105. Potrai cambiare

Ti devi solo un poco concentrare
E devi scegliere dove vuoi andare

E se bene sceglierai allora potrai cambiare
E se non ti disperderai allora potrai volare

(E. Finardi, Oggi ho imparato a volare, 1976)

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Il dottore fece un'espressione sorpresa. «Mi pone una questione spinosa. Lei è il padre di Michele, un mio paziente.»

«Ah... be', io... io credevo... che potesse essere utile a entrambi, sia a me che a Michele.»

Il dottore fece un sospiro e giunse le punte delle dita davanti al viso, appoggiando i gomiti alla scrivania su cui si appoggiava sempre per prendere i suoi appunti. «È una situazione che può comportare complicazioni. Deontologicamente non è vietato, ma le linee guida impongono cautela, perché io posso fare inferenze incrociate su suo figlio basandomi su ciò che mi dice lei, e su di lei basandomi su ciò che eventualmente mi dirà suo figlio. Ma sono tenuto al segreto professionale sulle vostre confessioni, il che rende questi ragionamenti e ciò che io poi le dirò estremamente complicato. A me piacerebbe molto continuare a parlare con lei di suo figlio, per aiutare Michele, finché non sarà Michele stesso a cominciare a parlare; ed eventualmente, in futuro, magari fare qualche seduta insieme a entrambi. Ma per quanto riguarda lei...»

«Ho capito, ho capito... Non si preoccupi, era un'idea che non mi convinceva in primo luogo.»

«No, aspetti. Considerando da dove lei è partito, dalla diffidenza che ha dimostrato nei confronti della mia professione, le devo dire che ammiro questo suo passo avanti. Non deve essere stato facile per lei ammettere anche con se stesso di aver bisogno di un aiuto.»

Nicolò annuì a testa bassa, e si rese conto che stava facendo fatica persino ad annuire.

«Io non so lei che tipo di problemi lei abbia, ma mi sembra di capire che sono soprattutto di natura familiare e relazionale. Le vorrei consigliare una mia collega. Non è una psichiatra, è una psicologa, specializzata in dinamiche relazionali e familiari. Anche lei, come me, svolge sia attività clinica che di ricerca, quindi è molto aggiornata e ha collaborato per anni con l'università di Trieste.»

«Scusi... nello specifico che differenza c'è? Gli psichiatri sono quelli che possono prescrivere anche farmaci, gli psicologi no, giusto? Cioè, in pratica gli psicologi sono degli psichiatri mancati, perché non hanno fatto psichiatria? Mi perdoni, ma sono già abbastanza diffidente su queste cose, l'idea di dovermi confrontare con uno specialista... sfigato, mi passi il termine...»

Il dottore accennò un sorriso, ma si fece subito serio. «La psichiatria è una branca della medicina, ma non ha idea di quanti esami in comune ci sono tra le facoltà di psichiatria e psicologia. A ogni modo, noi psichiatri ci occupiamo della salute del cervello come organo, e interveniamo di solito quando le tecniche di semplice psicoterapia non bastano, ma non sempre: ho diversi pazienti a cui non ho mai prescritto neanche un farmaco, e altri a cui ho prescritto farmaci solo per periodi limitati, che come le dicevo è quello che spero di fare con Michele.»

«E quindi perché dovrei andare da uno psicologo, se per sua stessa ammissione fate le stesse cose?»

«Non ho assolutamente detto questo. Gli psicologi incentrano la loro attività molto di più sulla psicoterapia, si specializzano nel risolvere diversi tipi di problemi, con approcci di vario genere. Io...»

«Diversi tipi di problemi con approcci di vario genere!» esclamò Nicolò allargando le braccia. «Ma lei come pretende che io prenda sul serio una frase simile? Si rende conto di quanto suona vaga e campata in aria? Sto andando da uno scienziato o da un guru?»

«Sta andando da una persona che ha studiato come funziona la mente umana, quali sono i meccanismi psicologici più comuni, che conosce tecniche per risolvere stati di ansia, emozioni negative, relazioni problematiche, blocchi mentali, bias... Sono tutte cose che hanno basi scientifiche. Io non la sto mandando da un santone che le offre di guarirla pregando una sua foto coi bastoncini di incenso o invocando i demoni. Io la sto mandando da una persona che sa come parlare, sa come ascoltare, e sa come indirizzare il paziente a capire le ragioni del suo malessere, e di conseguenza come risolverlo.»

