19. C'è tutto un mondo intorno
E se poi il cielo blu si chiude all'improvviso su di te
E ti senti come un ladro che ha paura anche di sé
Guardati allo specchio e guarda un poco, un poco intorno a te
(Matia Bazar, C'è tutto un mondo intorno, 1979)
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Avviso: la versione che state per leggere di questo capitolo è stata leggermente editata per non violare le regole di Wattpad. Metto a destra il link alla versione non editata per completezza, ma potete leggere anche questa.
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Suo padre non diceva nulla e il suo silenzio era la cosa più spaventosa di tutte.
Nico era talmente incredulo, attonito, scioccato che non riuscì a reagire, e chi smosse la situazione fu Leo, che emise un grido, si buttò sul letto e in uno stupido gesto di autoprotezione cercò di tirarsi il lenzuolo addosso.
Nico cercò di coprirsi il pube, proprio mentre il padre mormorava: «Che schifo!»
Leo si era buttato giù dal letto, nel frattempo, Nico sentì l'impatto del suo corpo sul pavimento, ma non lo vide, perché stava ancora fissando suo padre, con lo stomaco atrofizzato, i muscoli doloranti per l'improvviso fiotto di adrenalina.
Stava trattenendo il respiro, e quando i suoi polmoni lo costrinsero a respirare di nuovo, il fiato smosse le sue corde vocali, facendo uscire una sorta di rantolo risucchiato.
Fu come un richiamo per suo padre, che in un passo fu accanto al letto e con un manrovescio colpì Nico in volto con tanta violenza da ribaltarlo.
Il terrore immobilizzò il ragazzo sul letto, a subire le percosse del padre. Si rannicchiò in posizione fetale e il padre continuò a colpirlo, con una violenza che Nico non aveva mai sperimentato, e dopo un paio di colpi con le mani, Nico sentì sulla pelle e sulle ossa, il cuoio e il metallo della sua cintura. «Fa male!» ebbe la forza di gridare.
«Peggio! Peggio, ti meriti! Ti ho sculacciato troppo poco! Çe stomi! Çe schifo!»
Le percosse bruciavano ma Nico non riusciva a reagire. Di colpo si interruppero e udì la voce del padre gridare. «Là vastu, tu!»
Nico aprì gli occhi e vide Leo, tutto nudo coi pantaloncini in mano, che stava cercando di scappare. Ma il padre lo aveva preso per un braccio e lo teneva fermo. «Brut impestât, sclâf di miarde!» Il padre colpì lo "slavo di merda" con la cinghia, mentre lui impotente si nascondeva il viso coi pantaloncini implorando di non raccontare il pettegolezzo: «No sta contalu in zîr! Par plasè, par plasè!»
Nico non riuscì a sopportarlo. Leo aveva ancora resti giallognoli dei lividi che gli aveva procurato il fratello, e chissà come soffriva, quanta paura aveva, Nico si alzò dal letto come una molla, le botte che dolevano, la pelle che bruciava, prese il padre dalle spalle e lo tirò via. «Lascialo stare!» gridò.
Il padre sembrò posseduto da una furia omicida. Con gli occhi fuori dalle orbite, la faccia viola e la bava che gli usciva dalla bocca si avventò su Nico, lo scosse con violenza: «Lo difendi?» ruggì. «Lo difendi!?» Gridò ancor più forte.
Nico lanciò un'occhiata a Leo. Non seppe neanche lui perché, forse in cerca di aiuto, di sostegno, forse sperando che lo difendesse a sua volta. Ma Leo gli rivolse un ultimo sguardo disperato e scappò via.
Nico continuò a prendere le percosse del padre, ascoltando impotente i passi di Leo che si allontanavano sul legno delle scale.
***
Quando il padre trascinò Nico giù dalle scale, ancora nudo, dolorante e sanguinante per le botte prese, moccio al naso e occhi gonfi di pianto, di Leo non c'era traccia. Nico vide la sua fisarmonica a terra vicino all'ingresso, la madreperla bianca della tastiera fu l'ultima immagine che rimase nei suoi occhi di quella casa dove si era illuso di aver trovato la felicità.
La Mercedes del padre era parcheggiata sulla strada appena fuori dal cancello scalcinato che dava sul piccolo cortile, ed era probabilmente il motivo per cui nessuno dei due l'aveva sentita arrivarne. Il padre aprì la portiera dietro, ci spinse dentro Nico come fosse un sacco. «Taponiti!» gli disse, copriti!
Ma Nico non aveva vestiti, erano rimasti al piano di sopra e sulle scale, dove si erano spogliati. «Con cosa?» chiese, la voce roca per le grida e i pianti.
