103. Prima o poi ripartirò
Sto sdraiato
Senza fiato
Sfatto come il letto su cui prima m'hai lasciato
E resto qui distrutto
disperato ancora un po'
Ma prima o poi ripartirò
(D. Silvestri, Salirò, 2002)
—
Raffaele era morto da due giorni, e Nicolò ancora faticava ad accettarlo e a riempire il vuoto che aveva nel cuore con qualcosa di diverso dalla totalità delle sue emozioni.
Raf. Raf non c'è più. Come è possibile?
La sala comunale dove stava per svolgersi il funerale era gremita di gente che non conosceva Raf e in mezzo alla folla Nicolò aveva riconosciuto una persona che mai si sarebbe sognato di vedere: la contessa Patrizia Farini.
La madre di Raf.
Quanti anni aveva? Più di novanta, sicuramente. Acida stronza bastarda, che del figlio se n'era fregata per cinquant'anni e adesso arrivava a esalare i suoi ultimi fetidi respiri davanti alle telecamere. Stava parlando ai giornalisti, nel suo impeccabile vestito nero, capelli bianchi freschi di parrucchiera, un filo di trucco sul viso grinzoso. Nicolò se ne tenne alla larga, non voleva ascoltare una singola parola di ciò che stava dicendo.
Tu non l'avresti voluta qui, Raf. Lo so. La stronza.
Oh, Raf. Raf! Negli ultimi due giorni Nicolò aveva perso il conto delle volte in cui aveva pensato che fosse ancora vivo. Questo lo devo dite a Raf, chissà cosa pensa Raf, devo fare questo per Raf, vorrei chiamare Raf, Raf, Raf.
Ma non l'avrebbe sentito pù. Mai più. Com'era possibile? Era impossibile.
«Ma come cazzo si è conciato?» Nicolò fu distolto dalle sue angosce da quella frase pronunciata ad alta voce. Era seduto in prima fila, la lugubre bara proprio davanti a lui, e si voltò per capire chi avesse parlato. Identificò un vecchio collega che non vedeva dai tempi del Tour. Parlava con una donna, forse la moglie, e faceva cenni verso Ivan, che sedeva non distante, tra Michele e Daria. Cosa significava: come cazzo si è conciato? Nicolò non capiva. Ivan indossava una maglietta nera e un paio di jeans. Erano forse i capelli il problema?
Si voltò verso la bara. Per te non sono un problema, i capelli di Ivan. A te piacciono.
Perché pensava i verbi al presente?
No, non ce la faccio.
Adesso mi alzo, esco. Scappo. Non posso sopportare questa cerimonia.
Raf!
Nicolò trattenne un principio di pianto.
E restò lì.
La cerimonia iniziò.
Raf venne ricordato da parecchie persone. Alcune testimonianze sembravano più sincere, se non altro perché partivano da «Non lo conoscevo molto bene», altre erano fasulle da cima a fondo. Nicolò non capiva perché così tante persone ci tenessero a parlare di una persona che non conoscevano, che non avevano mai conosciuto. Il desiderio di mostrarsi pii e affranti davanti alla stampa era tanto grande? Possibile che la ragione fosse solo quella?
Quale che fosse il motivo, Nicolò era sempre più disgustato ogni minuto che passava. Si estraniò, e nella sua testa passarono immagini della settimana trascorsa a Capriva, l'ultima della vita di Raf.
Era stato Michele a invitarli a stare stare lì.
Al ritorno dalla passeggiata al mai luogo, Nic e Raf avevano trovato Michele e Ivan ad aspettarli sotto casa, a Bovec, e vedendoli Nic aveva sospettato che i movimenti intravisti tra le fronde degli alberi fossero stati i due ragazzi, che in qualche modo li avevano trovati.
Durante il folle viaggio in Delta, Raf, all'insaputa di Nic – che, sconvolto com'era, non se n'era preoccupato – aveva spento il telefono per evitare di farsi rintracciare da Ivan. Non voleva rischiare che lo seguisse e tentasse di fermarlo. Nic l'aveva spento per un motivo simile: non voleva essere disturbato in quello che temeva essere il suo ultimo momento felice con Raf.
Ma Ivan era pieno di risorse, si ricordava di Bovec perché Raf gliene aveva parlato molte volte, e aveva intuito dovesse trovarsi lì. Era quindi volato in Friuli, e insieme a Michele era arrivato in Slovenia a cercare il suo padre adottivo.
L'incontro a Bovec aveva portato con sé qualcosa di straordinario: Michele aveva chiamato Nic papà.
