rispose Nico, risvegliandosi dalla meraviglia.
Si diressero alla reception e Raffaele chiese la chiave della sua stanza. «Lui è mio ospite.»
«Nessun problema, signor Novelli.»
Nico rimase spiazzato. «Scusa, stiamo andando in camera tua?»
Per un attimo gli tornò in mente l'accusa di Leonardo: lo so che dormirai con Novelli! Si stava forse per avverare quell'assurda e gelosissima previsione? E cosa ci faceva Nico lì? L'aveva seguito senza riflettere, pensando solo a scappare da suo padre, ma lui non conosceva quel ragazzo. Non lo conosceva affatto.
«E dove pensavi che ti portassi? Non preoccuparti, non ho mire su di te, c'è anche mia madre in camera. Credo sia su.»
«La chiave era qui, tua madre è fuori» gli fece notare Nico.
«Lei la sua se la porta sempre dietro. Io la mollo qua perché sennò la perdo. Dai, non aver paura, giuro che non sono un assassino seriale. Andiamo. E una volta su facciamo merenda e ragioniamo.»
Non ho mire su di te... continua a fare allusioni omosessuali, mi scatta foto... Che avesse ragione Leo a essere geloso?
«In un certo senso sì, dicevi. Spiegami» disse Raffaele appena si chiusero le porte dell'ascensore.
Nico decise, per il momento, di mettere da parte le preoccupazioni. «Io vorrei fare un buon risultato in questo torneo per farmi notare da quelli della Federtennis e andare via di casa, essere preso in un centro nazionale.»
Raffaele non disse nulla, ma Nico notò una netta contrazione delle sue sopracciglia.
«Cosa c'è che non va?»
Le porte dell'ascensore si riaprirono. «Nic, non so come dirtelo, ma... non hai speranze.»
«Me l'ha detto anche Maurizio, il mio allenatore, e poi dopo mi ha anche detto che si è stupito per i miei progressi. E mi ha anche detto che ho un servizio eccellente e che il servizio fa metà del gioco. Eccellente, ha usato proprio questo aggettivo. E non è uno che fa complimenti facili.»
«Vuoi un parere sincero sul tuo gioco?»
«Sì.»
«Sei scarso.»
Nico inghiottì l'orgoglio e gli chiese: «In cosa?»
«In tutto, tranne forse il servizio. Che però non è eccellente, è appena accettabile.»
«Eh, ma spiegami perché!»
«Rovescio penoso, cerca di non farti mai giocare sul rovescio. Dritto scarso. Volée ancora più scarse. Ma che te lo spiego a fare? Sono cose impossibili da spiegare. Sarebbe come spiegare a una persona che non sa disegnare perché gli scarabocchi che fa sul foglio non sono dei bei disegni.»
«Esagerato!» sbottò Nico, infastidito da quelli che gli sembravano giudizi... esagerati, appunto.
«Siamo arrivati» disse Raf. Infilò la chiave nella toppa. «Mamma, ho ospiti. Sei presentabile?» gridò infilando la testa nella porta.
«Io sono sempre presentabile!»
Entrarono. Si aprì davanti a loro un piccolo atrio su cui dava un'ampia stanza che sembrava un incrocio tra un salottino, con un divanetto, un televisore e un tavolo ovale con sedie, e una camera matrimoniale. Accanto al letto c'era la roba di Raf, buttata a terra a casaccio. Era tutto molto sfarzoso e molto barocco, sui toni del rosa, crema e oro. C'erano altre due porte, oltre a quella d'ingresso, una delle due si aprì e ne uscì la madre. Nico intravide un secondo letto matrimoniale, nella stanza da cui era arrivata.
«Già finito? Gli hai dato un bagel?» disse la madre avvicinandosi a loro e ignorando la presenza di Nico.
«Bagel e breadstick!»
Ci fu una breve discussione sul match, in cui Raffaele le spiegò a grandi linee cos'era successo, la madre non sembrava troppo interessata. Finite le spiegazioni si rivolse finalmente a Nicolò. «E tu? Sei qui al torneo come spettatore?»
Nico drizzò la schiena. «Sono in tabellone grazie a una wildcard che ho ottenuto vincendo il torneo regionale di Trieste.»