Di fronte all'impossibilità per Nico di rivestirsi il padre reagì tirandogli un calcio.
Sbattè la portiera, salì alla guida, partì sgommando, mentre Nico pensava senza pensare davvero, macerava rancore, tristezza, dolore, risentimento, la sensazione che nella sua vita non ci sarebbe mai potuto essere niente di bello.
Leo lo aveva lasciato lì a prendere botte, era scappato via, cagasotto egoista com'era. Ti amo, gli aveva detto, e suo padre probabilmente l'aveva anche sentito.
Ti amo, ti amo, ti amo e la cosa paradossale era che gli sembrava fosse ancora vero.
«Se vaistu? Finissile!» Cosa piangi? Smettila! gridò il padre.
Nico nemmeno se n'era reso conto.
«Tu non sei mio figlio» aggiunse il padre in tono sommesso.
Il viaggio fu breve, la loro casa era vicina. Quando arrivarono, nel cortile, sotto il portico, li aspettavano il nonno e la madre. Appena Nico scese dalla macchina, la madre gli corse incontro con un'espressione addolorata. «Nico! Cosa ti hanno fatto?»
Nico non ebbe modo di rispondere. «No sta tocjalu!» gridò il padre, strattonando Nico dentro.
Mentre passava davanti al nonno subì il suo sguardo. Quel suo tipico sguardo muto, duro, giudicante. Ma Nico stava talmente male per le parole e le percosse del padre che quel giorno se lo lasciò scivolare addosso, sulla sua pelle nuda e livida.
In casa trovò le sorelle, la Fulvia portò le mani alla bocca e sgranò gli occhi, la Grazia alzò le sopracciglia e si girò di spalle borbottando: «Oddio, è nudo!»
«Va in cjamare to e no sta vignì fûr fintant che no ti clami! E stasere no tu çenis!» gridò il padre spingendolo verso le scale.
«Se ae fât?» chiese la madre in un lamento.
Nico scappò. Corse su, con le gambe pesanti, aprì la porta della propria camera e vi si chiuse dentro come se fosse un rifugio sicuro, chiuse a chiave la porta.
Si buttò sul letto e pianse ancora, lacrime che ormai si erano prosciugate.
Sentiva di non avere un posto dove stare, di non avere scampo. Cosa sarebbe successo? Cosa avrebbe fatto suo padre? Lo avrebbe mandato a lavorare? O in qualche collegio? O da uno psichiatra a curarsi?
Che sciocco era stato a illudersi di poter avere un futuro felice. Come aveva potuto pensarlo? Cos'era la sua relazione con Leo se non uno stupido, ossessivo, improduttivo masturbarsi a vicenda? Ti amo, gli aveva detto. Che stupido. Come poteva essere amore, quello? Una relazione che non poteva andare da nessuna parte, destinata a rimanere segreta, squallida, derisa e solitaria, destinata a farli morire soli e miserabili, soli con le loro squallide, inutili seghe.
Qualcuno provò ad aprire la porta diverse ore dopo, era ormai sera. Nico era ancora nudo sul letto. Non reagì.
«Nico, 'o soj iò» mormorò la madre. La sua voce era calma. Dolce.
Nico si tirò su, aprì un cassettone e indossò la prima maglietta e il primo paio di pantaloncini che gli capitarono a tiro. Indossandoli vide le sue braccia e le sue gambe ricoperte di graffi e lividi gonfi e viola. Gli facevano male. Sentiva anche il viso dolorante, tumefatto e gli sembrava di avere l'occhio sinistro gonfio, più chiuso del destro.
Al terzo richiamo della madre aprì.
La madre aveva con sé un piatto di pasta al pomodoro, con tanto parmigiano in cima. Nico non aveva pranzato né cenato, ma non aveva fame. «Fammi entrare veloce, così il papà non si accorge» sussurrò lei.
Nico la fece passare, lei sgattaiolò dentro e posò la pasta sulla scrivania, mentre lui già chiudeva la porta.
Poi lei scoppiò a piangere. «Oh Nico! Çe astu fât?»
Nico restò a guardare la madre piangere senza sapere cosa dire. Che cosa hai fatto? gli aveva appena chiesto. Bella domanda. Che cosa aveva fatto?
«Non lo so» rispose.
«Nico, Nico, Nico...» mormorò piangendo. «Dolore più grande non potevi darmelo.»
Nico si sentì mortificato di essere la causa di quelle lacrime così disperate. Sua madre soffriva per colpa sua e del suo cazzo che non sapeva stare nelle mutande, per colpa della sua mancanza di controllo.
