2. Dimissioni
Altri cinque giorni separata da lui.
Altri due giorni rinchiusa in quel maledetto ospedale. Il medico, che aveva scoperto si chiamasse Williams, era ritornato più volte nella sua camera con l'intento di parlare con lei. Ma Skye aveva smesso di rispondergli e di collaborare. Da quando aveva sospettato fosse vittima della Sindrome di Stoccolma, temeva che qualsiasi cosa gli riferisse l'avrebbe soltanto rivoltata contro di lei. Nonostante avesse cercato di provocarla più volte per farle perdere il controllo e dimostrare a tutti che aveva ragione, Skye si era sempre limitata a stringere i pugni e restare in silenzio.
Era già in una posizione sfavorevole, non aveva bisogno di aggravarla. Quello che le serviva era soltanto uscire da lì e poi avrebbe presto ritrovato un modo per fuggire lontano.
Nell'ospedale non si ammettevano visite esterne, soltanto un familiare poteva entrare e uscire dalla sua stanza, quello era sua madre che presenziava sempre accanto a lei. Lo faceva perché William credeva ancora che Skye volesse ferire se stessa o chissà chi.
In realtà non era poi cosi lontano dalla verità. Avrebbe decisamente voluto ferire qualcuno. Ma quel qualcuno...non era di certo a Dover.
Per il resto, lei desiderava vivere. Anche se in quel momento stava soffrendo irrimediabilmente, non perché l'avesse deciso lei, come invece credeva quel medico, a farla star male era il pensiero di sapere che tutti i suoi amici erano ormai prigionieri di uno come Maicol. A quel punto sperava di rivederli per poterli salvare. Ammesso che...
Scosse il capo, non riuscendo più a togliersi dalla mente il ghigno malvagio di quest'ultimo.
Non poteva dargliela vinta. Non cosi.
«Allora, tesoro mio? ti va di parlarne almeno con me?» ripropose sua madre. Da quando si era svegliata aveva addosso sempre uno sguardo compassionevole e dispiaciuto. Come se la colpa di tutto quello potesse essere sua. Skye scosse di nuovo il capo, nessuno avrebbe potuto comprenderla.
E poi da quando in qua sua madre voleva...parlarle?
Sì concentrò sull'unica cosa positiva, ovvero che quando si alzava non aveva più le vertigini e perfino i punti di sutura alla spalla si erano seccati ed erano caduti via da soli. Segno che da quando l'avevano portata a Dover, quindi in quell'ospedale, erano passate quasi tre settimane.
Non l'avrebbero potuta trattenere per sempre, neanche se a volerlo era William in persona. Dopotutto non aveva prove che lei potesse essere un pericolo per gli altri. In quel caso sarebbe finita in un ospedale psichiatrico. Ma Skye avrebbe trovato comunque il modo di scappare molto prima. E dopotutto, sua madre nonostante fosse stata una donna senza spina dorsale per gran parte della sua vita, dubitava che avrebbe lasciato che la rinchiudessero subito in un altro ospedale, per giunta psichiatrico. Sapeva che le era mancata e percepiva tutta la sua apprensione. Sperava che almeno quella volta non l'avrebbe lasciata andare via tanto facilmente.
Nella stanza entrò di nuovo il Dottor William, per la quarta volta quel giorno. Con l'unica differenza che quella volta era accompagnato da due infermiere che già conosceva, Charlotte e Rita. Dietro di loro arrivò anche un altro uomo, era anziano e non l'aveva mai visto prima d'ora. Come spesso accadeva, fra le mani aveva il suo fascicolo che tra l'altro leggeva con finto interesse. Sembrava uno che aveva il tempo contato, ogni cosa nei suoi movimenti faceva intuire che fosse incredibilmente di fretta. William, Charlotte e Rita sembravano ronzargli intorno attendendo ogni suo comando. Immaginò fosse il primario o qualcosa di simile.