La madre di Raffaele alzò un sopracciglio con sufficienza. «Ah sì, quest'anno hanno deciso di dare quattro wildcard a quattro ragazzi scarsi poco abbienti.» Scosse la testa. «Come se servisse a qualcosa, uscirete tutti al primo o al secondo turno.»
«Il primo l'ho passato» disse Nico.
«Uscirai al prossimo, allora. Queste wildcard non hanno senso, tolgono spazio a ragazzi più meritevoli.»
Nico faticò a trattenere la rabbia. «Io ho meritato di entrare, ho vinto un torneo.»
«E Raffaele ne ha vinti diversi, nazionali e internazionali, e si è qualificato di diritto grazie al suo ranking. Non riesci proprio a vedere che queste wildcard sono solo dei contentini?»
«Domani passerò anche il secondo turno e la smentirò, gioco contro una testa di serie.»
«Se vincerai per merito e non per infortunio dell'avversario ti farò i complimenti, ma la mia idea su queste wildcard non cambierà.»
Prima il figlio, ora la madre. Nico si sentiva come se fosse stato buttato in una lavatrice.
Da quando era piccolo tutti gli avevano sempre detto che era portato per il tennis. Ma cominciava a rendersi conto che si era sempre confrontato con bambini meno abili e fisicamente più deboli di lui: dopotutto, era sempre stato più alto e forte dei suoi coetanei. Adesso che stava cercando di entrare nel mondo dei professionisti capiva che era un pianeta completamente diverso.
«Io vado di là a guardare la televisione, ragazzi» disse la madre. «Se vi servono soldi per uscire li trovate lì.» Indicò una borsa di Louis Vuitton posata su un tavolinetto in legno intarsiato, proprio accanto alla porta d'ingresso.
«Aspetta, prima di andare ci scatti una foto?» disse Raffaele sfilandosi la Polaroid dal collo.
«Ma basta, sei fissato!» sbottò Nico.
«Dai, su, niente storie» disse Raffaele. Poi si affiancò a lui e lo cinse per una spalla. Nico si irrigidì.
«Eddai! Abbracciami anche tu!» lo incoraggiò Raffaele. Prese il braccio destro di Nico e se lo tirò dietro la schiena. Nico lo cinse all'altezza della vita, Raffaele lo stritolò. Si sentì strano, non riuscì a sorridere.
Perché vuole una foto con me? Perché mi abbraccia?
La madre scattò.
Nemmeno il tempo di rilassarsi, era già tutto finito, Raffaele si era allontanato da lui e la madre si congedò.
«Dai che questa è quella buona» disse Raffaele sventolando la pellicola. Poi fece una smorfia che sembrava quasi un'espressione di scuse. «Non stare a sentire i commenti di mia madre, è una stronza.»
Nico sospirò. «Dimmi la verità. Le pensi anche tu quelle cose sulle wildcard? Che tolgono posti a ragazzi meritevoli?»
«No, penso che sia giusto dare delle occasioni a ragazzi talentuosi che hanno pochi soldi per girare in tornei grossi.»
«Tu però non pensi che io sia talentuoso.»
Raf non rispose. Si limitò a sospirare. Un sospiro molto eloquente.
«Dimmi che sono coione, ma nonostante tutto non mi arrendo» disse Nico.
«Vorrei essere come te» lo sorprese Raffaele.
«Scarso?»
«No. Motivato. A me questa vita non piace. Tu vorresti viverla. Mi piacerebbe regalarti tutta la mia bravura e mettermi a fare altro.»
«Vuoi venire a ereditare l'azienda vinicola di mio padre? Se vuoi te la lascio» scherzò Nico.
Raffaele rise. «No grazie, sarei ubriaco da mattina a sera!»
«Scusa, ma se non ti piace il tennis perché ci giochi? Ti costringe tua madre?»
Il viso di Raffaele si fece triste, il ragazzo si strinse nelle spalle. «No, in realtà non gliene frega niente. Per lei alle allenarmi è un hobby. Le piace l'idea di avere un figlio atleta come lei, per vantarsene con le sue amiche al circolo di equitazione. Ma se domani decidessi di smettere per fare il carpentiere farebbe spallucce e continuerebbe a fare i suoi balletti gay coi cavalli.»