«Ok. Tutto questo è sensato, non dico di no. Ma non mi hai ancora spiegato perché uno psicologo e non uno psichiatra.»

«Non uno psicologo. Questo psicologo. Le sto consigliando questa specialista, perché ha studiato nello specifico dinamiche familiari, è un campo in cui è molto esperta. Se lei fosse stata una persona che aveva problemi di tipo diverso, magari di depressione, le avrei consigliato un'altra mia collega, psichiatra. Se lei, ancora, mi avesse detto che aveva dei problemi di natura ossessivo-compulsiva, l'avrei indirizzata da un terzo specialista, uno psicologo comportamentista molto bravo che si occupa soprattutto di questo tipo di disturbi. Ora capisce? Ogni paziente fa storia a sé. Provi a parlare con questa mia collega, se poi non si troverà bene, o se i suoi problemi dovessero essere di altra natura e la mia collega decidesse di non sentirsi adatta a curarla nel modo migliore, magari sarà lei stessa a consigliarle qualcun altro.»

Nicolò fu solo in parte rassicurato da quella spiegazione. Ma col numero della dottoressa Sabrina Turchet in mano e le ammonizioni di Raffaele e Anna in mente, su quanto fosse necessario per lui cambiare per ritrovare un rapporto sano con Michele, con questo desiderio bruciante di cambiare e migliorare se stesso, si disse: quale cambiamento più grande, per me che ho sempre disprezzato la psicologia, dell'affrontare una cura psicologica cercando di superare i miei pregiudizi?

In fondo a Daniele aveva fatto bene. E forse Elisa e Raffaele erano stati sfortunati. Forse nessuno avrebbe potuto salvarli. Forse erano morti nonostante gli psichiatri e non a causa degli psichiatri.

Nicolò non sapeva cosa pensare e non riusciva a capire quanto questi pensieri fossero solo una strategia di auto-consolazione per superare il terrore dell'aver affidato Michele alle cure di uno psichiatra.

***

Fu proprio la prima perplessità che espresse alla dottoressa Turchet, il giorno dopo, appena si fu accomodato nel suo studio, una stanza arredata in modo molto confortevole, con colori caldi, due poltrone e un divano, tendaggi chiari che rendevano piacevolmente soffusa la luce esterna. 

L'aveva chiamata il pomeriggio del giorno prima dicendole di aver avuto il suo contatto dal dottor Sfiligoj e lei, forse intuendo la gravità della situazione o forse per un colpo di fortuna, gli aveva dato appuntamento già la mattina successiva, dicendogli di avere un buco libero di un'ora.

«Be', per essere una persona diffidente nei confronti della psicologia, lei mi sembra molto perspicace nelle sue intuizioni psicologiche» commentò lei aggiustandosi gli occhiali da vista: era una donna su per giù coetanea di Nicolò, capelli corti tinti di rosso e un viso dai lineamenti forti e dall'espressione cordiale.

«Non è necessario che mi lecchi il culo per convincermi a stare qui» rispose secco Nicolò.

La donna non cambiò la sua espressione cordiale. «L'ostilità continua. Mi vuole spiegare da dove viene?»

Nicolò lo fece. Le raccontò brevemente sia di Elisa che di Raffaele, dicendole che entrambi erano stati in cura da uno psichiatra e che entrambi avevano fatto una brutta fine. E alla fine del racconto le chiese anche scusa di essere stato sgarbato.

«Penso che la sua ostilità sia più che comprensibile. E cosa l'ha convinta, alla fine, a superare la diffidenza e venire qui?»

«Le ho già detto di mio figlio.»

«Sì. Mi spieghi. Mi dica quali sono i problemi che la preoccupano maggiormente ma non quelli che riguardano suo figlio, perché suo figlio è già in cura con il dottor Sfiligoj. Quelli che riguardano lei. Se stesso.»

Nicolò sbuffò. «Non mi basta una settimana per cominciare...»

«Ci provi.»

Nicolò sì mordicchiò un labbro e iniziò a riflettere, consapevole del fatto che stava sprecando del tempo. Ma voleva essere chiaro con lei e con se stesso. Pensò a lungo, e alla fine ciò che disse fu: «Il mio problema principale, è che tutti intorno a me prima o poi vogliono morire, e mi viene il dubbio di essere io il problema.»

«Perché lo dice? Mi spieghi.»

«Il primo è stato...» Nicolò fece un altro sospiro. «Prima di continuare, devo mettere in chiaro una cosa: sono omosessuale.»

