30. Sono un ragazzo di strada e tu ti prendi gioco di me

Io sono quel che sono
Non faccio la vita che fai
Io vivo ai margini della città
Non vivo come te

(N. Salerno, Ragazzo di strada, 1966)

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Nota censura: da questo capitolo in poi non ho più fatto modifiche, Nico si avvia finalmente alla maggiore età! Yeee!

3 gennaio 1983

Milano era una città sorprendente e spaventosa.

La stazione era un luogo magico, uscito dal set di un film noir fantascientifico, con quelle gigantesche arcate in ferro battuto. Il traffico, poi, era stato uno shock: Nico non ne aveva mai visto tanto nemmeno a Trieste. E all'idea che nei giorni successivi si sarebbe dovuto spostare da solo lì in mezzo, in quelle strade complicate e infinite, Nico aveva provato paura. Paura di perdersi in una città così grande e piena di persone.

Gli sarebbe piaciuto farsi coraggio e visitare il Duomo o il Castello Sforzesco, ma purtroppo era dovuto andare subito alla sede del torneo per confermare l'iscrizione, poi aveva pranzato nell'hotel adiacente e nel pomeriggio era tornato di nuovo alla sede del torneo, perché erano dieci giorni che non si allenava in campo. Cercò e trovò qualcuno in cerca di sparring, palleggiò per un'ora trovandosi arrugginitissimo e riuscì infine a organizzare persino una seconda sessione di mezz'ora proprio a ridosso della chiusura degli impianti.

Quel centro tennistico indoor era di dimensioni impressionanti: due differenti edifici da sei campi l'uno, più otto campi esterni coperti da tendoni riscaldati, perfetti per giocare in qualsiasi condizione atmosferica. Nico aveva fatto la prima sessione di palleggio nei campi riscaldati, mentre gli ultimi trenta minuti li aveva passati al freddo sui campi scoperti che erano riservati solo agli allenamenti, quando il tempo lo permetteva. Purtroppo, la superficie di gioco dei campi in tenda era leggermente diversa rispetto a quelli in palestra, una bella sfida per Nico, che avrebbe dovuto adattarsi alle diverse misure in caso di cambio tra un incontro e un altro - sempre che ne avesse vinto qualcuno. I campi in tenda non avevano spalti, ma solo delle reti divisorie dietro le quali era possibile sostare in piedi. Al contrario, i campi in palestra erano attrezzati con comode gradinate, ma erano riservati agli incontri più importanti. Nico sapeva già che il suo primo incontro si sarebbe giocato sotto una tenda.

A Nico era capitato di giocare su sintetico al circolo di Trieste e a qualche torneo invernale, ma non era abituato alle superfici dure. Nonostante ciò, sentiva gli fosse congeniale: il suo servizio, il colpo migliore che aveva, si esprimeva alla massima potenza sul veloce. Scrisse il suo nome su un campo vuoto anche la mattina del giorno dopo, per scaldarsi in vista del suo primo incontro che si sarebbe giocato il pomeriggio.

Tornato in camera, la sera, chiamò nonno Goran per dargli il numero dell'hotel e quello di stanza, che poi lui avrebbe dato a Leonardo una volta fosse arrivato in caserma - il viaggio per Barletta era lungo, sarebbe arrivato appena il giorno dopo.

Da solo, la sera, nel letto, la stanchezza anziché farlo addormentare lo tenne sveglio: era stress, più che stanchezza, tensione nervosa che gli impediva di dormire.

Pensò a Leonardo.

Per la prima volta dopo dieci giorni ripensò al libro bruciato. Alle parole perdute.

I dieci giorni trascorsi insieme a Leo gliele avevano fatte dimenticare, perché c'era lui, a cosa servivano delle stupide parole? Ma adesso che era solo e ne sentiva la mancanza, ci ripensò e sentì di aver perso per sempre qualcosa di prezioso e insostituibile.