«Ma io ti voglio bene lo stesso, Nico, perché sei il mio bambino.»
Nico si sentì stupido, sporco e sbagliato, gli venne di nuovo da piangere, la madre se ne accorse. «No, Nico, non piangere! Sei un uomo, non piangere!»
Nico cercò con tutte le sue forze di trattenersi. Perché anche lui odiava perdere il controllo e quel giorno aveva perso il controllo di sé abbastanza per una vita intera.
«Cosa ti ha fatto quel Devetak? Cosa ti ha fatto? Sempre detto che non erano gente per bene! Guarda cosa ti ha fatto! Guarda! Al mio bambino!» La madre ebbe un altro accesso di pianto e cadde a sedere sul letto di Nico. «Pregherò tanto per te, Nico, pregherò che metti la testa a posto e non incontri altra gente brutta. E ricordati che ti voglio sempre bene.»
Pianse ancora un po'. Nico non riuscì a dire una parola. Poi lei se ne andò senza aggiungere altro.
Nico guardò il piatto di pasta collosa, lo stomaco brontolò. Nonostante il dolore e l'amarezza, le sue stupide funzioni fisiologiche reclamavano energia. Ne mangiò un po', ma al terzo boccone gli venne da vomitare e smise.
Sentì il bisogno di lavarsi. Tese l'orecchio, fuori dalla porta non c'era nessuno.
Uscì. Si chiuse in bagno per farsi una doccia.
Lo specchio gli rimandò uno spettacolo orribile: aveva un taglio sul labbro, l'occhio destro bluastro e una tumefazione sull'altro zigomo. Tolse la maglietta, e osservò il busto cosparso di lividi, graffi e sangue incrostato.
La porta del bagno si spalancò, Nico sussultò.
Suo padre. «Cosa fai? Ti guardi allo specchio come una femmina?»
«Devo farmi la doccia» disse Nico con un filo di voce.
«Falla con la porta aperta!» gridò uscendo. «Altrimenti chissà cosa fai, chiuso qua dentro.»
Nico sospirò. Dopo pochi secondi il padre tornò, mentre Nico stava togliendo i pantaloncini. «E uguale in camera tua! Adesso vado a vedere cosa hai nascosto sotto il letto! Schifoso! Non voglio più porte chiuse in questa casa!»
Nico aprì il rubinetto dell'acqua fredda e si buttò sotto la doccia. Non era piacevole. Ma gli avrebbe fatto bene ai lividi. Non aveva paura di ciò che il padre avrebbe trovato "sotto il letto". Le sue uniche due immagini pornografiche le aveva ormai buttate.
Ma il padre tornò lo stesso. Aprì la tendina della doccia e gettò addosso a Nico le riviste di body building. «Che cos'è questa roba! Porco! Schifoso!»
«Queste le uso per fare ginnastica!» protestò Nico, ed era vero.
Ma il padre ovviamente non gli credette. Ne prese una, la arrotolò e lo percosse con quella.
«Basta papà! Mi fa male dappertutto!»
«Basta! Ma sei impazzito?!»
Il padre smise di picchiare Nico, c'era la Fulvia sulla porta, era lei ad aver parlato. Nico si coprì il pisello con le mani.
«Quindi avevo capito bene. Sei tu che l'hai ridotto così» sussurrò la sorella.
«Avrei dovuto ridurlo anche peggio, per quello che ha fatto!»
«Schifoso pezzo di merda!» disse la sorella parlando in tono basso.
Il padre le lanciò contro la rivista arrotolata, ma lei si abbassò e la schivò.
«Vergognati!» continuò lei, rialzandosi. «A tuo figlio! Neanche avesse ammazzato qualcuno, è tuo figlio cazzo! Lo puoi ridurre in questo stato?»
«Non ti permettere di mettere bocca in come vi educo.»
Arrivò anche la madre. «Jacum, par plasè. Ven vie, lassilu in pas.»
Il padre rivolse a Nico un'ultima occhiata di disprezzo, raccolse le riviste ormai fradice. «Queste le faccio sparire. Schifoso.»
Se ne andarono tutti e tre, per fortuna. Lo lasciarono solo.
***
Erano le dieci e mezza.
La porta della sua camera era aperta. Come voleva il padre.
Nico stava steso sul letto, sopra le lenzuola, in maglietta e pantaloncini, l'abat-jour ancora acceso. Avrebbe voluto spegnere lampada e testa, e dormire, ma non ce la faceva. Era devastato dal dolore e dalla vergogna.
Pensava a Leo. Avrebbe voluto saltare dalla finestra e andare da lui per scappare via insieme. Si rendeva conto dell'assurdità di quel desiderio, ma non c'era niente al mondo che volesse di più, in quel momento.
