106. Caught in the crossfire of childhood and stardom

You were caught on the crossfire of childhood and stardom,

Blown on the steel breeze

Come on you target for faraway laughter,

Come on you stranger, you legend, you martyr, and shine!

***

Sei rimasto intrappolato nel fuoco incrociato tra infanzia e celebrità,

soffiato via dalla brezza d'acciaio,

Coraggio, bersaglio di risate lontane,

Coraggio, straniero, leggenda, martire, brilla!

(D. Gilmour, R. Waters, R. Wright, Shine on you crazy diamond, 1975)

Novembre 2019

La salita era faticosa, ma Michele stava iniziando a percorrerla.

Prendeva i suoi medicinali regolarmente, davanti agli occhi di Nicolò.

Si alzava in piedi ogni mattina più o meno alla stessa ora, intorno alle otto. Si lavava e si radeva, faceva colazione e mangiava regolarmente tutti i pasti, li mangiava anche abbondanti, forse persino un po' troppo, ma Nicolò non voleva frenarlo: forse sarebbe ingrassato, ma chi se ne importava? L'importante era che stesse bene, per il momento.

Non faceva molto altro. Usciva in cortile, quando c'era il sole, e se ne stava seduto a spostare la ghiaia con le dita. A volte Anna o Daniele si avvicinavano a lui, e lui non li mandava via, anzi, sembrava persino ascoltarli, ogni tanto girava la testa verso di loro. Ma non parlava.

Faceva lo stesso anche con Nicolò, che era più timoroso di Anna e Daniele ad avvicinarlo, anche se Michele non si comportava con lui diversamente.

L'unica volta che mostrò un segno di rifiuto netto, fu quando Niccolò gli propose di sentire Ivan al telefono. «Oggi ho sentito Ivan, mi ha detto che gli piacerebbe parlarti.» E Michele, che era seduto sul divano del salotto, si era alzato di scatto in piedi ed era andato a chiudersi in camera.

Ogni pomeriggio Michele incontrava il dottor Sfiligoj, da solo. Il dottore, ovviamente, non diceva niente a Nicolò di quelle sedute: l'unica volta in cui Nicolò aveva provato a chiedergli qualcosa il dottore lo aveva fulminato con lo sguardo.

Anche Nicolò continuava a vedere la psicologa. E la dottoressa gli aveva fatto capire qualcosa che si era sentito dire un milione di volte da Raf, e di cui in parte era consapevole egli stesso: era un maniaco del controllo. «La sua strategia per superare lo stress dato dalle incertezze è quella di tenere sotto controllo quante più incertezze possibili. Ma è una strategia perdente, perché è umanamente impossibile poter controllare qualsiasi variabile.»

La dottoressa, poi, gli aveva consigliato dei libri di filosofia stoicista: «È un approccio alla vita che non consiglierei a chiunque, ma credo che si addica molto alla sua personalità, perché esalta le virtù dell'autocontrollo e allo stesso tempo insegna ad accettare gli eventi che stanno al di fuori nostre possibilità di controllo.»

«Quindi devo continuare a essere una persona rigida e controllata? Credevo fosse proprio questo il mio problema.»

«No» aveva ribattuto la dottoressa. «Gran parte dei suoi problemi derivano dal suo voler applicare controllo anche alle cose che è dannoso voler controllare. Le sue emozioni, ad esempio, che lei vuole a tutti costi ignorare o reprimere. Lei si illude che questa sia una forma di autocontrollo, ma non lo è. È solo repressione.»

«Mi sta dicendo che se mi incazzo è giusto che mi metto ad urlare, sbraitare, piangere, pestare i piedi e magari menare anche qualcuno?»

«No. Quella è, appunto, una delle situazioni in cui è giusto applicare autocontrollo. Perché lei in quel caso, dando sfogo alla sua emozione, causerebbe un danno ad altre persone. Ma dopo aver applicato l'autocontrollo, quell'emozione negativa che è rimasta dentro di lei non può continuare a reprimerla, deve affrontarla, in qualche modo. Che sia analizzandola, o andando in palestra a prendere a pugni un sacco da boxe, come fanno molte persone. Ognuno ha le proprie strategie di coping.»