«E allora perché giochi?»
Raffaele appoggiò distrattamente la foto sul mobiletto d'ingresso. «Perché è l'unica cosa che so fare e la so fare bene. Perché mi rode quando perdo e allora gioco di nuovo per togliermi il rodimento. Perché mia madre è contenta se gioco e quando è contenta mi dà soldi. E anche... anche perché un po' mi piace quando mi ammirano e mi dicono che sono bello. Forse sono vanitoso, ma mi piace fare cose belle. Belle da vedere.»
«L'importante è vincere, non fare cose belle.»
«Non solo. Non sono d'accordo.» Si strinse nelle spalle di nuovo. «Ma non importa, non è che me ne freghi più di tanto.»
«Secondo te... sincero: secondo te quanto tempo mi ci vorrebbe per raggiungere un livello che faccia prendere alla Federtennis in considerazione...»
«Mai» lo interruppe Raffaele. «Nic, a me dispiace dirtelo, perché vedo che ci tieni, ma è meglio che non ti illudi. Non hai proprio i mezzi per diventare professionista. Perché sei scappato? Tuo padre è davvero tanto violento con te? Perché non chiami gli assistenti sociali?»
Nico mando Raffaele a quel paese con la mano. «Ma quali assistenti sociali! Mi sculacciava da piccolo, e di recente... è capitato una volta, ma l'avevo fatta grossa» tagliò corto.
«E allora perché vuoi andare via? Ha a che fare con la tua omosessualità?»
Nico si sentì arrossire tutto d'un tratto, come se una fiammata gli avesse ustionato il viso. «Ma la finisci di dire questa cazzata? Ma perché ti sei messo in testa questa idea?»
Raffaele alzò le mani. «Ok, ok, scusa. Ma... quindi adesso cos'hai intenzione di fare?»
«Non lo so. Mio padre è qui e sa in che hotel alloggio perché ieri sera mi ha chiamato lì, e prima o poi in hotel ci devo tornare.»
«Ma no, ti ospito qui. Io dormo di là con mia madre. Le tue cose le recuperiamo in qualche modo domani, per stasera ti presto un pigiama e in bagno c'è tutto se vuoi lavarti, anche lo spazzolino nuovo.»
Nico lo guardò per parecchi secondi in silenzio. «Ma sei matto? Non me lo posso permettere di stare qui!»
«Ho detto che ti ospito. Sai cosa vuol dire ospitare?»
«Uno: tua madre cosa dice? Due: e domani cosa faccio? Se non mi trova in hotel, mio padre viene di nuovo al torneo, mi trova e fa una scenata, tipo che mi trascina via per le orecchie.»
«E menomale che non era violento!»
«Era per dire...» Forse.
«Allora. Di mia madre non te ne devi preoccupare, non gliene frega un cazzo di cosa faccio e chi frequento. Anzi, più i miei amici li percepisce sfigati più è contenta, perché si atteggia da socialista radical chic.»
«Grazie per lo sfigato.»
«Ho detto che lei ti percepisce così. Io non lo penso. Comunque, le dico che ti serve un posto letto, si romperà le palle che le occupo la stanza, perché io vado di là a dormire con lei, ma mi dirà di sì.»
Nico era quasi commosso da quell'offerta. «Se mi ospiti qui te ne sarò grato per sempre.» E non devo assolutamente dirlo a Leo.
«Su tuo padre al torneo... non so. Ma gli organizzatori del torneo sono gente seria e pensano per prima cosa ai tennisti. Se tuo padre tira su un casino secondo me lo cacciano.»
«Speriamo. Ma mi sembra troppo bello per essere possibile» disse Nico.
«Però... anche se lo cacciano e tu riesci a giocare, poi cosa fai?»
«In che senso? Gioco, no?»
«Sì, ma poi?»
«Ah, intendi dire: se passo il turno, poi dopodomani il problema si pone di nuovo perché mio padre sarà ancora qui.» Nico sospirò. Era davvero una presenza opprimente.
«No. Cosa intendi fare per andartene dal buco di culo del mondo, come lo chiami tu. Perché col tennis non hai speranze.»