Via, da qualche parte dove potevano stare insieme, da soli, senza nessuno che li guardava e giudicava. A trascorrere le giornate a mangiare crêpe e marmellata e suonare la fisarmonica. Non voleva più neanche giocare a tennis.
«Nico, posso?» La voce della sorella Fulvia, un sussurro.
«Cosa vuoi?» le chiese.
La vide spuntare, indossava un pigiamino corto e aveva sotto braccio una piccola pila di albetti, sembravano fumetti, di quelli che ogni tanto leggeva lei, tipo Topolino o Lupo Alberto. A Nico non piacevano molto i fumetti e non li distingueva uno dall'altro.
Fece per chiudere la porta, ma Nico la fermò. «Il papà ha detto che devo lasciarla aperta.»
Lei si schiarì la voce e parlò verso il corridoio. «La Fulvia adesso sta entrando in camera di Nico e chiuderà la porta, e il papà e la mamma non diranno proprio niente!»
«Fâs çe che tu ulis» borbottò il padre, dalla sua camera. Fai quello che vuoi.
La Fulvia chiuse la porta e appoggiò gli albi sul comodino accanto al letto. Erano dei Lupo Alberto.
«Cosa vuoi?» disse Nico.
«Intanto chiederti scusa. Perché è anche colpa mia che il papà ti ha beccato.»
Nico non disse nulla, si limitò ad accigliare lo sguardo.
«Cioè, nel senso... li sentivo che litigavano, la mamma e il papà, la mamma che faceva la preoccupata, ma dov'è, perché non è ancora tornato, magari si è fatto male in motorino... il papà incazzato nero che però cercava di calmarla, e... Non so, magari veniva lo stesso a prenderti, ma sono arrivata io come una cogliona, che ero incazzata ancora dal giorno prima perché ti avevano lasciato star fuori a dormire, e mi son messa a dire che sicuro avevate bevuto e stavi ancora bevuto a casa di suo nonno... insomma, l'ho convinto anch'io a uscire per venire a prenderti. Perché pensavo che ti meritavi una ramanzina. Ma ti giuro! Ti giuro che non avevo alba! Scusa, non pensavo che sarebbe successo questo casino. Non avrei mai voluto che succedesse una roba simile. Mai.»
Nico abbassò la testa. Non ebbe la forza di arrabbiarsi, e di cosa poi? La Fulvia non poteva sapere cosa sarebbe successo. In quel momento provava solo vergogna, perché, a giudicare da ciò che stava dicendo, anche sua sorella sembrava al corrente di tutto.
«Diobòn» proseguì lei, «dicono tutti che Leo Devetak è un tipo strano, ma non pensavo così strano!» Ridacchiò.
Nico non rise, abbassò ancor di più la testa.
«E su po', stavo scherzando! Volevo sdrammatizzare...»
«Cosa vuoi?» ripeté Nico.
«La campagna è un posto di merda» disse la Fulvia, ora di nuovo seria, cupa.
Nico finalmente trovò il coraggio di guardarla.
«Io me ne vado da qui appena posso» aggiunse lei a bassa voce. «Sto mettendo via risparmi. Faccio lavoretti. Vado all'università a Bologna, ho deciso, a studiare economia aziendale. Poi torno qui con la laurea e mi frego l'azienda. Me la prendo io e la faccio diventare una roba internazionale. Il papà si accontenta di poco, pensa in piccolo, è fissato col Friuli e coi friulani, ha idee piccole, non sa che il mondo intorno sta cambiando. Pensa che io non posso guidare la sua azienda perché son femmina e non si rende conto che in Gran Bretagna c'è la Thatcher primo ministro. Stanno cambiando le cose, Nico, per noi e per voi. E mica solo in Gran Bretagna! Anche in Italia abbiamo la Faccio e la Bonino che si son fatte arrestare per darci l'aborto e due anni fa il processo per stupro io me lo son visto tutto in tv, di nascosto perché il papà e la mamma pensavano che era diseducativo. Perché hanno la mentalità da provinciali democristiani e non capiranno mai che fuori dal loro cortile c'è un mondo che cambia mentre loro stanno immobili.»
«Ma il papà è tesserato al PCI» ribatté Nico che non aveva mai seguito molto la politica.
«Sì, il PCI che ha votato a favore dell'aborto in parlamento, mentre lui era contrario. Lui è tesserato al PCI solo perché vuole fare il figo con gli amici alle feste dell'unità, a sventolare la bandiera di Stalin di merda sul trattore, ma nella testa è più democristiano conservatore bigotto della mamma! E almeno la mamma ha la scusa che è credente, lui neanche quello.»