Lo aveva salutato dicendogli: ciao papà, dopo che un anno prima gli aveva detto: tu non sei più mio padre. E poi aveva invitato Nic e Raf a Capriva, per passare gli ultimi giorni in un luogo più confortevole del piccolo appartamento sloveno.
Nic non aveva dato un grande valore a quella parola. Era quasi certo che Michele fosse stato mosso solo da compassione nei confronti di Raf. Durante l'ultima terribile settimana, infatti, era rimasto in disparte, non gli aveva mai parlato. Erano stati solo Nic e Ivan, rimasto anche lui con loro, ad assistere Raffaele e soffrire insieme.
Nicolò si avvide che i necrologi erano giunti alla fine. Sentiva di dover dire qualcosa, perciò si diresse al leggio. Ma arrivato davanti al microfono si rese conto che qualsiasi parola sarebbe stata inutile, vuota. Perciò aprì la bocca e tutto ciò che ne uscì fu: «Non ho niente da dire. Era un mio carissimo amico e mi mancherà molto.»
Tornò a sedersi accompagnato da brusii. Nel breve tragitto verso la sua sedia, incrociò lo sguardo cristallino di Ivan. Cristallino e fiammeggiante. Non riuscì a interpretarlo, ma un attimo prima di voltarsi per sedersi lo vide alzarsi in piedi.
Fu quindi lui ad andare al palchetto.
E ciò che disse fu straordinario. «Io non so se esiste l'aldilà. Ma se esiste, e Raffaele sta guardando questo, si rompe proprio tanto le palle.»
Nicolò si stupì a sorridere, in mezzo a un crescente brusio del pubblico.
O grazie, Ivan. Grazie, cazzo!
Quelle parole di Ivan furono il primo sentimento positivo dopo due giorni di nero abisso. Nicolò le percepì come il punto di partenza da cui avrebbe potuto iniziare a risalire.
«Siete tutti quanti ipocrìti» proseguì Ivan. «Voi non conoscevate Raf. Siete qui solo per farvi vedere belli e buoni.» Poi allungò un dito, Nicolò lo seguì e vide che puntava la contessa. «Sì, anche tu. Raf mi ha parlato di te. Dov'eri mentre il tuo figlio stava male? Dove sei stata tutti questi anni?»
Ivan, scusa. Scusami per tutte le cose brutte che ho pensato di te e di non aver capito che persona sei.
Avrebbe voluto alzarsi e dirglielo.
«Vi sto sul cazzo che sono venuto qua con capelli viola e jeans, ma io...» Ivan si diede un pugno al petto. «Io e Nicolò Bressan,» Nicolò ebbe un sussulto, nel vedersi indicato, «siamo le uniche due persone qui che lo volevano bene veramente, e se Raf...» Ivan esitò, quasi sul punto di piangere, ma si riprese e proseguì: «Se Raf mi vede, adesso, sai cosa dice? Si incazza che non ho rifatto la tinta! Ti potevi anche fare la tinta nuova per il funerale, mi diceva, sono sicuro che mi diceva così.» Si fermò per piangere. Qualche singhiozzò bastò a sfogarlo, si asciugò le lacrime con le dita. «Scusa Raf. Scusa che ti rompi le palle, che non ho fatto una festa più divertente.»
Nic si ritrovò con gli occhi lucidi e mille parole che sgomitavano per uscire dalla sua testa.
È tuo figlio, Raf, un figlio che ti ama come fossi sangue del suo sangue. Un figlio che vive le emozioni con l'intensità con cui le vivevi tu. Guardalo! Lo vedi? Perché non lo puoi vedere? Perché!
Ivan era ancora in piedi a piangere davanti al leggio, sulla destra della bara. I fotografi in sala stavano scattando, totalmente privi di sensibilità, la gente mormorava, l'officiante del comune si avvicinò a Ivan, forse per consolarlo o invitarlo a sedersi, e qualcuno dal pubblico disse: «C'è gente in lutto, qui.»
Fu il pulsante che fece scattare Nic. Si alzò in piedi di puro istinto e disse un «Sì» che fece zittire la folla.
Andò verso Ivan, che lo guardava coi suoi occhioni chiari annegati nel pianto, le sopracciglia tese in un'espressione che gridava tristezza e speranza.
Nic si rivolse al pubblico e parlò. Disse chiara la verità: «Ci sono due persone in lutto, in questa sala. Io e Ivan Reshetnikov.» Fece un passo e si portò davanti alla bara. Esitò solo un istante, prima di posare le mani sul legno laccato. A pochi centimetri, dall'altra parte, c'era il corpo senza vita della persona che più aveva amato al mondo. Il suo amico che amico non avrebbe mai potuto definire. «Che adesso rendiamo omaggio al nostro amico.» Il pianto si ruppe, le lacrime sgorgarono dagli occhi. «Al nostro amico che si sta rompendo le palle tantissimo.»