Raffaele era davvero spietato, su quel punto. Nico non rispose. Non riusciva ad accettare quella verità. Possibile che fosse una verità? Possibile che non ci fosse una quantità di impegno e sacrificio che potesse sovvertirla?
«Il tennis è tua sola possibilità di fuga?» insisté Raffaele.
«Non lo so. Non so più cosa fare» disse Nico abbassando la testa. Il tennis era l'unica soluzione a cui avesse mai pensato, e qualsiasi altra soluzione gli sembrava limitante. Non accettabile.
«Dai, adesso non pensiamoci e andiamo a sederci, che cazzo ci facciamo qua in piedi nell'atrio come due coglioni?»
Raffaele prese la foto che aveva lasciato sul mobile e sorrise guardandola. «Questa è semi-decente. Ma un po' troppo scura, mannaggia, si vede meglio lo sfondo del primo piano.»
La mostrò a Nico, e l'osservazione di Raf era giusta: Nico e Raf erano ben visibili, ma messi un po' in controluce dalla finestra sullo sfondo che illuminava molto meglio il lettone sfatto e la stanza.
«Vedi quello che ti dicevo prima?» aggiunse Raf. «Guarda come sei rigido, sembra proprio che hai un manico di scopa che ti parte dal culo e arriva fino alla testa.»
Nico sorrise, perché riconobbe che era vero: era proprio rigido, quasi spaventato, Raffaele invece sembrava disinvolto come non mai.
Immaginò come sarebbe stato fare la stessa foto insieme a Leo.
Avrebbe tanto voluto sentirlo, ma se Leonardo avesse chiamato, quella sera, non avrebbe trovato nessuno in hotel. Nico sperava non lo facesse: cosa avrebbe pensato non trovandolo in camera? Si sarebbe ingelosito e Nico avrebbe dovuto inventare una scusa.
Raf appoggiò di nuovo la foto sul tavolino. «Dai, andiamo a sederci che ti offro una birra.»
***
6 gennaio 1983
Nico si ritrovò Raffaele nel letto alle due di notte.
Dopo un pomeriggio trascorso mangiando merendine del frigobar, accompagnate da birra fredda e parlando di tennis, musica, libri, problemi personali (poco, Nico aveva cercato di schivare tutte le domande in merito), e una cena insieme alla madre dove Nico aveva appreso che i genitori di Raf erano divorziati e il padre un missino (sia Raf che la contessa l'avevano definito con una parola molto più esplicita: fascio), Raffaele, in serata, era uscito con gli amici a cui aveva dato buca il pomeriggio. Aveva insistito perché Nico si unisse, ma nonostante l'imbarazzo di dover condividere una camera con una sconosciuta contessa, Nico aveva preferito restare in hotel, sia perché si sarebbe sentito fuori posto in mezzo a quei ragazzi, sia perché voleva riposare in vista dell'incontro dell'indomani.
Aveva preso sonno abbastanza in fretta, nonostante tutte le preoccupazioni, e nel cuore della notte era stato svegliato da un terremoto nel letto.
«Ma che cazzo succede?» trasalì. Qualcosa o qualcuno gli stava bloccando le gambe.
«Sto a morì» fu la risposta in dialetto romanesco.
«Raffaele? Raf?» disse Nico, ancora inebetito dal sonno. La stanza era immersa nel buio.
«Nh.»
Nico decise di accendere la luce sul comodino e i suoi occhi misero a fuoco il corpo di Raffaele vestito in jeans, camicia e mocassini, steso a pancia in giù in diagonale sul letto, le gambe sopra a quelle di Nico.
«Hello» disse lui senza muoversi.
«Ma non dovevi andare in stanza di tua madre?» disse Nico. «Che ore sono, poi?»
«Boh.»
«Ma sei bevuto?»
«Avoja.»
Nico intuì che "avoja" significasse "parecchio": la voce di Raffaele era molto impastata e il suo corpo restava immobile. Guardò l'ora sulla sveglia digitale appoggiata al comodino.
Le due e venti.
«Ma sei scemo? Domani giochi!» Nico si stava sforzando di parlare sottovoce per non svegliare la madre.
«Infatti. Fammi dormire» biascicò lui.
«Ma...»