«Skye Lee?» domandò appena messo piede dentro la sua camera. I suoi folti capelli bianchi, privi di qualsiasi filamento argentato, le ricordavano la neve candida che attecchiva sui rami in inverno. «Si è lei» rispose sua madre al posto suo, alzandosi dalla sedia ansiosa, come se fra quei fogli potesse esserci qualcosa che non andava o le sorti del suo stesso destino.
L'uomo alzò lo sguardo su Skye ma solo per un momento, come per accertarsi che effettivamente ci fosse qualcuno sul letto. Poi ritornò ad osservare il fascicolo e siglare velocemente una firma che immaginò fosse un semplice scarabocchio. «Attualmente non abbiamo ulteriori motivi per tenerla ancora ricoverata. La dimettiamo oggi stesso» disse sbrigativo e mentre l'uomo continuava a parlarle come se stesse dicendo qualcosa di routine quotidiana, slittò lo sguardo su William al suo fianco. Il Dottore si limitò a fissarla impotente ma nel suo sguardo si avvertiva tutta la sua contrarietà. Gli fece un piccolo sorriso trionfante e pensò che almeno quella battaglia era riuscita a vincerla.
«Dovrà fare periodicamente, all'incirca per un mesetto, della fisioterapia qui in ospedale. Al piano di sotto, alla D. Voglio vederla almeno due volte a settimana» chiuse i fogli che portava fra le dita grassocce e la riguardò distratto, quella che le porse immaginò essere una domanda di anamnesi generale. «Lei accusa altri dolori che intende segnalare?» si accertò. Skye si limitò a fare un cenno di diniego e l'uomo si rivoltò verso William. «Qualcun altro ha qualcosa da riferire sulle sue condizioni?» nonostante avrebbe voluto, William tacque, deglutendo rumorosamente. Sua madre uscì di corsa nel corridoio con già il telefono fra le mani.
«Bene. Sei libera allora» quelle parole erano eguali ad una scarcerazione in piena regola per lei. Si alzò subito andando verso l'unico armadio della stanza. Sua madre nel frattempo rientrò. «Lascia, faccio io» propose afferrando un borsone e iniziando a raccogliere roba sparsa per la stanza.
«Bene. Sembra tutto chiaro allora. Ci rivedremo qui in ospedale per la fisioterapia» si dileguò subito dopo a seguito delle due infermiere. Rita andò subito via mentre Charlotte indugiò sulla porta, le fece un veloce cenno di saluto vivace e poi seguì la collega.
William invece restò. «Grace...tenga d'occhio sua figlia. E per qualsiasi problema si rivolga direttamente a me» parlò direttamente con sua madre, come se lei non esistesse o fosse troppo piccola per comprendere certe cose. Skye si limitò a sbruffare irritata, afferrando il suo spazzolino da denti e gettandolo nel borsone assieme ad un pettine. «Certo, la ringrazio. E ringrazio tutti voi a dire il vero» sua madre era sempre stata troppo gentile. Skye invece, non si curò dell'uomo, né intendeva salutarlo.
Per accettarsi che se ne andasse via il prima possibile dalla sua vista, sciolse il nodo del suo camice e lo aprì rivolta verso il muro. Come sospettava prima che potesse vederla mezza nuda, l'uomo indietreggiò e riaprì la porta.
«A presto, Skye» non un addio. Ma un arrivederci. Suonò come una minaccia. Ma dopo aver ucciso una Regina, non temeva più minacce cosi frivole da esseri altrettanto insignificanti per lei. Si voltò da sopra ad una spalla per sorridergli ancora a trentadue denti, sventolò una mano nella sua direzione. Interdetto, la guardò ancora enigmatico prima di andarsene e lasciare per sempre quella stanza.