A dire il vero, aveva ancora sentimenti ambigui nei confronti di quelle frasi. Continuava a pensare fossero troppo semplici, troppo ingenue e infantili. Allo stesso tempo, erano forse le parole più pure e gentili che Leo gli avesse mai rivolto. Se chiudeva gli occhi gli sembrava di rileggerle ancora su quella pagina bianca, e avrebbe voluto sprofondarci dentro come in un cuscino di piume. Ma non c'erano più, e non era nemmeno più certo di ricordarle bene.

Si rese conto, d'improvviso, di quanto fosse solo. Al mondo siamo io e te. Sì, stare con Leonardo era come stare a casa. Ma non casa nel senso di Capriva, campagna e genitori opprimenti. Casa nel senso di: posto confortevole, familiare, sicuro.

Era immerso in questi pensieri teneri, quando il telefono della camera squillò. Chi poteva essere? Goran? Cosa era successo da giustificare una chiamata? Rispose con timore: «Pronto?»

Venne salutato da una bestemmia. Due bestemmie. Tre.

Non era Goran. Era suo padre.

Preso com'era da tutto il resto, quasi non ci aveva più pensato, ma la Fulvia doveva ormai aver detto a sua madre che Nico era andato a Milano, il padre doveva aver fatto un giro di telefonate al circolo, o forse trovato i depliant informativi che dovevano ancora essere in camera di Nico, e aveva trovato i contatti dell'hotel. Gli sembrava improbabile che fosse stato Goran a dargli il numero, ma anche se l'avesse fatto Nico non l'avrebbe biasimato.

Il padre gli diede del pazzo, del cretino, del delinquente. «Non ti sono bastati dieci giorni di vacanza col finocchio?» gridò. Poi gli promise che sarebbe andato a prenderlo l'indomani e l'avrebbe portato via dal torneo trascinandolo dalle orecchie, e rinnovò le sue promesse di reclusione casalinga eterna: niente più tennis, niente più televisione, niente più libri e soprattutto niente più Leonardo.

«Hai tirato troppo la corda e si è rotta. Io e tua madre ti abbiamo viziato troppo, ma da domani la musica cambia.» Fu la frase con cui si congedò, pronunciata in tono amaro e sommesso.

Nico aveva ascoltato in silenzio. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto affrontare il padre e il momento era purtroppo arrivato. Per questo era importante per lui dare il meglio di sé in quel torneo. Era la sua unica occasione di farsi notare dalla Federazione, e se l'avessero notato e selezionato, forse suo padre davanti alla prospettiva di avere in famiglia un atleta di fama nazionale avrebbe cambiato idea.

E se non avesse cambiato idea Nico sarebbe andato al centro federale ugualmente, con o senza la loro approvazione.

Doveva dare il meglio di sé. Doveva risplendere.

***

5 gennaio 1983

«Gioco, partita, incontro Bressan, 6-4 6-3.»

Nicolò strinse la mano a rete al suo avversario, un quindicenne con colpi deboli e poca fantasia. Aveva avuto un abbinamento fortunato, anzi, fortunatissimo per il primo turno. Considerata la sua poca dimistichezza coi campi veloci, gli era capitato il miglior tipo di giocatore possibile: un terraiolo più piccolo e più debole di lui. L'incontro era stato un utilissimo allenamento.

Il giorno dopo, però, avrebbe dovuto affrontare quasi di certo una testa di serie, e la cosa lo preoccupava.

Siccome era lì senza allenatori, doveva fare tutto da solo. Il giorno prima, ad esempio, dopo aver saputo il nome del suo avversario, aveva chiesto in giro chi fosse ma aveva scoperto solo l'età: aveva quindi giocato il suo match alla cieca.

Era un rischio che non poteva ripetere.

Il suo incontro era stato uno dei primi. Una fortuna, forse sarebbe riuscito a vedere almeno un pezzo se non tutto l'incontro da cui sarebbe uscito il suo avversario.

C'era poi la spada di Damocle di suo padre.