«Mi fa venire in mente che il mio amico Raffaele mi diceva spesso che nella vita bisogna trovare un equilibrio tra controllo e libertà.»

«È un obiettivo molto difficile da raggiungere, ma è sicuramente un ottimo consiglio.»

Oltre che di emozioni e repressione, Nicolò aveva parlato con lei di Michele e del problema che in quel momento lo opprimeva di più. Aveva chiesto consiglio anche a lei su come poter ricominciare a parlare con lui.

«Del mutismo di mio figlio ho parlato anche con il dottor Sfiligoj, che ovviamente mi può dire pochissimo per via del rapporto di confidenzialità col paziente. L'unica cosa che mi ha detto è stata che sarà un processo graduale. Una parola alla volta, ha detto. Ma questa parola non arriva. Da Michele, almeno. E per quanto riguarda me... Non so quale parola usare, perché qualsiasi parola gli dico, lui non risponde.»

La dottoressa gli aveva suggerito di andargli incontro ai suoi termini. «Mi ha detto che quando aveva difficoltà a parlare, da piccolo, Michele ricorreva alla lingua dei segni, ed è il motivo per cui l'ha imparata. Giusto?»

«Esatto» aveva risposto Nicolò, già intuendo dove la dottoressa volesse andare a parare.

«Provi a parlargli coi segni.»

E Nicolò lo fece. 

Di segni ne conosceva davvero pochi, si era sempre rifiutato di assecondare quella che aveva sempre visto come una forma di fuga dalla comunicazione. Forse l'ennesima cosa che aveva capito male per testardaggine.

Non aveva manuali, quelli di Elisa erano rimasti negli Stati Uniti. Ma su YouTube si trovavano parecchi tutorial di ASL. Rifletté molto a lungo su quale fosse la parola giusta da cui iniziare, e decise che sarebbe stata una frase semplice a cui però teneva molto: come stai?

Anche il gesto era semplice: bisognava giungere le mani, nocche contro nocche, all'altezza dello sterno, poi tenendo le nocche sempre unite girare le punte delle dita verso fuori, e infine indicare la persona a cui si stava ponendo la domanda. Nicolò aveva anche imparato le risposte più comuni: bene, non male, così così, male. Si rendeva conto che non sarebbe stato un lungo dialogo, ma sperava in un contatto.

Andò in camera di Michele subito dopo pranzo, bussò ed entrò: lo trovò seduto alla scrivania che guardava le nuvole fuori dalla finestra.

Prese coraggio e gli fece quel gesto.

Michele lo guardò impassibile per parecchi secondi. Immobile.

Poi fece dei gesti in successione rapidissima e uscì dalla stanza. Nicolò, il cuore che batteva velocissimo, cercò di tenerli a mente, senza riuscirci. Non aveva idea di cosa significassero ma l'approccio aveva funzionato! Michele voleva parlare con lui, gli aveva risposto!

Nicolò riferì quel progresso a tutti: al dottor Sfiligoj, ad Anna e persino a Daniele, che era partito per Londra per giocare le sue prime Finals in doppio. Poi si era fatto aiutare da Anna per cercare qualcuno nelle vicinanze che sapesse parlare la lingua dei segni americana, e per fortuna trovarono un interprete in un'associazione di sordi a Udine. Nic lo pagò per fargli da interprete proprio con Michele, lo fece andare a Capriva, lo portò in camera di Michele e ripeté a suo figlio la domanda in ASL: come stai? Quell'uomo, poi, fece dei segni aggiuntivi a Michele. Ma lui non ne sembrò affatto contento: si alzò in piedi di scatto, scappò in bagno e si chiuse dentro. A chiave.

«Che cosa gli ha detto per farlo arrabbiare così?!» sbottò Nicolò.

«Niente» rispose quello. «Mi sono presentato e gli ho detto che vi avrei fatto da interprete. Tutto qui.»

Nicolò gli credette. Forse Michele non voleva che degli estranei si intromettessero nelle loro discussioni.