Mentre singhiozzava senza vergogna con le mani sulla bara, sentì un tocco sulla spalla.
Ivan.
In quell'istante Nic gli volle bene quanto voleva bene ai suoi figli.
Rimase in piedi davanti alla bara, con la mano di Ivan sulla spalla, a piangere insieme a lui e sostenerlo in quel vaffanculo che sentiva uscire dritto dal centro del proprio cuore, e alla fine non ne poté più, decise che quella cerimonia senza senso per lui era appena finita. Non avrebbe accompagnato il feretro, non avrebbe sopportato altre condoglianze e sguardi commiserevoli.
Uscì. Corse. Scappò.
Arrivò alla macchina – che non era la Lancia Delta di Raf, no, quella per quel giorno l'aveva presa Ivan, e Nicolò ci avrebbe impiegato un po' prima di riuscire a guidarla, anche se Raf aveva deciso di regalarla a lui. Era la sua stupida Golf, e Nicolò era lì con le chiavi in mano, pronto a scappare, quando fu fermato da un grido.
«Papà!»
E non era Daniele. Era ancora Michele. Aveva usato di nuovo quella parola: papà.
Nicolò si volse, qualche singhiozzo ancora strozzato in gola. «Cosa c'è?»
Michele si avvicinò di corsa, ma gli ultimi passi furono più incerti; guardò suo padre negli occhi e i suoi occhioni spalancati sembravano sperduti.
Poi fece un gesto inaspettato: allargò le braccia, senza però che la sua espressione sperduta e indecisa cambiasse.
Anche Nicolò si sentiva sperduto. Non era certo che il sentimento che si celava dietro il gesto di Michele fosse affetto. Sembrava quasi che non sapesse cosa fare e gli stesse offrendo quel tipo di conforto perché sapeva che era la cosa giusta, o perché l'aveva visto in TV.
Ma Nicolò aveva deciso di seguire la promessa fatta a Raf, sul cercare di uscire dalla propria armatura, e già sapeva che le prime volte sarebbe stato così: un po' finto, forzato, faticoso. Che lo fosse anche per Michele lo metteva quasi a suo agio, in un bizzarro modo.
Fece un passo verso di lui e si prese quell'abbraccio, del figlio che l'aveva ripudiato e mai perdonato, e abbracciandolo, il mento appoggiato alla spalla, le emozioni che non avrebbe pensato di provare uscirono dall'armatura e lo fecero piangere ancora.
Sentì singhiozzare anche Michele. Piangeva? Per Nic o per Raf? Quante cose non dette c'erano tra loro, segreti di cui Daniele era partecipe e Michele no. Se voleva ricostruire qualcosa, doveva partire da lì, cercare di dirgli qualcosa. «Vi ho visti, al fiume...» sussurrò.
Michele reagì con un sussulto: Nicolò non era ancora sicuro che quell'ombra fossero Michele e Ivan (o forse uno solo dei due), ma lo stupore di Michele lo aveva appena confermato.
«Vi ho visti mentre andavate via» aggiunse.
Michele continuava a stare zitto e Nicolò solo allora si rese conto che quelle parole potevano suonare come un'accusa.
«Non sono arrabbiato» disse ancora. «Non so da quanto eri lì, non mi interessa cosa hai sentito.» Il suo pianto si era calmato. Quell'abbraccio era durato abbastanza e Nicolò fece un passo indietro per liberarsi. «Non voglio che mi perdoni perché ti faccio pena.»
Michele finalmente parlò. «Non so se riuscirò m-mai a perdonarti del t-t-tutto per la cosa di Sara.»
Nicolò non ebbe il coraggio di sostenere il suo sguardo, ancora si sentiva troppo in colpa.
«Però...» disse Michele, «Raffaele mi ha raccontato quando hai ucciso quell'uccello, e ho capito molte cose.»
Nicolò rimase parecchi secondi a processare ciò che aveva appena udito. Nonostante gli avesse detto di non farlo, Raf aveva parlato con Michele. Ecco perché era così convinto che Michele lo avrebbe perdonato.
Oh, Raf...
Era morto da due giorni, ma era come se fosse tornato vivo per un attimo, con quel regalo.
Senza dirmelo, si è preso cura di me in segreto...
«Raf non si fa... Non si faceva mai i cazzi suoi.» Di nuovo un odioso verbo al passato...
«Io devo chiederti una cosa» disse Michele.