«Va bene.»

«Sì, sì, lo so che va bene, non serve mica che me lo dice lei! E per favore, non mi venga a fare discorsi di accettazione, repressione e cazzate simili, perché non è quello il problema. Glielo sto dicendo solo per consentirle di avere un quadro più chiaro possibile.»

«Va bene» ripeté lei.

«E la smetta di dire che va bene! Come può andare bene? Le sfugge il fatto che le ho detto di aver avuto una moglie con cui ho avuto due figli? Le sembra che vada bene?!»

«Qual è l'aspetto che non va bene, secondo lei?»

«E secondo lei?!»

«Non lo so. Non leggo il pensiero. Posso fare delle supposizioni, ma non sono così presuntuosa da pensare che siano la verità.»

«Ma un'opinione ce l'ha o no?»

«Cosa significa un'opinione? Mi sta chiedendo un giudizio morale, forse? Io non do giudizi morali.»

«Non li dà, ok, magari il suo manuale di psicologia le ha detto che darli è sbagliato e fa male ai pazienti. Ma io lo so benissimo che lei li pensa.»

«Si sbaglia. Credo che le situazioni relazionali siano sempre più complesse di come possono apparire a un'occhiata superficiale e che quando ci sono problemi, quei problemi non sono quasi mai tutti da una parte. Quindi, le ripeto, che io non do giudizi, e per giunta mi sarebbe impossibile farlo con così pochi elementi della storia a disposizione.»

«Ok, allora glielo do io il giudizio morale: che sono un bastardo, perché le ho raccontato palle su palle, a mia moglie. Era una mia cara amica e mi sono approfittato di lei per soddisfare un bisogno di normalità e queste palle alla lunga l'hanno ammazzata!» La sua voce si incrinò sulle ultime parole.

«E non è stata l'unica!» proseguì ritrovando solo in parte il controllo della propria voce. «Perché il mio primo ragazzo, Leonardo, lui anche ha tentato il suicidio, si è sparato con un fucile ed è rimasto vivo per miracolo! E si è ammazzato quando la nostra relazione è entrata in crisi e io avevo cercato persino di tradirlo e... e io lo sapevo che lui era a rischio, me l'aveva detto che la sua vita era una merda e che se non c'ero io tanto valeva che moriva, ma sono stato cauto? No! E infatti ha provato a morire! E poi...» 

Nicolò era in affanno, prese un po' di respiri, prima di continuare. «E poi Raffaele... lui era il mio migliore amico... aveva problemi anche prima di conoscermi, ok, era un tossico e un alcolizzato, ma io ho cercato di salvarlo, un milione di volte ci ho provato, e non sono stato capace, gli ho rotto talmente i coglioni che è scappato!» Nicolò ebbe un singhiozzo di pianto, lo trattenne. «In Russia, è scappato, negli anni Novanta, se lo immagina?» Un altro singhiozzo, un terzo. «Pur di non starmi vicino è andato in quel posto di merda per continuare ad ammazzarsi di alcol, e l'ho ritrovato dopo ventisei anni devastato! E ci è morto, alla fine! Perché sono stato un amico di merda e non ho mai capito un cazzo di lui!» 

Si lasciò andare al pianto. La dottoressa avvicinò a lui un distributore di fazzoletti di carta e Nicolò ne usò due per soffiarsi il naso. «E adesso c'è mio figlio, che non si è ammazzato ma è come se lo stesse facendo, non ha più voglia di vivere, ed è colpa mia! Prima gli ho ammazzato la cagnolina senza dirgli niente, pensavo di proteggerlo da una sofferenza e invece sono un coglione perché la sofferenza gliel'ho causata... e...» Singhiozzò ancora. «E poi gli ho detto come è morta sua madre e lui ci è rimasto sotto. Non avrei dovuto dirglielo, ho sbagliato. Faccio solo errori. Errori su errori su errori di cui pagano le conseguenze persone innocenti!» 

Si soffiò di nuovo il naso. «Ed è per questo che sono venuto qua. Perché l'altra sera cercavo di dire a mio figlio... delle parole che non riesco più a dire... su quello che...» Nicolò si batté il cuore. «Quello che penso, qui, di lui, e non ci sono riuscito, nemmeno di fronte a mio figlio muto e a pezzi, ci sono riuscito, e ho capito finalmente che dovevo fare qualcosa... ci ho messo cinquant'anni a capirlo che ho un cervello di merda, ma meglio tardi che mai, no?» A Nicolò scappò una risatina nervosa, che si tramutò nell'ennesima crisi di pianto, e quando finalmente ebbe finito di piangere, si soffiò un'ultima volta il naso e fece un lungo sospiro.