Per sapere cosa Michele gli avesse detto quel giorno, Nicolò cercò di ripetere a quell'uomo i segni che aveva fatto Michele, ma li ricordava male, e infatti l'uomo gli disse che avrebbero potuto significare un milione di cose diverse. L'unico segno su cui sembrava abbastanza sicuro era proprio il primo: giorno. Che parola strana: Nicolò gli aveva chiesto come stava e Michele aveva risposto con una frase che iniziava con la parola giorno. Chissà se avrebbe mai scoperto che cosa intendeva dire.

Nonostante l'insuccesso, quel metodo di comunicazione gli sembrava fosse la direzione giusta da prendere. Chiese all'interprete se poteva fargli delle lezioni e lui acconsentì volentieri, ma disse di non avere tempo di fare su e giù da Udine a Capriva. «Se vuole venga lei all'associazione. Ci possiamo mettere d'accordo per uno o due giorni a settimana che vadano bene a entrambi. Oppure possiamo fare delle videolezioni.» Nicolò scelse questa opzione, per non allontanarsi troppo a lungo da Michele.

16-17 novembre 2019

Daniele tornò prima del previsto da Londra con un infortunio al ginocchio per cui, purtroppo, avrebbe dovuto fare anche una piccola operazione chirurgica che lo avrebbe tenuto fermo per un paio di mesi.

E sorprese Nicolò chiedendogli di rimanere a Capriva, anziché tornare a Miami. «Ne ho parlato con Maria e lei mi ha detto che è ok, anzi, le fa piacere. Vorrei rimanere qui per Michele, perché se ci deve essere un momento in cui mi riavvicino a mio fratello penso che potrebbe proprio essere questo.» Nicolò ne fu molto felice.

Chi invece era rimasto in gara a Londra era Ivan. Non solo in gara, avrebbe giocato la finale, l'indomani, e avrebbe potuto vincere il torneo più importante della sua carriera. 

Nicolò aveva seguito i suoi incontri distrattamente, ma il giorno della finale lo sentì al telefono, dopo che i giorni precedenti avevano comunicato sempre via messaggio.

«Anna mi dice che Michele sta così così. In piedi, ma sempre con sguardo vuoto.»

«Mi piacerebbe tanto fartici parlare... Sono sicuro che tu lo faresti ragionare. Ti piacerebbe venire...?»

«No» lo interruppe Ivan prima ancora che la domanda finisse. «Michele adesso ha paura. Il giorno che ero lì, ho stato tutto il giorno insieme a lui e ho visto di come stava vicino a me, come guardava e non guardava, che era contento che io ero lì ma aveva anche tanta paura. Io penso che Michele adesso ha bisogno di capire tante cose e da solo, non con me.»

«Ma se il giorno che eri qui è stato l'unico in cui è stato felice!»

«Non era felice. Ha pianto tanto, era tipo in shock. Io ho fatto tipo elettroshock a lui, se sto vicino adesso ho paura che faccio troppo elettroshock, tu capisci?»

«E quindi non vuoi vederlo più?»

«Io voglio vedere Misha, sì! Ho messo tanto tempo a capire cosa volevo e come volevo, con lui, perché Misha è una persona difficile. È la persona più difficile che ho mai conosciuto in tutta la mia vita, e all'inizio se trovi la cosa difficile tu scappi, no? E allora io scappo. Ma poi penso: io non sono uno che ha paura, e mi piace le cose difficile, e mi piace capire le cose difficile. Ho messo tanto tempo ma ho capito: Misha mi piace exactamente perché è difficile. È il ragazzo più strano e difficile che ho conosciuto mai nella vita. È bellissimo.»

Nicolò non poté far altro che ascoltare con ammirazione e meraviglia  quella descrizione così affettuosa di Michele.

«E forse tu pensi che io sono pazzo che ti dico questa cosa» continuò Ivan, «e forse sono pazzo veramente e forse mi sbaglio, ma io penso che ho capito, circa, come funziona la testa difficile di Misha e penso che adesso io devo aspettare. Io adesso aspetto e gli do la mano da lontano, capisci? Gli do un messaggio da lontano. Uno alla volta, piano piano, finché lui non dice: eccomi qua Vanja, ho sentito e voglio parlare anch'io con te. Capisci? Ho spiegato bene?»

«Non sono sicuro di capire» disse Nicolò.

«Non importa, importante è che capisce lui.»