Nico era riuscito a escludere quella preoccupazione dalla sua testa durante il gioco. Si era imposto di concentrarsi sul match, punto per punto, e c'era riuscito. Ma ora che l'adrenalina stava scemando, eccolo lì il pensiero che ricominciava a macerare: quando arriverà? Che scenata farà? Come sarà venuto qui? Treno? Macchina? Macchina gli sembrava più probabile. Quante ore di guida ci volevano per arrivare a Milano da Capriva? Nico non ne aveva idea.

L'incontro che gli interessava era appena iniziato sul campo dodici, sempre sotto i tendoni.

Fece una rapida doccia e poi andò al campo dodici. Si mise in piedi sull'unico lato agibile, insieme a poche altre persone. Uno dei due giocatori, tal Marco Abate, era testa di serie, e si vedeva: aveva diciotto anni, più basso di Nico ma più muscoloso, più scattante, più tutto; la pesantezza dei suoi colpi si poteva intuire dallo schiocco potentissimo della pallina sulla racchetta. Nell'ultimo anno Nico era riuscito a raggiungere un buon peso e una buona massa muscolare, ma col suo metro e ottantasette e settanta chili, era ancora lontano dal suo obiettivo di settantasette chili di peso.

Nico lo studiò per più di un'ora, osservandone le movenze, gli schemi tipici, prendendo appunti mentali. Si pentì di non aver portato con sé un quaderno su cui scrivere quelle cose, per poi studiarle in hotel, ma cercò ugualmente di imprimerle nella memoria.

L'incontro era quasi finito, mancava l'ultimo game di servizio con cui Abate avrebbe chiuso il match, quando un «Ehi» a mezza voce alle sue spalle gli fece emettere un mezzo grido che fece voltare tutti nella sua direzione. Per fortuna i giocatori non erano ancora in campo, altrimenti l'avrebbero cacciato.

Nico si voltò, convinto di vedere suo padre, invece si trovò davanti un parallelepipedo nero con una strisciolina arcobaleno che correva giù in verticale da un'occhiello.

Una Polaroid.

Dietro la quale spuntò il viso sorridente di Raffaele Novelli: «Non volevo spaventarti» gli disse sottovoce. Capelli bagnati di doccia, vestiti puliti. Aveva giocato anche lui, e il suo incontro era già finito. «Come stai?» gli chiese, mentre toglieva la pellicola che era uscita dalla macchina fotografica. La teneva appesa al collo con una piccola cinghia e sembrava molto fiero di sfoggiarla.

Nico sbuffò. «Ma ti sembra il modo? Mi hai fatto una foto? Io odio fare foto.»

E mentre lo diceva, ebbe un'istantanea presa di coscienza: lui non aveva nemmeno una foto di Leo. Ancora peggio: nemmeno una foto insieme a Leo. Ma come avrebbe mai potuto farne una? Chi avrebbe potuto scattarla? E in che posa si sarebbero mai potuti mettere? Abbracciati? No. Sorridenti uno accanto all'altro? Forse.

«Io adoro farne, invece! Soprattutto da quando mi sono comprato questa. Ti piace? È una Time Zero!»

«Non è una Polaroid?»

Raffaele rise, sventolando la pellicola in attesa che si sviluppasse. «Time Zero è il modello!»

Ovvio. Che stupido...

«Tu hai già finito?» chiese Nico, ansioso di cambiare discorso.

«Certo. Ho vinto sei uno, sei zero.»

«Ah.»

Scarso lui o fenomeno tu? avrebbe voluto chiedergli. Ma il game di chiusura stava per iniziare. Nico rivolse la sua attenzione al campo.

«È il tuo prossimo avversario?» chiese Raffaele sottovoce dopo il primo quindici.

«Sì.»

Trenta zero.

«Gli fa male il ginocchio destro, vedo» sussurrò Raffaele.

«Eh?»

«Ma sì, guarda come piega poco la gamba quando serve e poi come piega un po' meno la destra della sinistra quando si sposta.»