La dottoressa lo aveva osservato per tutto il tempo in silenzio con un'espressione neutra, forse vagamente comprensiva, forse era un accenno di sorriso, quello che notava sulle sue labbra colorate da un rossetto chiaro, o forse era la sua espressione naturale a riposo.

«Detesto piangere» disse Nicolò.

«Il pianto è una naturale risposta fisiologica a degli stati emotivi intensi e...»

«E non serve a un cazzo» la interruppe Nicolò.

«Si sbaglia. Lo sa che durante il pianto il corpo produce vari ormoni che entrando in circolo ci fanno stare meglio? Comunemente si dice che è una valvola di sfogo ed è proprio così: quando il corpo accumula livelli di stress troppo alti, il pianto contribuisce a riportarli alla normalità.»

Nicolò tirò su col naso. «Mi stava quasi convincendo con le spiegazioni scientifiche, ma che cazzo significa stress? Stress, stress, sono tutti stressati... ma va? Ma c'è  una condizione fisiologica alla base o è tutta suggestione?»

«Ma scherza? Certo che c'è! Sotto stress produciamo corticotropina, che alza il livello di cortisolo nel nostro corpo. Ci sono diversi studi che dimostrano come piangere abbassi i livelli di corticotropina nel sangue, facendoci stare meglio. Non si sente meglio adesso?»

Nicolò fece qualche sospiro. «Non lo so... a me sembra  sempre di star peggio, dopo aver pianto... mi sento sempre... stanco, spossato... Però...» 

Nicolò rifletté sulle parole di quella donna, e gli tornò in mente lui, uno dei fari della sua adolescenza, la persona che più di tutte l'aveva aiutato ad accettare la propria omosessualità con le sue parole scientifiche, asciutte e prive di connotazioni sentimentali: Il dottor Visintin. 

La dottoressa Turchet aveva fatto lo stesso con le sue emozioni: le aveva associate alla fisiologia del suo corpo, a degli stati ormonali, e pensarci in questi termini gli fu d'aiuto. I sentimenti e le emozioni erano concetti troppo astratti, faticava a capirli e affrontarli anche per quel motivo, perché non riusciva a ricondurli a un piano razionale, che era l'unico modo in cui era capace di affrontare i problemi. 

«Forse ha ragione» ammise Nicolò. «Prima ero incazzato e frustrato, e almeno adesso non mi ci sento più. E però non mi piace questa sensazione di stanchezza che mi lascia sempre piangere. Di apatia, quasi... Non so, ho sempre avuto l'impressione che piangere fosse una perdita di tempo perché nella pratica il problema non si risolve. E...»Nicolò fece schioccare le dita. «Ecco, mi è appena venuto in mente un paragone: piangere è una specie di medicinale sintomatico. È come quando prendi un antidolorifico per un'infiammazione: ti fa stare meglio, ma la causa di quell'infiammazione mica la cura... Non si può andare avanti tutta la vita ad antidolorifici, capisce quello che intendo?»

La dottoressa gli fece un bel sorriso. «Lo sa che questo è proprio un paragone azzeccato? Credo proprio che lo userò in futuro anche con i miei pazienti. Non ci avevo mai pensato in questi termini, ma lei ha proprio ragione. E sa cosa le direbbe qualsiasi medico? Che anche le cure sintomatiche servono, anzi, spesso sono il punto di partenza necessario. Per continuare il suo paragone di poco fa, quando si ha un'infiammazione muscolare la prima cosa che si fa, sempre, è prendere un antinfiammatorio perché è innanzitutto necessario togliere lo stress infiammatorio acuto e il dolore, che sono entrambi molto dannosi al corpo di per sé. Poi, dopo aver curato l'infiammazione, bisogna cercare di capire qual era il motivo di quell'infiammazione, e lavorare su quello per evitare che l'infiammazione si ripresenti.

«Con le lacrime è uguale. Le lacrime fanno bene a sollevarci dallo stress. Ma piangere e basta, ecco, quella è la cosa sbagliata. Limitarsi a piangere senza mai affrontare le cause di quel pianto, per superarle e stare meglio.»

La reazione di Nicolò a quelle parole fu un altro pianto, che si mescolò a una risata. Si lasciò andare ancora un po'. «Le sto finendo i fazzoletti, scusi» disse soffiandosi ancora una volta il naso.