Nicolò era pronto a essere sincero sulla sua vita privata. «Riguardo Raffaele?»
E tanto erano state sicure e dirette le parole che Michele aveva detto poco prima, tanto furono balbettate quelle successive, uscirono dalla sua bocca a fatica, ma Nic non lo interruppe anche se aveva capito alla prima "m" che la frase che Michele stava cercando di pronunciare era: riguardo alla mamma.
La disse. Nicolò si sentì sciocco ad aver pensato che volesse sapere di lui e delle sue noiose beghe sentimentali, dopo che Daniele aveva mollato quel macigno sulla testa di Michele il giorno prima della finale di Wimbledon, dopo che coi suoi occhi, in TV, Nicolò aveva visto l'effetto che il macigno gli aveva fatto.
Ovvio che ci stesse ancora pensando.
Ovvio che ci stesse soffrendo.
E quel giorno, al funerale di Raf, dopo che Michele il funerale di sua madre non aveva voluto vederlo, probabilmente Elisa era stata il suo pensiero fisso.
«Chiedi» gli disse, terrorizzato dalla domanda. Doveva essere sincero con lui? Il suo proposito di poco prima già vacillava.
Ma fu Michele stesso a non volerlo chiedere. Rimase a testa bassa per un tempo lunghissimo, talmente lungo che Nicolò temette che la cerimonia finisse e di dover sopportare l'uscita di tutti, il corteo, la bara, gli sguardi falsi, le parole di circostanza.
Alla fine Michele riuscì ad aprire la bocca. Rimase lì immobile ad annaspare, come gli succedeva spesso, e tra gli ansiti ripeté diverse volte una c, dura, un po' aspirata, a cui si aggiunsero una o, e una emme, e poi la sillaba si ripeté un paio di volte prima che riuscisse a pronunciare la parola come. Michele continuò a fatica, Nicolò capì con largo anticipo quale fosse la domanda, ma lo lascio anche stavolta finire, la domanda che si compose fu: come è morta la mamma?
Nicolò avrebbe voluto che quella domanda non finisse mai, perché non voleva rispondergli. Gliel'aveva tenuto nascosto per proteggerlo e aveva paura di fargli troppo male.
«D-dimmelo.»
E Nicolò cedette, perché ormai, pensò, ormai lo sapeva già e voleva solo una conferma. Tenerglielo nascosto sarebbe stato continuare a trattarlo come aveva sempre fatto e avrebbe finito per allontanarlo un'altra volta, e sia Raffaele che Daniele che Anna gli avevano detto di smetterla, perché ormai Michele era un adulto, e anche se Nicolò avrebbe voluto continuare a proteggerlo, voleva anche ascoltare il consiglio di suo figlio Daniele, di una ragazza intelligente, e soprattutto di Raffaele, che in quelle questioni era mille volte più sensibile di lui. Perciò lo disse: «Si è tolta la vita.»
Ma appena lo disse se ne pentì, perché l'espressione che trasfigurò il viso di Michele fu sofferenza pura, la delusione di un bambino che scopriva una menzogna crudele.
No, non un bambino. Doveva smetterla di pensare a lui come un bambino. Di un adulto che scopriva una menzogna crudele.
«P-perché?» sussurrò Michele.
«Aveva tanti problemi. E io non ho saputo aiutarla» ammise Nicolò. Ma era una verità parziale, perché lui era stato la stessa causa della sua morte; della sua infelicità.
«Lei...» Michele era senza fiato, la sua fatica a parlare era palese. «Mi aveva detto che non mi avrebbe mai lasciato solo...» disse in un sussurro.
Quella frase gli causò un crampo allo stomaco, gli fece stringere i denti dal dolore. Michele si sentiva abbandonato. Ma Nicolò non riuscì a far altro che ripetere come uno stupido: «Aveva tanti problemi...»
Michele contrasse le mandibole e abbassò le sopracciglia, ora sembrava quasi arrabbiato. Forse si rendeva conto delle colpe di Nicolò. Forse era arrabbiato per non averlo saputo prima. Ne aveva tutto il diritto.
«Dopo questo... Se non vorrai più vedermi lo capisco.»
L'espressione di Michele si rilassò nell'apatia. E quando parlò balbettò poco, ma enunciò ogni parola con gran lentezza. «La prossima settimana sono a Toronto. Ci sei anche t-tu con D-daniele, vero?»
Nicolò annuì, incerto.
«Mi f-farebbe p-piacere se venissi a vedere anche i miei match, q-quando hai tempo. Non ad allenarmi, solo a vedere.»
Aprire l'armatura che teneva stretti i suoi sentimenti non era stata una buona idea, perché si riversarono di nuovo tutti fuori con l'ennesimo pianto.