Nico cercò di farci caso nel punto successivo. La differenza era quasi impercettibile. Talmente impercettibile che Nico non l'aveva notata.

Ma c'era.

Quaranta zero.

«Come fai a sapere che non sia una sua cosa tipica? Magari si sposta sempre in quel modo» sussurrò Nico.

Raffaele scosse la testa. «Ci ho giocato un po' di volte.»

Il match finì. Mentre uscivano dal campo Raffaele fece una smorfia delusa guardando la foto sviluppata. «Che palle, è sfocatissima, guarda.»

Il viso di Nico era una macchia in cui a malapena si capiva dove si trovavano gli occhi e la bocca, spalancata per lo stupore.

«E ci credo, me l'hai scattata a due centimetri di distanza!»

Una Polaroid sarebbe stata perfetta per lui e Leo. Non c'era bisogno di portare un rullino a sviluppare, nessun fotografo avrebbe visto le immagini catturate, solo lui e Leo. Avrebbero anche potuto mettersi in una posa un po' meno... fredda.

C'era sempre però il problema di chi avrebbe potuto scattargliela.

La Fulvia, magari?

Nico e Raffaele uscirono dal tendone e si misero a camminare lungo le vie del circolo, verso gli edifici degli spogliatoi. «Mi hai fatto notare una cosa molto utile... anche se non voglio infierire su un problema fisico.»

«Nic, tu non ragioni da atleta. Si vede che non hai mai bazzicato il circuito dei tornei, quello che mi hai appena detto è un discorso da persona comune.»

Nico si offese parecchio per quell'osservazione. «Scusami se non sono un nobiluomo come te.»

Raf ridacchiò. «E quello che mi hai appena fatto è un discorso da povero provinciale.»

Nico cercò di calmarsi a forza di respiri. «Ok, senti. Ciao e vaffanculo. Vai dai tuoi amici baronetti cittadini.»

«Dai cretino, sto cercando di farti capire che se non vuoi fare la figura del provinciale non devi fare la vittima permalosa. Se fai la vittima ti azzannano.»

«Non stavo facendo la vittima, stavo solo...»

«Facendo la vittima» lo interruppe Raffaele. «Io ti ho fatto un'osservazione sulla tua mancanza di esperienza, tu mi rispondi facendomi notare la nostra differenza di titolo nobiliare, cosa che per altro è una colossale cazzata, primo perché in Italia i titoli nobiliari sono stati aboliti e mia madre lo ostenta in giro solo perché è una sborona snob, secondo perché anche se i titoli esistessero ancora, io non sarei comunque un nobiluomo perché mio padre non ha nessun titolo. Quindi, chiarito questo punto... cos'è che stavamo dicendo? Ah sì, tu mi hai detto quella cosa perché ti sei sentito in difetto nei miei confronti, e hai reagito facendomi notare questo tuo presunto essere meno di me, e me l'hai detto con rancore, hai fatto la vittima. È un tipo di mentalità che ho trovato in molti ragazzi di provincia come te. E mi sembra un modo di comportarsi stupido, perché dicendo queste cose non fai altro che renderti antipatico, facendo capire a tutti che ti senti in difetto. Indovina come reagiranno i... baronetti cittadini sentendoti fare un discorso simile? Ti prenderanno per il culo pensando che sei uno sfigato e si sentiranno davvero superiori a te.»

Nico rimase in silenzio, perché aveva riconosciuto in quella descrizione non tanto se stesso quanto Leonardo. Leo era sempre pronto a far notare a Nico la loro differenza di cultura e ricchezza, ed era un atteggiamento che a Nico aveva sempre dato fastidio.

Ora che lui si trovava nella situazione di Leo era caduto nella stessa trappola psicologica.

Oh Leo, siamo più simili di quel che pensi, io e te.