Nicolò capì tutto quella sera stessa. Ivan perse in finale, un incontro molto combattuto contro Moryakov, il primo che Nicolò guardava per intero da quando Michele era stato male. Durante il discorso di ringraziamento, proprio alla fine, Ivan disse qualcosa. Una dedica. Erano parole che Nicolò non conosceva ma che suonavano come una poesia. 

Una canzone?

Ivan le disse con la voce rotta causando un applauso scrosciante del pubblico che sicuramente non ci aveva capito un cazzo.

Ma Michele non stava guardando quell'incontro! Come poteva arrivargli, quel messaggio?

Nicolò fu indeciso se intromettersi o meno. Ivan aveva parlato di tendere la mano e aspettare che Michele la prendesse... Ok, sì, ma poteva fare davvero tanto male un piccolo incoraggiamento per far sì che quelle due mani si incontrassero?

Nicolò aprì la app di Tennis TV sul proprio telefono e fece partire il replay dell'incontro, tirò il cursore alla fine, la premiazione, i discorsi... eccolo! Le parole di Ivan. Le riascoltò e le cercò su Google.

Ed era proprio ciò che aveva sospettato, una canzone. Ne lesse tutto il testo e rimase stupefatto: parlava di Michele. Com'era possibile che qualcuno avesse descritto così bene Michele in una canzone? E Michele la conosceva? Avrebbe capito?

Michele aveva iniziato ad ascoltare un po' di musica, dopo aver conosciuto Ivan. Nicolò aveva sempre pensato male di quell'abitudine alle emozioni facili, ma non aveva detto mai niente perché gli sembrava, in fondo, una cosa innocua.

Ma se da innocua fosse potuta diventare persino positiva? Si stupì a pensare che gli sarebbe piaciuto vedere Michele ascoltare un po' di musica, visto che non faceva nulla da mattina a sera. Poteva fargli bene, forse, e quel messaggio di Ivan poteva essere un primo input.

Si decise.

Riposizionò il cursore all'inizio di quel messaggio e andò a bussare alla porta di Michele.

«Permesso...»

L'abat jour era acceso, Michele era steso a letto con gli occhi aperti rivolti al soffitto.

«Michele, devi vedere una cosa» gli disse.

Michele rimase immobile, ma Nicolò fece un passo avanti, il telefono stretto in mano. «So che il cellulare ti mette ansia, ma vorrei mostrarti una cosa. Ivan ti ha parlato. O meglio... credo... credo fosse un messaggio per te. Sono quasi sicuro fosse un messaggio per te.»

Gli occhi di Michele si aprirono un po' di più, le sopracciglia si sollevarono appena e la sua testa si girò verso Nicolò. 

«Vuoi guardarlo? Ha perso la finale. Lo ha detto nel discorso di ringraziamento. Ti faccio sentire solo quella frase.» Nicolò porse il telefono a Michele.

Michele socchiuse le labbra mostrando i denti, stretti, e le sue sopracciglia si riabbassarono, andando a corrucciarsi, poco poco. Anche i muscoli intorno agli occhi si contrassero: fissava il cellulare con uno sguardo intenso. Lo schermo era acceso e si vedeva un primo piano di Ivan.

«Posso farlo partire?» chiese Nicolò, il dito già pronto a premere play.

Michele, infine, si tirò su a sedere sul letto e annuì.

Ivan parlò in inglese: «...e c'è un'ultima cosa che vorrei dire, per una persona che non è qui in questo momento. Ma questa persona lo sa che parlo con lei, se mi sente.»

Lo sguardo di Michele si fece speranzoso, mentre Ivan si schiariva la voce e recitava: «Ricordi, quando eri giovane brillavi come il sole. Ora i tuoi occhi hanno un'espressione, come buchi neri nel cielo. Continua a brillare, diamante pazzo.»

Gli occhi di Michele erano così mobili ed espressivi, ma Nicolò non avrebbe saputo dire cosa esprimevano. Alzò il dito, lui, e fermò il video.

Rimase lì con il dito a mezz'aria, come se fosse indeciso su qualcosa, e Nicolò, quindi, tenne fermo il cellulare.

E infine tutte le dita di Michele si aprirono e presero il telefono di mano a Nicolò.