«Sono lì per quello» ribatté lei con un sorriso.

***

Quello fu l'ultimo pianto della seduta. Poi parlò. Raccontò alla dottoressa ciò che le aveva già in parte detto, ma spiegando meglio le circostanze. Voleva farle capire quale fosse la situazione. E poi magari, la volta successiva avrebbe approfondito qualche aspetto più specifico dei suoi problemi.

Alla fine della seduta si sentiva esattamente come si era sempre sentito dopo le lacrime: stanco. Ma in qualche modo anche un po' sollevato. Era andato lì pensando che sarebbe stata la sua prima e ultima seduta, convinto che quella tizia lo avrebbe sommerso di frasi fatte, consigli da santone e spiritualità assortite senza senso. Ma invece gli aveva detto cose molto razionali e gli aveva fatto delle domande che – a posteriori se ne rendeva conto – lo avevano guidato nella direzione giusta per raccontare in maniera ordinata un po' della sua vita. 

Aveva intenzione di proseguire con le sedute. Le sue riserve non erano del tutto sciolte, ma forse il semplice atto di parlare con un'estranea che non avrebbe rivelato a nessuno i suoi segreti e le sue vergogne gli avrebbe fatto un po' di bene. Si sentiva debole e un po' sciocco ad ammetterlo, ma era così.

A casa trovò la situazione di Michele immutata. Nicolò non aveva detto a nessuno dov'era andato e perché, e per fortuna nessuno gli fece domande, quella mattina, non si era nemmeno preoccupato di inventarsi una scusa. Non aveva il coraggio di ammettere, né con Anna né con Daniele, di aver cambiato in parte idea su una cosa su cui si era sempre dimostrato tanto netto nel giudizio.

Rimase per qualche minuto nella camera di Michele, senza dirgli niente, ma accarezzandogli la spalla. Suo figlio aveva gli occhi chiusi e abbracciava la carota di peluche che ormai gli faceva compagnia costante. Sembrava stesse dormendo, chissà se lo stava facendo davvero o se fingeva. Ivan sarebbe arrivato l'indomani, e Nicolò sperava di cuore che sarebbe servito a qualcosa.

***

L'aereo di Ivan atterrò all'ora di pranzo, e videro spuntare poco dopo i suoi capelli verdeazzurri al gate. Anna gli andò incontro e lo salutò con un abbraccio affettuoso e due baci sulle guance,  Nicolò con un'energica stretta di mano. «Grazie. Grazie di essere venuto.»

«Non ringraziare. Io non sono venuto per favore, ma perché voglio bene a Misha.» 

Nicolò gli chiese se volesse mangiare qualcosa, lui rispose che aveva preso uno snack in aereo e che voleva vedere "Misha" al più presto.

Durante il viaggio in macchina, mentre guidava Nicolò gli spiegò nel dettaglio la situazione, anche se sospettava che l'avesse già fatto Anna al telefono. Ivan ascoltò pazientemente, annuendo senza mai interrompere, e Nicolò gli disse dello psichiatra e dei farmaci, e di come Michele non volesse prenderli e negli ultimi giorni non avesse nemmeno mangiato.

«Secondo me Michele ha tanta paura. A lui non piace parlare dei problemi di psicologia. Dice sempre che psicologia non serve di niente, e che lui non ha problemi.»

«È vero» convenne Anna. «Lo ha detto molte volte anche a me. Tutte le volte che gli ho consigliato di vedere uno specialista per i suoi disturbi alimentari, si è arrabbiato dicendomi che non aveva nessun disturbo, che stavo esagerando dei semplici problemi di stress e che lui non aveva bisogno di andare a farsi curare come un matto. Quasi testuale.»

Nicolò strinse le mascelle. «Credo sia anche colpa mia se pensa queste cose... Chissà quante volte mi deve aver sentito sproloquiare contro psicologi e psichiatri...» L'ennesimo errore, quindi. Aveva causato l'ennesimo problema ad altre persone coi suoi atteggiamenti.

«Spero davvero che ti ascolti, che ti parli, che reagisca in qualche modo» disse Anna, rivolta a Ivan.

Arrivati a casa, Ivan venne salutato anche da Daniele, Maria ed Elisa, a cui Ivan fece una carezza sulla testolina. 