Decise che non aveva senso protestare oltre. Si alzò sfilando le gambe da sotto quelle di Raffaele, poi gliele sollevò e lo ruotò, mettendolo dritto a occupare una metà di quel letto matrimoniale.
Matrimoniale...
I pensieri di Nico galopparono furiosi. A letto con un ragazzo! Un bel ragazzo! Che mi fa allusioni! E si sentì, suo malgrado, un po' eccitato.
Poi pensò a Leo.
Non aveva sentito Leo. Non sapeva se lui avesse chiamato all'altro hotel o se ancora non ne avesse avuto l'occasione. Cosa doveva aver pensato non trovandolo, se aveva chiamato? Quella prospettiva, che durante il pomeriggio, preso dalla fuga e dalle chiacchiere con Raffaele, Nico aveva quasi dimenticato, ora gli sembrava un problema importante. Si preoccupò all'idea che Leo dovesse essersi preoccupato, e si sentì in colpa di non averci pensato seriamente.
Nico si sentì in colpa anche dei pensieri poco opportuni che aveva appena fatto su Novelli, sulle sue frasi ambigue. Ma non riusciva a evitare di pensarci, anche sentendosi in colpa: e se davvero fosse stato finocchio anche lui? Se avesse fatto a Nico quelle domande sull'omosessualità per sapere se aveva via libera?
In fondo, come facevano i finocchi a trovarsi?
Per lui e Leo era stato strano. Leo gli aveva detto di averlo capito e si era buttato. Aveva avuto coraggio e Nico aveva ceduto.
Ma come si poteva fare, altrimenti? Dirlo pubblicamente significava un destino di prese in giro, biasimo, disprezzo.
Farlo sapere a un possibile compagno, come aveva fatto Leo con Nico, era rischioso: se Leo si fosse sbagliato sul conto di Nico, chissà, forse Nico l'avrebbe raccontato in giro e tutti l'avrebbero saputo.
Il dottor Visintin gli aveva detto che nelle grandi città esistevano associazioni di omosessuali. Forse quei pochi che avevano avuto il coraggio di uscire allo scoperto facevano anche da agenzia matrimoniale agli altri per farli incontrare a vicenda?
Forse esistevano giornali di annunci. Ma era rischioso! Qualche malintenzionato avrebbe potuto rispondere al solo scopo di rivelare l'identità di qualcuno, o di prenderlo in giro, o ancor peggio di punirlo.
Era davvero una situazione spaventosa e quasi impossibile da risolvere.
Anche la soluzione di Raffaele gli sembrava poco praticabile. Uno poteva anche porre la domanda fingendo di non essere omosessuale a sua volta, ma chi mai avrebbe avuto il coraggio di rispondere sì?
Che cosa terribile. E come sono fortunato ad aver trovato Leo.
Ricordò che Leo stesso una volta gli aveva detto una cosa simile: tu non capisci quanto siamo stati fortunati a trovarci.
In quel momento lo capiva.
Al mondo siamo io e te. Non aveva mai capito tanto bene quella frase.
Gli mancava, Leo. L'indomani avrebbe chiamato Goran per fargli avere i nuovi contatti e avrebbe inventato una scusa sul cambio di hotel.
Intanto doveva risolvere il problema sonno. Aveva bisogno di essere ben riposato e la presenza di Raffaele non poteva essere un ostacolo: il pavimento era troppo scomodo.
Pensare a Leo aveva fatto scemare qualsiasi pensiero fuori luogo dalla sua testa. Decise che avrebbe dormito in quel letto con Raffaele, ma con la testa dove si trovavano i piedi. Gli sfilò scarpe e calzini, lo spinse il più possibile verso sinistra, recuperò il suo cuscino, spense la luce e si stese sulla destra, al contrario.
L'altro non disse più nulla. A Nico ci volle un po' per riaddormentarsi, ma alla fine ci riuscì e dormì un sonno tranquillo.
***
«Mamma. Aspirina.»
«Hai bevuto?»
«E non rompere.»
Raffaele stava mangiando un cornetto alla crema con la faccia di qualcuno a cui era appena stato tolto un dente senza anestesia. Quando la madre si fu allontanata Nico sussurrò a Raffaele: «Ma come cazzo fai a giocare messo così?»