Lui lo lasciò fare, stupito, timoroso, quasi.

Michele digitò qualcosa sullo schermo, in modo bizzarro, non coi pollici, come sarebbe stato più naturale, ma con il solo indice della mano destra, tenendo il telefono davanti al viso con la sinistra, la cui luce dello schermo tingeva di azzurro il suo naso. Lo faceva molto lentamente, sembrava di vedere un uomo di un'altra epoca alle prese per la prima volta in vita sua con quella tecnologia, e l'indice tremava un po', il suo respiro era rapido.

Poi si stese di nuovo e mentre si stendeva una musica risuonò nella stanza.

Erano corde di una chitarra elettrica, con molto eco, un suono profondo, quasi magico. Senza conoscerla, Nicolò capì subito che doveva essere quella canzone. La canzone che aveva citato Ivan.

Michele aveva un'espressione seria ma rilassata e gli occhi aperti. 

Nicolò si azzardò a restare con lui. Prese la sedia della scrivania e si mise comodo.

Chiuse gli occhi e ascoltò.

Era un pezzo strumentale. Nuovi suoni si aggiungevano e lo arricchivano, continuando a ripetere quelle quattro note iniziali e girandoci intorno in modi sempre diversi. 

Se Leonardo fosse stato lì forse avrebbe trovato qualche parola tecnica per descrivere quelle ripetizioni, quegli effetti, quei suoni. Leonardo lo stupido ignorante che sapeva parlare con la musica come nessun altro. Leonardo le parole giuste le avrebbe sicuramente trovate.

A Nicolò ne veniva in mente solo una. La più banale del mondo: bello.

Tutto era bello.

Era bello quel brano.

Erano belli i suoni.

Era bello quel momento di strana intimità distante con suo figlio.

Era bella la luce calda della piccola lampada, che rendeva la scena ancor più intima e confortevole.

Era bello Michele, steso sereno sul letto.

Era bella la musica. La musica nella sua astratta interezza.

La Musica.

Tump, tump, tump! Il rumore del cuore trattenuto dalle costole.

Il rumore di un'intuizione che diventava un'emozione. Un'intuizione che si infrangeva come un torrente in piena su decenni di convenzioni solidificate, e le distruggeva. 

La musica non mi piace perché piace a tutti, perché tutti la capiscono... Quante volte aveva ripetuto quelle parole, pensato quelle idee?

E Raf... com'è che aveva detto? Una cosa che capiscono tutti è una verità. Qualcosa del genere, Nicolò non ricordò le parole esatte.

Ma quelle parole e quelle emozioni gli fecero capire, in quell'esatto istante per la prima volta in vita sua, che era proprio lì che stava la grandezza di quella forma d'arte: nel fatto che fosse capace di parlare al cuore di tutti.

E Ivan, quel genio di Ivan che la musica la adorava, la capiva e la sapeva anche fare, aveva capito che per parlare al cuore chiuso di Michele serviva quella forma di comunicazione primordiale e universale, e allo stesso tempo unica e personale, perché chissà che significato aveva quella canzone per loro?

Il suo cuore batteva sempre più rapido, portando in circolo gli ormoni da cui scaturivano le emozioni. L'essere umano aveva trovato un modo di attivare quei complessi meccanismi cerebrali attraverso combinazioni sonore, sembrava un incantesimo, ma era la realtà.

E dopo un tempo che a Nicolò era sembrato lunghissimo, forse cinque o sei minuti, finalmente risuonarono le parole, quelle che Ivan aveva recitato.

E il testo poi proseguì, continuando a parlare di Michele:

Sei  rimasto intrappolato tra il fuoco incrociato dell'infanzia e della celebrità...

Come era possibile che quella canzone conoscesse Michele così bene? Sembrava che chi l'aveva scritta l'avesse conosciuto, e avesse deciso di raccontare la sua storia.

Bersaglio di risate lontane, straniero, leggenda, martire...

Minacciato da ombre nella notte ed esposto alla luce...

Gli sarebbe piaciuto conoscere la storia che si celava dietro quella canzone. Gli sarebbe piaciuto conoscere la persona che l'aveva scritta, stringergli la mano e ringraziarla. Grazie di aver parlato di Michele, grazie di avergli parlato, di aver toccato il suo cuore e anche il mio.