«P-pensavo che saresti stato c-contento...» aggiunse Michele, con aria delusa.
«Sì che sono contento, stupido!» E di slancio lo abbracciò ancora. Michele appoggiò le mani sulla sua schiena senza dire nulla.
***
Tornato a casa insieme a Michele (un viaggio silenzioso), Nicolò passò dal padre a prendere la piccola Elisa che aveva passato la mattina con lui.
«Çimut cussì buinore?» gli chiese, come mai così presto?
«Sono uscito in anticipo, non ne potevo più.»
Elisa, che era seduta a terra su una trapuntina con qualche gioco accanto a lei, salutò Nicolò con un «Ta ta ta!», il suo modo di dire ciao. Il padre lo fissò socchiudendo gli occhi. Era stato stranamente conciliante sulla presenza di Raffaele. Aveva fatto un commento malevolo appena l'aveva visto arrivare, sulla fine che si meritavano i drogati, ma poi aveva avuto il buongusto di rimanere nella sua ala di casa e non disturbarli.
Quello sguardo, ora, prometteva a Nicolò l'ennesima cattiveria, ma il padre lo stupì mormorando in italiano: «Mi dispiace per il tuo amico.»
C'era forse stata un inflessione maliziosa sulla parola "amico"? Nicolò decise di soprassedere. Si prese quella frase detta per pura circostanza, era il massimo di empatia che poteva aspettarsi da quel vecchio di merda. Lo ringraziò con un cenno della testa, prese in braccio Elisa e rientrò in casa.
Trascorse un po' di tempo a giocare con lei, stanco e con la testa vuota, e i partecipanti al funerale tornarono finalmente a casa dopo circa un'altra ora.
Raf, prima di morire, aveva detto loro che del suo funerale non gliene fregava niente, e di non sbattersi a riportarlo a San Pietroburgo. «Tanto non conosco un cane né lì né qui. Se volete proprio farlo, fatelo dove vi viene comodo.»
Perciò dalla Russia erano arrivati i coniugi Reshestnikov, Andrej e Daria. Gli ultimi due erano arrivati con diversi giorni di anticipo, quando Raffaele era ancora vivo. Era stato Nic a dire a Ivan se voleva invitare Andrej, visto che sapeva che anche lui era affezionato a Raf, e Ivan gli aveva chiesto se potesse far venire anche Daria: «Lei vuole bene Raf e vuole bene a me. Io ho bisogno di un po' di confortazione.» Nic gli aveva detto che non c'era nessun problema.
Il casale era molto grande: Raffaele aveva usato sin dal primo giorno la camera di Nic, il letto matrimoniale. L'intenzione iniziale di Nic era stata quella di dormire a terra, su un lettino gonfiabile da campeggio, ma era stato lo stesso Raf a implorarlo di dormire accanto a lui: «Se non ti danno fastidio flebo, bombole e cagate varie. Mi sento meno solo, se mi dormi vicino.» Nic non aveva potuto dirgli di no.
Nic era riuscito a sistemare tutti quegli ospiti nelle varie camere della casa, e aveva improvvisato anche una singola nello studio al piano terra per ospitare Andrej, usando una vecchia branda e un vecchio materasso che stavano in soffitta, ma quando il giorno dopo era arrivata anche Anna, per non farli andare in hotel Nic aveva mandato Daniele all'Ikea a comprare un materasso matrimoniale. Quando Andrej aveva visto arrivare il furgoncino a nolo col materasso si era arrabbiato: «Ti Sei dimenticato che io sono scomponibile e occupo poco spazio? Non dovevi! Ci stavamo anche nel letto singolo!»
Nic aveva poi ripetuto quella battuta a Raf, che adorava l'umorismo nero di Andrej, e infatti aveva riso parecchio. Nic si ritrovò a sorridere, ripensando alla forza d'animo con cui Raffaele era riuscito a trovare fino all'ultimo giorno dei motivi di felicità.
Quando erano arrivati lì anche Irina e Sergej, appena il giorno prima del funerale, Nicolò si era arrabattato insieme a Ivan per offrire ospitalità anche a loro nella casa di Capriva, pensando di aggiungere un letto proprio nella camera dove dormiva Ivan. Ma per fortuna i Reshetnikov avevano preferito alloggiare in hotel. Erano invitati a pranzo, però, un'incombenza che Nicolò trovava oltremodo opprimente ma doverosa. Si era rivolto a una società di catering, perché non avrebbe avuto la forza di occuparsi personalmente della cosa, e Anna era stata tanto gentile da offrirsi di organizzare tutto lei.