«Non preoccuparti, tra un'ora sono come nuovo.»
Nico decise di non fare altri commenti.
Andarono al torneo in macchina, un'auto privata dell'hotel. Raffaele era silenzioso e serio. Aveva sempre quella maledetta Polaroid al collo.
«Hai ancora mal di testa?» gli chiese Nico.
Si voltò e accennò un sorriso. «No. Sto bene.»
Si fece di nuovo serio e guardò fuori dal finestrino.
Nico odiava stare zitto con persone che conosceva poco, ma non riuscì a farsi venire in mente nulla da dire, perciò il viaggio finì in silenzio. La madre non li aveva seguiti, era rimasta in hotel.
La sua mente non rimase vuota. Pensò a suo padre che lo aspettava, e ci pensava come a qualcosa di lontano, irreale. Non lo trovò, al loro arrivo al torneo.
Ma era lì a Milano, ed era solo questione di tempo.
Nico aveva di nuovo l'incontro fissato nel primo pomeriggio, mentre Raffaele avrebbe giocato un paio d'ore dopo Nico, ma l'aveva seguito perché (testuale): «Devo assolutamente fare il tifo per te!»
Nico si stava sempre più convincendo che quel ragazzino ci stesse provando con lui. E la cosa terribile è che quelle avances lo stavano suggestionando, gli stavano facendo venire in mente orribili fantasie di tradimento, con conseguente senso di colpa.
Ma tradimento di cosa?
Si chiese, lì, per la prima volta in vita sua, cosa fossero lui e Leo.
Una coppia?
Gli sembrava un'idea profondamente sbagliata. Una coppia erano un uomo e una donna, una relazione che poteva dare dei frutti. Loro cosa potevano diventare? Due uomini che andavano avanti a scopare e basta per tutta la vita, fino alla morte? Dove poteva andare una storia simile? Non aveva futuro, era fine a se stessa.
Però quando pensava ai suoi progetti di diventare professionista e portare Leo in giro per il mondo, quell'idea lo riempiva di una strana tenerezza, gli sembrava un sogno impossibile e allo stesso tempo normale.
Avere qualcuno accanto su cui contare, che sa i tuoi segreti, sa cosa ti piace, in qualche modo imperfetto ti capisce. Qualcuno su cui fare affidamento, che sai ci sarà sempre, per te.
I suoi sentimenti sulla questione erano conflittuali, come lo erano anche quelli per Leo. A volte sentiva di amarlo, a volte lo disprezzava. Non era una bella persona, ma qualche volta lo era, e soprattutto era l'essere umano che gli aveva causato i momenti più felici e intensamente emozionanti della sua vita.
«Che faccia! Sei preoccupato per tuo padre?» chiese Raffaele.
Avevano attraversato il parcheggio ed erano entrati negli spogliatoi.
«No, pensavo a...» Merda! Non voglio nominare "la mia ragazza", farebbe di sicuro qualche battuta omosessuale!
«Al tuo amore lontano?»
Che cazzo significa il mio amore lontano? Mi prende in giro?
Nico si trovò ad annuire impercettibilmente.
«L'hai chiamato ieri?»
«Perché usi il maschile?» disse Nico tra i denti.
«Amore è un sostantivo maschile! Preferisci che dico la tua simpatia?» Raffaele rise. «Come la canzone!»
La canzone che aveva cantato Leo!
«Come fai a conoscere quella canzone?»
«Credo la conoscano tutti, è famosissima.» Raffaele schioccò le dita. «Ah, ma la tua simpatia suona la fisarmonica, mi dicevi! Sa suonare quella canzone?»
«La mia ragazza!» sbottò Nico. «Finiscila con queste allusioni del cazzo, hai rotto i coglioni! Non mi sto divertendo!»
Raffaele si fece serio. Sembrò dispiaciuto. «Scusa.»
Nico non rispose, aprì il suo armadietto, cominciò a prepararsi.
«Su che campo giochi?» chiese Raffaele dopo che Nico ebbe finito di allacciarsi le scarpe.
«Undici.»
«Pensi che tuo padre sarà lì?»
Nico scosse la testa. «Non so. Probabile. È assurdo. Ieri l'ho visto, so che è qua ma se penso che quasi sicuramente lo incontrerò non riesco a essere davvero preoccupato. È come se... non so, mi sembra quasi un evento impossibile.»