Si tolse il giubbotto e lasciò i suoi bagagli all'ingresso, Daniele gli disse di non preoccuparsene, che ci avrebbe pensato lui a portarglieli in camera.

Poi Nicolò porse a Ivan la confezione di antidepressivi che il dottor Sfiligoj gli aveva prescritto. «Per le prime settimane, dovrebbe prendere una compressa e mezza al giorno... Non so perché te lo sto dicendo, ma... Non so, prova a vedere se tu riesci a convincerlo. A me gli psicofarmaci non piacciono, ma Michele è talmente depresso che  temo sia necessario un aiuto di questo tipo, almeno all'inizio.»

Ivan prese la confezione e la mise in tasca. «Posso vederlo subito? È in camera sua?»

«Sì, ormai passa lì il novanta per cento del suo tempo» disse Nicolò.

Salirono tutti insieme, Ivan, Nicolò e Anna, mentre Daniele e Maria già cominciavano a sistemare i bagagli di Ivan, e fu quest'ultimo a bussare alla porta chiusa di Michele.

Michele, ovviamente, non rispose. Ivan aprì piano piano e dallo spiraglio disse: «Misha?»

Per qualche secondo Michele rimase immobile, e Nicolò era già pronto a lasciarsi andare allo sconforto, perché aveva sperato in una reazione netta e istantanea.

Ma quella reazione arrivò, solo che arrivò in ritardo. Fu come se il cervello di Michele ci avesse impiegato qualche secondo a rendersene conto. E quando arrivò fu persino più eclatante di quanto Nicolò avesse sperato. Michele si alzò di scatto a sedere sul letto, lasciando andare la carota che stava abbracciando, si girò verso la porta con la bocca e gli occhi spalancati e il petto che denunciava un certo affanno del respiro.

Entrambi i ragazzi rimasero in silenzio, Nicolò vedeva Michele da dietro le spalle di Ivan, dal corridoio, e gli occhi di suo figlio rimasero fissi, sbarrati, non sbatté le ciglia finché Ivan non disse: «Misha, stai bene con la barba.»

E Michele lo udì, inequivocabilmente, perché portò una mano al viso, si accarezzò le guance quasi si stesse rendendo conto solo in quel momento di aver lasciato la sua barba crescere, e i suoi occhi si fecero ancora più stupiti.

«Dio, non ci credo, sta reagendo... sta reagendo...» sussurrò Anna, lì accanto.

Michele mise le mani sul petto, e si guardò, abbassando la testa, Nicolò non sapeva cosa stesse pensando, ma l'impressione che dava da fuori era quella di una persona che stava ritrovando il proprio corpo dopo averlo perso per lungo tempo.

Poi si alzò. I suoi movimenti erano lenti ma decisi, e si resero tutti conto troppo tardi che non voleva andare da loro, ma in bagno. 

Entrò e chiuse la porta a chiave.

«Mi sembrava troppo bello...» sussurrò Nicolò.

«Ha paura. Ma ha reagito. È già qualcosa, non te ne rendi conto?» ribatté Anna. «Erano settimane che non reagiva più a nessuno stimolo, a nessuna parola. E oggi per la prima volta ha reagito.»

Ivan bussò alla porta del bagno. «Misha? Come stai?»

«Reazioni di fuga ne aveva già avute diverse» disse Nicolò. «Però, sì: È stata la prima volta da quando siamo tornati che l'ho visto... vivo.»

«Stai facendo un trattamento di bellezza? Per me? Che grande onore!» Il tono molto allegro di Ivan contrastava con la sua faccia preoccupata.

Trascorsero la successiva mezz'ora lì fuori, Nicolò sempre più preoccupato perché da dentro non si udiva alcun rumore. Ogni tanto Ivan provava a smuovere Michele con qualche frase, per lo più battute simpatiche o affettuose.

Ma la prima reazione, il primo movimento che udirono, accade solo quando Ivan, stremato, appoggiò la fronte alla porta ed espresse anche a parole quelle che sembravano essere le sue vere emozioni: «Misha... ti prego... fallo per me. Vieni fuori. Voglio vederti...» 

Dopo una manciata di secondi, un rubinetto si aprì. Acqua scrosciante e dopo qualche altro secondo, il ronzio inconfondibile dello spazzolino elettrico. 

«Si sta lavando i denti» disse Nic. Sorrise. «È un buon segno.» Era almeno un mese che Michele non si lavava da solo.

Michele impiegò parecchio tempo a lavarsi i denti e dopo i denti si udì anche lo scroscio della doccia. 