Ma dal cimitero, a sorpresa, si presentò a casa loro anche un'altra persona: Patrizia Farini, la contessa, la madre di Raf.
Com'era dritto il suo portamento e impeccabili i suoi abiti e l'acconciatura. «Volevo ringraziarla personalmente per l'assistenza che ha offerto a mio figlio.»
A Nicolò quel "lei" suonò strano. Gli aveva sempre dato del tu, in passato. Ma non si parlavano da quasi trent'anni e forse ora aveva una percezione diversa di lui.
Non seppe bene cosa rispondere a quelle parole così formali, e ci pensò Ivan a intervenire coi suoi soliti modi brutali. Scese dalla Delta e dirigendosi a passo rapido verso di loro, che ancora si trovavano sul portico, apostrofò la contessa con un: «Cosa ci fai qui?»
Nicolò capiva (e condivideva) il risentimento di Ivan, ma lo rimproverò. «Questa casa e mia e ci faccio stare chi voglio io. Non fare il maleducato e vai dentro.»
Ivan rivolse un'ultima occhiataccia alla contessa, che lo fissava impassibile, e poi andò dentro borbottando a mezza voce una parola in russo, forse un insulto.
La donna riprese a parlare come se niente fosse. «Mi faccia sapere quanto le devo per il disturbo.»
Nicolò emise uno sbuffo incredulo. «Ma lei sta scherzando?» le disse trattenendo a stento la rabbia.
«Non scherzo affatto.» La sua voce era chiara e squillante, per la sua età. «Deve essere stato un impegno molto gravoso e le spese...»
«Lei pensa sempre di risolvere tutto coi soldi, vero?» la interruppe Nicolò, mentre Andrej e Anna passavano loro accanto per entrare.
La donna strinse le sue labbra sottili e grinzose, colorate da un velo di rossetto bordeaux. «Non parli di cose che non sa.»
«Come del fatto che ha abbandonato sul figlio quando aveva problemi di droga? Come del fatto che si curava più dei suoi... balletti gay coi cavalli che di passare del tempo con lui? Come del fatto che non ha neanche voluto iniziare a cercarlo quando è sparito nel nulla? Che sia lei che suo padre mi avete praticamente impedito di fare denuncia per non avere rogne?»
La donna accennò un sorrisetto. «Guardi che io lo sapevo che mio figlio era andato in Russia con sua moglie. Credo lo sapesse anche il mio ex marito, anche se non posso giurarci, non ho mai parlato con lui.»
Nicolò spalancò lentamente occhi e bocca, scioccato da quella rivelazione. «Cosa? Lei... Perché mi ha mentito? Io sono venuto da lei disperato, e lei... lei...»
«Mio figlio mi aveva ordinato di non dirle niente. Se Nicolò o Elisa vengono a chiederti qualcosa, mi aveva detto, non gli dire che sono andato in Russia, perché quel pazzo è capace che viene in Russia anche lui per riportarmi qui, e io qui non ci voglio tornare mai più. Queste sono state le parole che mi ha detto. Lui voleva dare un taglio netto al passato.»
Quelle frasi lo lasciarono senza fiato.
«Io mi ero ripromessa di dirtelo solo se tu avessi sporto denuncia di sparizione. Ma non l'hai mai fatto...»
Nicolò non ne poteva più di avere motivi di recriminazioni e di sofferenza. Non aveva sporto denuncia, all'epoca, per un senso di impotenza, perché non aveva voluto insistere con i poliziotti corrotti dal padre di Raf, ma in realtà era stato arrendevole. Se solo avesse insistito... Non ci aveva provato abbastanza, se si fosse impegnato di più lo avrebbe trovato, riportato in Italia e...
«Mi accusi di non essere stata una brava madre. È vero. Ne sono consapevole, ma non pensare che non sia triste anch'io: a nessun genitore piace seppellire il proprio figlio.»
«Non riesco a crederle, mi scusi» disse Nicolò, sentendo tutta la freddezza e la banalità delle parole appena pronunciate da quella donna.
«Tu pensi che sia stato facile crescerlo? Ha avuto problemi mentali sin dall'infanzia, il primo psichiatra l'ha visto a cinque anni, ha iniziato a prendere psicofarmaci a sei.»
«E le sembra normale? Non crede che possa essere stata una parte del problema?!» disse Nicolò, sconvolto da quell'informazione.