La canzone finì, fini quel bel momento. Nicolò era dispiaciuto che fosse già finito, ma allo stesso tempo era felice che ci fosse stato. Michele lo guardò negli occhi, il cellulare ancora in mano.

Poi lo usò di nuovo, e questa volta i suoi gesti furono più sicuri, digitò qualcosa coi pollici. Un'altra canzone? Nicolò era curioso ed elettrizzato all'idea che volesse condividere con lui ancora qualcosa.

Ma che sorpresa incredibile!

Nicolò riconobbe il pezzo dalle prime note, dai primi istanti, quell'inconfondibile sviolinata enfatica.

Nicolò e Michele si guardarono negli occhi, mentre Michele appoggiava il telefono al comodino.

C'è una ragione che cresce in me, e l'incoscienza svanisce...

Su quelle parole, Michele sembrò quasi pentirsi di ciò che aveva fatto, si girò su un fianco e gli diede le spalle, si rannicchiò e tirò su la coperta fino agli occhi.

Nicolò rimase lì ad ascoltare, finché il pezzo non finì, e quando fu finito gli chiese in un sussurro: «Come fai a conoscere questa vecchia canzone?»

Nicolò vide le spalle di Michele muoversi, segno che il suo respiro si stava facendo più rapido e profondo.

Ivan. Ivan sapeva qualcosa e l'aveva detto a Michele.

«Quante cose sa Ivan di me?» sussurrò ancora.

Il respiro di Michele si fece ancora più affannato, ma si girò di nuovo verso Nicolò e la sua testa emerse dalle coperte. Lo fissò negli occhi con lo sguardo spaurito.

«Cosa vuoi dirmi?» lo incoraggiò Nicolò. Michele stava cercando di comunicargli qualcosa.

Una mano tremante emerse dalle coperte, prese il cellulare, lo avvicino al suo viso. Entrambe le sue mani tremavano, il suo respiro era affaticato le sue sopracciglia contratte. Avrebbe voluto aiutarlo, ma come? No, non poteva, era qualcosa che doveva riuscire a fare da solo.

E alla fine ci riuscì. Scrisse qualcosa e diede il telefono a Nicolò. Mentre lo prendeva, Michele gli diede di nuovo le spalle, girandosi di gran fretta, quasi scappando.

C'era una nota di testo aperta sullo schermo, e due parole. Due parole che gli mozzarono il fiato dall'emozione. Erano le prime parole che suo figlio gli rivolgeva, dopo mesi di silenzio. Sentì gli occhi bruciare, avrebbe voluto gridare e ridere per sfogare tutta quella emozione.

E non era emozionato solo perché Michele gli aveva parlato, ma anche per quello che aveva detto, perché su quella nota di testa c'era scritto:

Ti manca?

«Sempre» rispose infine Nicolò, in un soffio.

Raf. Michele voleva sapere di Raf. O meglio, voleva sapere come si sentiva Nicolò senza più Raf. Si stava preoccupando per lui.

Mise una mano sulla sua spalla e si sforzò di non piangere. Non voleva trattenere le lacrime, no, aveva capito che era dannoso, voleva solo rimandarle, lasciarsi andare quando sarebbe stato solo.

«Puoi tenere il cellulare, se vuoi ascoltare altra musica» sussurrò a Michele. Poi si alzò è uscì dalla stanza, lasciandolo solo e sperando di cuore che seguisse il suo consiglio.

Note 🎶

Wow, che dichiarazioni Ivan. E che momenti, Nic! Ve lo sareste mai aspettato che sarebbe arrivato fino a questo punto? Che sarebbe riuscito a rompere la roccia che gli circonda testa e cuore?

Nei prossimi giorni pubblicherò una sorpresa fumettosa su Instagram e qui sugli extra della storia... brace yourselves!

Detto ciò, lasciatemi una stellina per ogni secondo di durata della canzone Shine on You Crazy Diamond, prima e seconda parte, e ci rileggiamo giovedì.

Note 2 : leggere Play in parallelo ▶️

Il capitolo è il 117! Solo uno in più rispetto all'ultima volta :)

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