La Fulvia scosse la testa. Nico si sentì in vena di una confessione. «Anch'io vorrei scappare, ogni tanto.»
La sorella sedette sul letto, accanto a lui. Lo guardò negli occhi. «Scappa, Nico. Trova un modo anche tu. Non ci può vivere in un posto così, uno come te.»
«Cosa vuol dire uno come me?» disse lui risentito.
«Lo sai cosa vuol dire» ribatté lei. «La gente di campagna non li capisce quelli come te e Leonardo. Pensano che siete sbagliati, ma non è vero! Io non lo penso, perché sarò anche nata qua in provincia ma non ho la testa di una di provincia. E ti giuro, Nico, che non è così dappertutto. Guarda.» Prese un numero di Lupo Alberto. «Silver è un grande. Hanno fatto scandalo, questi numeri, sai? Sono di qualche anno fa. Ce ne sono tanti come lui, come Silver, che la pensano così. Leggi queste strisce, cominciano da qui. Leggile e dimmi se non sono bellissime. Raccontano la tua vita, Nico, e raccontano la vita della gente di merda che è sempre pronta a giudicare. So che non ti piacciono tanto i fumetti, ma leggili. Te li lascio. Te li regalo.»
Nico guardò la prima striscia. C'era quel buffo personaggio della talpa con un cartellino in mano, dove c'era scritto: Checca è bello. Nico alzò la testa imbarazzato.
«Tu sei bravo a tennis, no? Prova a usare il tennis! Diventa un maestro, vai a lavorare a Trieste, non so... Oppure vinci qualche altro torneo e metti via un po' di soldi! Ma scappa via appena puoi, e fatti una vita felice in città.»
«Non... non so se è possibile una vita felice, per quelli come me» disse Nico.
«Non fare il pessimista. Certo che lo è.» La Fulvia sospirò. «E mettiti un po' di Lasonil su quelle botte, mi fa male solo guardarti.»
La sorella uscì, chiudendo la porta dietro di sé.
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Note 🎶
Un capitolo terribile con un barlume di speranza nel finale. La Fulvia è una ragazza emancipata e offre a Nico una nuova prospettiva. Secondo voi Nico seguirà il suo consiglio? Cosa succederà adesso?
In questo capitolo ci sono da fare un po' di note "culturali".
1- Lupo Alberto. Come forse sapete (perché l'avrò scritto un centinaio di volte), sono una grandissima appassionata di fumetti. È la forma d'arte che preferisco e il mio sogno è realizzare un giorno un fumetto di una di queste opere (o anche di un'opera nuova, perché no). Lupo Alberto è un'eccellenza del fumetto italiano. Silver era davvero avanti sui tempi, e nel 1978, quando ancora di questi temi in Italia non ne parlava quasi nessuno, e chi ne parlava non veniva applaudito quasi da nessuno, fece una serie di strip che all'epoca fecero scandalo, in cui metteva in luce attraverso i personaggi della sua fattoria l'ipocrisia del moralismo nei confronti dell'omosessualità. Se vi capita, recuperate queste strisce, sono un pezzo della storia del fumetto italiano è un pezzo della storia del movimento gay italiano. E stima imperitura a Silver.
2- Adele Faccio, Emma Bonino e l'aborto: quando l'aborto era ancora "un delitto contro l'integrità e la sanità della stirpe" le due signore radicali qui sotto (Faccio a sinistra, Bonino a destra) furono entrambe arrestate: la prima dopo aver confessato un aborto durante un convegno pro-abortista in Francia (la polizia la aspettò al rientro in Italia), la seconda come segno di protesta civile dopo essersi autoaccusata in sostegno a tutte le donne.
3- Il processo per stupro: ossia il celeberrimo film documentario che più ha cambiato l'opinione pubblica sullo stupro in Italia. Trasmesso in prima serata dalla Rai, nel 1979. Andate a guglare i dettagli per saperne di più, vi lascio una famosa e bellissima citazione dall'arringa dell'avvocato d'accusa, Tina Lagostena Bassi: «Io non voglio parlare di Fiorella, secondo me è umiliante venire qui a dire "non è una puttana". Una donna ha il diritto di essere quello che vuole, senza bisogno di difensori. Io non sono il difensore della donna Fiorella. Io sono l'accusatore di un certo modo di fare processi per violenza.»
A giovedì e lasciatemi una stellina per ogni singola strip di lupo Alberto che sia mai stata pubblicata (se contate che le pubblica dal 1973... fate i calcoli).
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