Gli venne voglia di sentirlo, dirgli che gli mancava. Ma sarebbe arrivato solo quella sera a Barletta e avrebbe usato la sua telefonata per chiamare il nonno. Forse si sarebbero sentiti l'indomani.

Sempre che il padre di Nico non spuntasse da un momento all'altro per trascinarlo fuori di lì "prendendolo dalle orecchie".

«Ehi, scusa, non volevo mandarti in para.»

«In cosa?»

Raffaele sorrise. «In paranoia. Sai cosa significa?»

«Non è tipo una malattia mentale? Mi stai dando del malato di mente adesso?»

Raffaele rise. «Ma no, è un modo di dire. Significa che ti fai un sacco di problemi e ti preoccupi di cosa pensano gli altri.»

«Mh.»

Raffaele alzò le mani. «Giuro che non ti sto prendendo in giro. Non mi sto approfittando di un povero provinciale sprovveduto, ti ho detto la verità.»

«Cosa intendevi dire, prima...?»

«Ehi, Ferd! Vieni, ti presento Ferd, è il peggio festaiolo del centro-sud. Che fai stasera?» Raffaele si stava allontanando, verso un ragazzo dai capelli biondi che stava agitando la mano.

«Dormo» rispose Nico seguendolo.

«Naaah, che palle.»

«È anche questa una cosa da provinciali?»

«No, è da pallosi.»

Nico fu presentato al ragazzo biondo, Fernando Pirozzi, diciotto anni e testa di serie numero due del torneo. Fernando fece i complimenti a Raffaele per la Polaroid, poi si misero a discutere di locali e uscite serali e quando chiesero anche a Nico di uscire, si sentì fuori posto come non si era mai sentito fuori posto in tutta la sua vita.

«Grazie per l'invito ma sono stanco morto, stasera dormo.»

«Incontro sfiancante?» gli chiese Fernando.

«Eh sì» mentì Nico che si sentiva in realtà abbastanza in forma, nonostante match e viaggio.

«Eh, non è da tutti cavarsela con sei uno, sei uno.»

«Sei uno, sei zero, prego» lo corresse Raffaele.

«Mi perdoni l'errore, milord.»

Arrivò altra gente. Un ragazzo che viveva proprio a Milano e due ragazze del torneo femminile. Raffaele scattò loro una foto e gliela regalò. Discussero di un'uscita pomeridiana, un giro in centro. Nico non aveva il coraggio di allontanarsi, ma si sentiva totalmente fuori luogo, lì in mezzo.

«Si rimorchia bene qui?» chiese Fernando.

«Con tutte le fighe che ci sono al torneo vuoi proprio prenderti una scialba milanesina?» disse una delle tenniste.

«Ma cerca di capire, io vengo da Napoli, la milanese è esotica! Fredda e alla moda, magra, scarpe firmate, unghie lunghe e permanente, tu hai il culo grosso, lei c'ha i brufoli, quella là è un tronco, quella è figa di faccia ma ha il culo piatto...» Fernando si mise a dare voti e commentare il fisico delle tenniste di passaggio, con risate di tutti i presenti, ragazze comprese.

«E te c'hai la scucchia, invece» gli disse una delle due tenniste, poi indicò Raffaele: «Questo qua è figo ma dimostra dieci anni,» indicò Nico, «questo c'ha una faccia che sembra che gli è morto il gatto, quello là gli puzza il fiato, quello invece...» Anche la ragazza diede parecchi giudizi, con sporadici interventi della seconda tennista presente e altre risate e commenti cattivi di contorno.

«Ok, fatta. Allora è deciso che dobbiamo andare a rimorchio in Piazza Duomo» disse Raffaele. «Noi ci prendiamo le milanesine, voi vi prendete i milanesoni e siamo tutti contenti visto che ci facciamo cagare a vicenda. Vieni anche tu o devi fare una pennica?»

L'ultima frase era rivolta a Nico, che, non volendo rischiare di rispondere a caso a una frase che non aveva capito, fu costretto a chiedere: «Cos'è una pennica?»