Loro rimasero lì ad aspettare, arrivarono anche Daniele e Maria a chiedere notizie e Nic li spedì di sotto a preparare qualcosa per pranzo. 

Ciò che stava accadendo era davvero una specie di miracolo; il dottor Sfiligoj aveva spiegato che smettere di lavarsi e prendersi cura del proprio corpo era uno dei principali sintomi della depressione. 

Quando Michele aprì la porta del bagno e ne emerse in accappatoio coi capelli ancora bagnati, Ivan lo salutò con un sorriso è un: «Misha, finalmente!»

Michele non disse niente, ma rimase immobile e lo guardò in faccia. Nella stanza c'erano ancora sia Nicolò che Anna. Nicolò non sapeva cosa fare, forse sarebbe stato meglio uscire, ma era troppo in ansia all'idea di lasciarlo solo e troppo felice di vederlo finalmente reagire per rinunciare a quella felicità.

«Domani devo già partire, vado a Londra. Alle Finals» proseguì Ivan.  «Vuoi venire anche tu?»

Michele, in risposta, aggrottò appena appena le sopracciglia.

Ivan sorrise. «Scusa, era una battuta scema.»

Michele stavolta non reagì. Ma continuava a rimanere fermo a guardarlo.

Ivan proseguì, con naturalezza, come se stesse chiacchierando con un amico in una situazione normale. «Ho difeso Bercy, sai? Pensavo a te mentre giocavo!» Ma poi si fece venire un piccolo scrupolo. «Scusa, ti rompo. Vuoi cambiarti? Ti lasciamo solo?»

La risposta di Michele fu andare al cassettone a prendere degli indumenti puliti. Poi tornò in bagno per vestirsi. Chiuse la porta, ma stavolta non a chiave.

«Sei straordinario, Ivan» disse Anna a voce molto bassa.

«Io non ho fatto niente» si schermì lui, «ho parlato con lui normale, come parlo sempre.»

«Nichi, che ne dici se andiamo di sotto e li lasciamo soli? Prima non avevo il coraggio di andare via, ma...»

Anna non fece in tempo a finire la frase, Michele uscì rivestito. Ci aveva impiegato pochissimo.

Ed ecco accadere l'ennesima cosa incredibile: Michele sembrò voler parlare. Aprì la bocca è prese un respiro. Poi, però, annaspò un paio di volte, e infine fece un'espressione frustrata.

Rimase immobile con le mascelle contratte, le braccia tese lungo il corpo e i pugni chiusi. Poi, guardando Ivan negli occhi, mise una mano sulla sua pancia.

«Hai fame?» chiese Ivan.

E Michele annuì. Era incredibile, stava rispondendo! Stava comunicando con Ivan.

«Posso preparare qualcosa» intervenne Nicolò al colmo della gioia.

Ma l'espressione di Michele si fece d'improvviso preoccupata, quasi arrabbiata, e scosse la testa con frenesia.

Nicolò non comprese l'ostilità.

«Vuoi che ti preparo qualcosa io?» intervenne Ivan.

Michele gli rivolse uno sguardo dapprima corrucciato, poi più tranquillo, e infine fece sì con la testa.

Perché non si fida di me? si chiese Nicolò.

«Andiamo giù» suggerì Anna. 

Di cosa ha paura? Che gli do i medicinali di nascosto?

Scesero tutti insieme e nella sala grande Maria e Daniele avevano già imbandito la tavola e messo sul tavolo del pane e dell'acqua.

«C'è riuscito. lo sapevo che ci riusciva» bisbigliò Daniele rivolto a Maria, mentre finiva di mettere le posate in tavola.

Lei era già seduta, con Elisa in braccio, prese una manina alla bimba e l'alzò verso Michele: «Di' ciao allo zio.» Ma la piccola reagì nascondendo il viso sul petto della madre, che la prese in giro con affetto.

Michele, che era rimasto a fissare le due con uno sguardo attonito, a questo punto sembrò riscuotersi e prese posto a tavola, mentre Ivan entrava in cucina, che era la stanza proprio lì accanto. Sembrava entusiasta. «Che bello, avete una specie di samovar!» esclamò osservando il bollitore sullo spargher. Poi rivolto alla sala da pranzo, gridò a Michele: «Ti faccio un cibo completo. Protein, carbo... Hai carne? Pesce?» Aprì il portello del frigorifero sbirciò dentro. «Cosa c'è in refrigeratore?»