«A posteriori forse sì» alzò la voce lei, per quanto potesse esser alta la voce di una donna anziana. «Ma tu cosa avresti fatto al posto mio? Ero sola perché quello stronzo di mio marito ci ha mollati per una sciacquetta ventenne quando Raffaele aveva quattro anni, e mi sono fidata di un luminare che pagavo all'epoca mezzo milione a seduta! Cosa avresti fatto tu? Avevo un bambino problematico e mi sono fidata degli esperti.»
«Dargli affetto, ad esempio? Stargli vicino? Anziché a spedirlo su un campo da tennis insieme a sconosciuti e farti i cazzi tuoi?»
La contessa socchiuse gli occhi e alzò il mento. «Stai continuando a parlare di cose che non sai, fidandoti dei resoconti di parte di Raffaele.»
Nicolò non rispose, gli sembrava che quella discussione non meritasse di proseguire, ma fu lei stessa ad andare avanti: «Tu non hai fatto lo stesso con i tuoi due figli?»
«Assolutamente no! Io gli sono sempre stato vicino, non li ho affidati a un coach, li ho seguiti io stesso.»
«Anch'io lo seguivo quando era piccolo, poi ho pensato che sarebbe stato più proficuo se avesse avuto un allenatore di livello più alto. E poi anch'io avevo una mia vita, non volevo annullare le mie aspirazioni e sacrificarmi completamente per lui. Avevo anch'io diritto a vivere, non credi?»
«E poi io ai miei figli li ho fatti giocare a tennis per dargli uno scopo, non per riversare su di loro le mie ambizioni fallite» sputò fuori Nicolò.
La contessa fece una breve risata rauca. «Sei stupido se pensi che nelle tue scelte non entri in gioco neanche un po' della tua ambizione. Sei presuntuoso a pensare che io l'abbia fatto solo per quello. Che tu ci creda o no, io l'ho messo a giocare a tennis per lo stesso motivo: perché volevo dargli qualcosa di interessante e sano da fare. Era una delle poche cose su cui ero d'accordo con mio marito. Entrambi abbiamo sempre pensato che lo sport sia uno strumento di salute fisica e mentale. Lui lo pensava perché era un fascista, e aveva quella tipica idea fascista dell'uomo eroico che non bada a fronzoli e cura il suo fisico e la sua mente per essere sempre pronto alla battaglia, e immaginava Raffaele come una delle statue del Foro Italico; io lo pensavo perché sono sempre stata una donna molto razionale e mi sembrava logico che un ragazzino che dedica le proprie energie a uno sport non abbia poi molte energie da dedicare ai suoi problemi mentali. E sinceramente, anche se con Raffaele non ha funzionato, io queste cose le penso tuttora. Ho novantadue anni, i dottori mi dicono che ho il fisico di una settantenne e il cervello di una ragazza, non ho problemi di salute, mi muovo da sola con la mia macchina, gioco a bridge, a scacchi e leggo moltissimo, vivo da sola senza badanti, solo una donna che mi aiuta nelle faccende domestiche. Faccio ogni mattina una passeggiata di un'ora al parco e ogni sera esercizi per la mobilità articolare, e l'unico motivo per cui ho smesso di cavalcare è che alla mia età sarebbe molto pericoloso fare un incidente. E tutto questo lo devo alla vita sana e allo sport che ho sempre praticato da quando sono giovanissima.»
Nicolò rimase senza parole. Forse perché riconosceva le sue stesse idee e in quel monologo; forse perché gli sembrava evidente che quella donna, a differenza sua, non provasse il minimo senso di colpa per la fine che aveva fatto suo figlio e credesse invece di aver fatto tutto ciò che lei era possibile per renderlo felice.
«Contessa Farini, non mi sembra che abbia senso proseguire questa discussione.»
«Perché hai finito gli argomenti» disse lei con sicumera.
«No. Perché a differenza tua io sto ancora soffrendo come un cane per la morte di Raffaele. Sono stanco, incazzato e triste e tra poco mi tocca pure sobbarcarmi un pranzo con degli ospiti a cui tengo e che si meritano la mia cortesia, ma che preferirei vedere tra almeno un mese, perché l'unica cosa che vorrei fare adesso è andare a letto e dormire per non dover pensare a niente, o forse drogarmi come faceva tuo figlio per evitare di provare ancora questo dolore tremendo. E capisci? Lo capisci o no che di sentire le tue vanterie sul bridge e sugli scacchi, e su come la tua vita sia stata perfetta e la tua condotta di madre irreprensibile, e... Ho perso il filo, cosa stavo dicendo? Ah, sì: che sono stanco, che tu mi stai sui coglioni e i tuoi soldi tienili per il circolo di bridge. Arrivederci.»