Tutti risero.

«Una pennichella, un sonnellino, un pisolino, come lo chiamate a Pordenone?»

«Non sono di Pordenone, vengo da Gorizia» disse Nico sentendosi sempre più stupido, sfigato e zimbello. «E comunque no, niente pennica.»

«Bene, allora vieni?»

Non ci voleva andare, ma non voleva fare neanche la figura dello sfigato, e...

«Ah, che cretino!» disse Raffaele battendosi la mano in fronte. «Mi avevi già detto che oggi pomeriggio hai da fare col tuo coach, scusa.»

Eh? Di cosa stava parlando? «Ah, eh sì, peccato» disse Nico capendo che forse Raffaele lo stava aiutando a uscire da quella situazione. Il suo disagio era così evidente?

«Che sfiga! Vabbuò, sarà per la prossima. Andiamo?» disse Fernando.

Si salutarono, gli altri si allontanarono, Nico prese la strada opposta. Era in tuta e iniziava ad avere freddo, lì all'aperto. Avrebbe recuperato le sue cose in armadietto e passato un altro pomeriggio in hotel a preoccuparsi dell'incombente arrivo di suo padre, ma dopo qualche passo si sentì battere la spalla. «Ehi, Nic, senti...»

Nico si voltò verso Raffaele. Non disse nulla, aspettò che l'altro parlasse.

«Ti devi dare una svegliata, però.»

Nico fece spallucce. «Perché? Per andare in Piazza Duomo a rimorchiare? Non mi interessa.» Solo dopo averlo detto si ricordò delle allusioni dell'altro sul suo essere finocchio e si pose il problema di come potesse essere interpretata quella frase.

«Mi stai simpatico, perché un po' mi ci rivedo in te. Mi sembri un tipo completamente fuori posto, e anch'io mi sento sempre fuori posto.»

Ma cosa voleva da lui quel ragazzo? Perché adesso gli faceva quelle confessioni intime e poco comprensibili? Cosa significava essere fuori posto? Era finocchio anche lui?

«Prima ti ho visto in crisi e ti ho tolto d'impiccio. Ma se ti va di venire con noi, puoi sempre dire che ti sei liberato o che hai cambiato idea.»

«Grazie del pensiero, ma preferisco l'hotel. Così mi riposo, mi massaggio un po' le gambe, magari faccio un po' di allungamento.»

«Che secchione del tennis, che sei!» Raffaele batté una pacca sulla sua spalla ridacchiando. «Va be', allora ci vediamo in giro domani! In bocca al lupo!»

«Crepi, a...»

A domani, avrebbe voluto dire. Ma si bloccò perché lo vide.

Era lontano, chiedeva indicazioni.

Era vestito in giacca e cravatta, molto formale, e anche da lontano sembrava esprimere, coi gesti secchi, rabbia, irritazione.

«Hai visto un fantasma?» gli chiese Raffaele.

«No» sussurrò Nico. «Solo mio padre.» 

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Note

E ciriciao Raf! Cosa succederà adesso? Riusciranno i nostri eroi a scappare dal temibile padre?

E cosa ne pensate del personaggio di Raffaele e delle cose che dice al povero, sperduto Nico?

Nota di ringraziamento doverosa a maschera_di_fumo che mi ha suggerito la canzone, una delle tante cover italiane di brani anglosassoni che ebbero successo negli anni Sessanta. Il suo suggerimento era legato al personaggio di Leo, del suo costante sentirsi inferiore e diverso da Nico, e io ho pensato che sarebbe stata perfetta per questo capitolo in cui Nico stesso si trova nelle scarpe di Leo, sentendosi inferiore a Raf.

Giovedì scopriremo se Nico verrà beccato da babbo, e lasciatemi una stellina per tutte le pessime cover italiane di pezzi stranieri degli anni Sessanta (no, secondo me Ragazzo di strada non è affatto pessima, anzi, è una delle poche ben riuscite).

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