«Ti capisco, Nic. Anche a me i problemi sembrano sempre lontanissimi, finché non mi precipitano sulla testa facendomi affogare.»
Nico ridacchiò, perché credeva fosse un'esagerazione comica, ma poi notò che l'espressione di Raffaele era cupissima. «Oddio... ma ti è successo qualcosa?» gli chiese.
«Sì. Nascere.»
Mammamia, che tragico!
Nico preferì non commentare. Raffaele era un tipo strano: i suoi atteggiamenti oscillavano tra l'euforia idiota e il dramma esagerato. Non sembrava avere vie di mezzo.
«Dai, andiamo fuori, dovrei scaldarmi, faccio un po' di corsa per le strade del circolo. Mi tieni compagnia o ci vediamo dopo?» chiese Nico.
«Mi rompo a correre. Vengo al campo quando inizia la tua partita. Mettiti in posa!» Raffaele sollevò la Polaroid.
Nico decise che non aveva più senso protestare per quella stupida fissazione e cedette alla richiesta: sorrise e alzò un pollice in aria.
Raffaele scattò, prese la foto e iniziando a sventolarla lo salutò: «A dopo!»
Mi scatta davvero un sacco di foto... pensò allontanandosi. Decise di non riflettere sulle implicazioni di quell'idea, si era già suggestionato abbastanza.
Nico si guardò attentamente intorno, una volta fuori, e non vi era traccia del padre.
Fece una buona mezz'ora di riscaldamento: qualche giro di corsa, qualche affondo, qualche scatto. Mancavano venti minuti all'incontro. Un po' di stretching.
Era ora di andare.
Se suo padre voleva incontrarlo e non era stupido, Nico l'avrebbe trovato là. Al campo. Chiunque poteva consultare i tabelloni e sapere chi giocava e dove.
E infatti non si stupì di vederlo a bordocampo. Ciò che lo stupì fu vedere che stava discutendo con Mister Polaroid, Raffaele in persona.
Nico si avvicinò, con la gola che si faceva sempre più stretta a ogni passo.
«...suo figlio mi ha raccontato tutto» fu la prima cosa che Nico riuscì a udire in mezzo al baccano.
«E cosa ti ha raccontato?» gli chiese il padre portando le mani ai fianchi.
«Sì, cosa ti avrei raccontato?» si intromise Nico, irritato.
«Che ti mena!» disse indicando il padre.
Nico non avrebbe saputo dire se era più incazzato per il fatto che Raffaele stesse spifferando i fatti suoi in giro o più spaventato all'idea di come avrebbe reagito il padre.
«Ah, sempre buono di frignare come una femminuccia!» lo canzonò il padre. «E adesso vieni e torniamo a casa.»
«Ho una partita da giocare» disse Nico.
«Rispetti la volontà di suo figlio!» disse Raffaele.
«E tu rispetta i cazzi miei!» disse Nico a Raffaele.
«Dov'eri ieri sera? Con questo bellimbusto?» chiese il padre agguantandolo per una spalla.
Nico fu paralizzato da un fiotto d'adrenalina: e se suo padre per umiliarlo si fosse messo a dire davanti a tutti che era un finocchio?
«Sì, l'ho ospitato nella stanza che condivido con mia madre» disse Raffaele. «Visto che lei l'aveva minacciato di violenza fisica, e...»
«Ma la smetti di raccontare i cazzi miei a voce alta?» lo interruppe Nico: tutte le persone nei paraggi stavano assistendo al litigio. C'era già Abate, il suo avversario, che non sembrava né interessato né divertito, alcuni addetti del torneo, un po' di pubblico, donne e uomini, e il chiasso stava attirando altra gente. Il padre, forse intimorito dagli sguardi, allentò appena la presa sulla spalla di Nico, che ne approfittò per liberarsi e indietreggiare di un passo.
«Io quindi ho dormito con mia madre e ho lasciato la mia stanza a Nicolò» finì ugualmente Raffaele.
«Una bella sberla te la meriteresti anche tu, contessino arrogante» gli disse il padre tra i denti.