Nicolò rientrò in casa chiudendosi dietro la porta, accompagnato da un: «Maleducato» mormorato dalla vecchia arpia, e ad accoglierlo trovò Ivan, che era proprio lì, vicino alla porta, e che quindi aveva sentito tutto. L'impiccione. Lo salutò con un serissimo: «Epic Nic!»
«Devi imparare a farti gli affari tuoi» gli ribatté Nicolò. «Perché stavi origliando?»
«Perché odio quella donna. Scusa non volevo fare gli affari tuoi. Poi devo dirti una cosa.»
Nicolò fece uno sbuffo. «Dimmi.»
«Vai in camera tua e dormi, mama e papa non si arrabia se non vieni. Loro capisce. Capiscono. Loro capiscono.»
Nicolò scosse la testa. «No. Loro sono stati gentili e ospitali con me in un momento di grande difficoltà, e hanno aiutato Raf anche se lui si era comportato in modo non professionale con loro e aveva causato perdite al loro circolo. Essere presente al pranzo mi sembra il minimo per ricambiare.»
«Ma tu sei stanco e soffri tanto.»
«E tu no?»
Lo sguardo di Ivan era serio. I suoi occhi erano capaci di passare dalla più contagiosa allegria al più grave contegno. «Soffro. Tanto. Ma non ho fatto tutto quello che hai fatto tu.»
Nicolò gli diede una pacca sulla spalla. «Non ti preoccupare per me. Ho detto che preferirei andare a dormire, ma in realtà non è vero. Se andassi in camera non dormirei neanche mezzo secondo e mi metterei a pensare ossessivamente a cose brutte. Penso che starò molto meglio in compagnia di tutti quanti, a pranzo.»
Ivan sorrise. «Bravo Nic! Gli amici sono la cosa più bella per stare bene.»
«Posso chiederti un favore?»
«Certo!»
Nicolò si era già pentito di aver fatto quella premessa. «Tanto lo so che con te è come parlare al muro...»
Ivan fece un sorriso dolce. «Come parlare al muro. Frase molto bella che mi diceva sempre Raf...»
«Puoi smettere di chiamarmi Nic?»
Non era la prima volta che glielo chiedeva, ma a differenza di tutte le altre, stavolta Ivan acconsentì. «Io capisco: questo per te è un nome speciale, e io rispetto il nome speciale. Come ti posso chiamare? Tu hai un nome di amico preferito?»
«Il mio nome è Nicolò.»
«Se vuoi ti chiamo Kolja. È corto di Nikolaj. Ti piace?»
«Perché sei fissato con questi nomignoli? Misha, Vanja, Kolja...»
«Noi russi quando c'è amicizia non usamo mai nome intero. Nome intero si usa quando vuoi dire... Cosa brutta, come si dice... Come quando mama dice a bambino: hai fatto cosa sbagliata! Non devi fare questo!»
«Rimprovero?»
Ivan fece schioccare le dita. «Sì. Quando tu vuoi dire cosa molto seria, dire rimprovero, oppure in situazione formale, quando il giornalista ti fa la intervista... Allora tu usi Nicolò, Michele, Ivàn. Ma quando sei amico usi Kolja, Misha, Vanja. Capito? Da oggi in avanti ti chiamo Kolja. E se tu vuoi, mi chiami Vanja.»
«Preferisco Ivan.»
Ivan Rise. «Tutti uguali, i Bressan. Tu sei uguale di tuo figlio. Ma va bene. Tu dici Ivàn, io capisco di come dici se è Ivàn di rimprovero o Ivàn di amicizia.»
Nicolò sorrise. «Saranno sicuramente di più i rimproveri.»
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Note 🎶
Tanta tristezza con un pizzico di gioia alla fine, e un rapporto di amicizia che comincia tra Nicolò e il nostro Ivan.
E adesso? Nicolò è solo, sperduto, che direzione prenderà la sua vita? Cosa succederà? Ci stiamo avviando alla fine... Mancano solo (rullo di tamburi) 12 capitoli alla fine.
Piccola nota sulla canzone: quanti di voi sapevano che parla di depressione? Da sempre apprezzo brani che riescono a parlare di temi profondi in maniera non trita e soprattutto quelli che riescono a farlo in maniera ironica, come fa Silvestri. Grazie Daniele (omonimo del nostro).
Ci rileggiamo lunedì, e lasciatemi una stellina per ogni rosa del giardino in cui Nicolò salirà.
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Note 2: leggere Play in parallelo ▶️
Per arrivare in pari leggete fino al capitolo 108. Ma sapete una cosa? Diversi lettori arrivati a questo punto hanno già letto Play fino alla fine e si sono detti soddisfatti. Secondo me se fate lo stesso non ci sono problemi :)
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