Nicolò, che era già lì, davanti alla porta della cucina, entrò per aiutarlo ed evitare che facesse danni mettendo le mani chissà dove.

Ma non fece molto se non indicargli dove si trovassero pasta, olio e padelle. Ivan preparò una cena un po' misera e strana: una bistecchina di manzo che scaldò per almeno dieci minuti sulla piastra facendola accartocciare, un misto pronto di verdure surgelate, riscaldate anch'esse in padella con troppo olio, e infine una pasta, in bianco, cucinandola troppo a lungo e mettendola nel piatto insieme a carne e verdure come fosse un contorno. 

«Hai mai cucinato in vita tua?» gli aveva chiesto Nicolò, già vedendo come stava maltrattando la carne.

«Solo panino. Una volta ho fatto uovo sodo, ma non sapevo quanto tempo doveva stare, ho lasciato troppo e rosso diventa verde. Però ho mangiato uguale, non era cattivo.»

Povero Michele, pensò Nicolò all'idea che suo figlio avrebbe dovuto mangiare quella roba. Ma allo stesso tempo non se la sentì di intromettersi.

«Una volta» aggiunse Ivan a voce molto bassa, «io e Michele abbiamo preparato insieme una torta al cioccolato. Quando eravamo a Peter.» Ivan non aveva aggiunto altro, ma aveva continuato a cucinare con un sorriso malinconico e sognante, e Nicolò aveva capito che non era il caso di fare altre domande su quella storia.

Quando Ivan portò quel brutto piatto in sala da pranzo e Michele lo vide, anziché fare un'espressione disgustata, come Nicolò si sarebbe aspettato, sembrò quasi commosso.

Attaccò a mangiare la pasta, poi prese un pezzo della bistecca, dopo averci impiegato una trentina di secondi a tagliarla, e masticò a lungo, a occhi chiusi come se dopo milioni di anni fosse di nuovo capace di sentire il gusto delle cose, e quelle fossero le più squisite prelibatezze che avesse mai mangiato in vita sua. Nicolò leggeva questo, sul viso di suo figlio, e stava quasi male per quanto si sentiva felice di vederlo così felice.

Ma durò poco, al terzo boccone, di improvviso, Michele scoppiò a piangere. E in un certo senso anche quel pianto era una cosa positiva, perché Michele era stato così apatico e privo di emozioni, che qualsiasi emozione sembrava un passo avanti. 

Aveva ancora un po' di cibo in bocca, e piangendo ne sputò qualche pezzo; si nascose il viso tra le mani e continuò a singhiozzare, incontrollabilmente. Che spettacolo prodigioso, Nicolò non riusciva a staccargli gli occhi di dosso. Ricordò le parole della psicologa, su come il pianto aiutasse a rimettere nel sangue ormoni buoni, e avrebbe quasi voluto incoraggiarlo, dopo che per anni e anni come un cretino gli aveva detto di non piangere pensando che le lacrime non servissero a niente.

Piangi, Michele, e butta fuori tutti i pensieri cattivi dalla tua testa...

«Misha, posso abbracciarti?» sussurrò Ivan posandogli una mano sulla spalla.

Michele tolse le mani dal viso e annuì, fissando un punto indefinito davanti a sé.

Ivan lo strinse, e fu in quel momento che Anna sussurrò: «Lasciamoli soli...»

Già. Anna aveva ragione. Nicolò avrebbe voluto restare lì a guardare suo figlio che pian piano ricominciava a vivere, ma tutte quelle persone probabilmente gli stavano dando fastidio, lo mettevano a disagio. Con Ivan invece stava bene e Nicolò si fidava di Ivan: sapeva che voleva bene suo figlio e che avrebbe fatto tutto il possibile per farlo vivere.

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Note 🎶

Nic dalla psicologa che spettacolo! E che spettacolo anche il povero Michele che ricomincia a vivere.

Scusate se sono breve, oggi, ma ero convinta di aver già scritto le note, ieri quando ho riletto il capitolo, invece me n'ero dimenticata, e mo' mi ritrovo stanca a fine giornata quindi la mia testa è in condizioni pietose.

Ci rileggiamo  lunedì prossimo per vedere se e come Michele affronterà la cura e come la prenderà Nic. E lasciatemi una stellina per ogni lacrima che Nic avrebbe dovuto piangere e non ha pianto nella sua vita.

Note 2 - Leggere Play in parallelo ▶️

Per arrivare in pari il capitolo giusto è il 116!

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