«Anche? Cosa significa anche? Che quindi a Nic lo picchierà davvero? Lo sa che la violenza fisica su minori è passibile di denuncia? Mio padre è capo di uno degli studi notarili più importanti di Roma, ha diversi avvocati a libro paga e non ci mettiamo niente a denunciarla e toglierle la patria potestà!»
«Ah sì?» disse Nico frastornato dalla belligeranza di Raffaele.
«Brutto...» Il padre di Nico accennò ad alzare una mano ma si trattenne in modo evidente. C'erano davvero tante persone che li guardavano, e forse la presenza di quelle persone stava salvando la situazione, impedendo al padre di essere manesco. Guardò Nico. «E 'l to amì çe disie di chist tolololo câ?»
Aveva parlato di Leo e l'aveva fatto in friulano. Non voleva farsi capire. Si vergognava troppo dell'omosessualità di Nico per usarla come strumento di pubblica umiliazione. Nico ripercorse a mente la frase. Non pensava fosse comprensibile a un italiano, in particolare non a un romano: il tuo amico cosa dice di questo cretino qua? L'aveva pronunciata velocemente, per giunta. Il tuo amico ovviamente era Leo.
«El tolololo l'è dome me amì» disse serio Nico. Il cretino è solo mio amico.
«No l'è ancje Devetak dome to amì?» disse il padre con un sorrisetto di scherno. Non è anche Devetak solo tuo amico?
Nico era furibondo e si arrischiò a pronunciare una frase che forse qualcuno avrebbe potuto capire. Era quasi certo che tacconare fosse un verbo usato solo in friulano per dire scopare, e di friulani lì intorno non pensava ce ne fossero, ma non poteva essere certo né della prima né della seconda cosa. Ugualmente si arrischiò, parlando a voce più bassa possibile: «Tu âs viodût ancje tu che Devetak mi lu taconi.» Hai visto anche tu che Devetak me lo scopo.
Il padre fece un'espressione scioccata, scandalizzata. Per la prima volta Nico stava ammettendo a parole, davanti a lui, la propria omosessualità. E lo stava facendo senza vergognarsene. Si sentiva sicuro. Le persone intorno a loro lo facevano sentire al sicuro. Il padre non avrebbe avuto il coraggio di fare niente, glielo dicevano le esitazioni che vedeva nei suoi gesti, il fatto che parlasse in friulano per non farsi capire...
Nico strinse i pugni, sentì gli occhi bruciare di rabbia e di parole troppo a lungo trattenute nel petto. «Çe crodistu che 'vin fat par dîs zornadis?» Cosa credi che abbiamo fatto per dieci giorni?
L'espressione del padre si stava trasformando da oltraggiata a furibonda. Ci fu un lungo silenzio e Raffaele si mise infine in mezzo tra Nico e suo padre. «Non so cosa vi siate detti, ma lei deve voler proprio male a suo figlio, se ci tiene tanto a turbarlo così prima di una partita importante come questa.»
Il padre serrò le mascelle, socchiuse gli occhi, il suo respiro si fece più concitato e la pelle del suo viso si arrossò. «Una partita importante, eh? La vuoi tanto giocare? E giocala. Gioca questa partita di merda. Sarà l'ultima partita che giocherai in vita tua.»
«Questo è tutto da vedere, se vince oggi, domani gioca i quarti, e se vince anche domani, dopodomani ha la semi contro di me» disse Raffaele.
«Lu cônti a ducj. Se no tu vegnis vie usgnòt, lu cônti a ducj. Gj disi a ducj çe che tu sês» disse il padre gelido.
Nico sentì una morsa d'angoscia paralizzargli i muscoli.
Suo padre lo aveva appena minacciato di rivelare a tutti la sua omosessualità se quella notte Nico non fosse tornato a Capriva con lui.
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Note 🎶
Un capitolo bello lungo con un bel po' di carne al fuoco... cosa ne pensate delle strane allusioni di Raf? Significano qualcosa o è Nico che fraintende?
E della terribile minaccia del padre? Come si risolverà? Cosa farà Nico?
Lo scoprirete lunedì! E lasciatemi una stellina per tutte le maledizioni che Leo tirerebbe a Raffaele se potesse assistere alle interazioni di questo capitolo!
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