«Skye, ma che ti prende?» sua madre fece per sgridarla ma la voce alla fine le morì in gola. Pensò fosse per la sua poca autorevolezza, ma capì quando la osservò che fosse stato per il camice che era appena scivolato a terra, formando un piccolo groviglio intorno alle sue caviglie. Quelle settimane di riposo l'avevano aiutata a guarire quasi completamente, la sua caviglia sinistra era come nuova. Il proiettile che Gabriel gli aveva conficcato alla spalla non l'aveva per fortuna messa in disuso. Anche la mano destra aveva ripreso a funzionarle senza farle costantemente male. Eppure non sapeva che aspetto potesse avere. Esausto? Diverso? Forte? Debole?
Sì costrinse a far scivolare lo sguardo via dal volto rigido di sua madre e guardò la sua caviglia e il camice intorno ai suoi piedi. Ebbe la sensazione familiare di sentire di nuovo le mani di Yuri muoversi su di essa. Lo sguardò languido che le aveva dedicato quando tastò la sua pelle e massaggiò tutta la parte dolente. L'aveva avuto ai suoi piedi ancora prima che lui le dicesse che l'amasse. Si era preso cura di Skye nonostante all'inizio lei ricambiasse con l'odio. Quel pensiero, anche a quella distanza, la riscaldò comunque. Nel mondo esisteva Yuri. Ovunque fosse, lei l'avrebbe ritrovato.
«È da maleducati fare quello che hai fatto. William voleva soltanto darti una mano» la rimproverò destandola dalla piega che avevano assunto i suoi stessi pensieri. Guardò di sbieco sua madre che mostrò un guizzo alla mascella, sembrava... avesse paura di lei. La guardava come se non lo riconoscesse del tutto. Quindi era per i suoi nuovi muscoli? Tutti i lividi che stavano sbiadendo oppure le cicatrici indelebili? per quale fottuto motivo la guardava cosi?
Si morse un labbro e ricordò di essere troppo eccitata infondo per domandarglielo, i suoi pensieri riuscivano a focalizzarsi soltanto su una cosa: finalmente avrebbe rimesso piede fuori da quella prigione che osavano chiamare ospedale.
«C'è papà giù ad aspettarci?» chiese notando come sua madre abbassasse il capo di fronte quella domanda, afferrò un vecchio pantalone della tuta che Skye utilizzava spesso in passato per l'accademia di danza di Fort Burgoyne. Ricordò averlo portato e lasciato a Parigi, segno che qualcuno aveva spedito le sue cose di nuovo a Dover dopo la notte dello spettacolo. O forse era stata sua madre a inscatolare le ultime sue cianfrusaglie lì all'accademia. Non aveva mai avuto niente di essenziale o prezioso lì. Era come se nei mesi passati a Parigi, lei non era stata nient'altro che un fantasma. Una presenza che non aveva lasciato nessun impronta.
«No...ma credo che tornerà questa sera per cena» il modo in cui lo disse le fece sorgere qualche dubbio sullo stato della loro relazione. «Tutto bene tra di voi?» annuì e fu poco convincente, le alzò infine il pantalone attaccandoglielo poco sopra all'ombelico. «Andiamo» borbottò non stando più nella pelle. Afferrò una felpa dal borsone e si fece aiutare ad indossare anche quella, alzando le mani abbastanza per permetterle di scivolare lungo le braccia e sulla testa. «Allora chi hai chiamato?» domandò un po' scettica. Sperava di non dover prendere un pullman o qualche mezzo pubblico per ritornare nella sua vecchia casa. Quando riuscì finalmente a infilarsi la felpa, vide il sorriso improvvisamente raggiante di sua madre.
«Cal».
Nonostante la lunga convalescenza, scese comunque a fatica tutte le scale del primo piano dell'ospedale. Non camminava da tempo e il suo corpo doveva smaltire ancora un bel po' di medicinali. Ma quando le porte scorrevoli si aprirono di lato permettendole di vedere l'esterno e subito dopo il vecchio catorcio di Cal, ogni dolore sfumò via disperdendosi altrove. Il suo migliore amico, nonché suo ex, scese frettoloso dall'auto, parcheggiandola nel bel mezzo della strada e lasciandola accesa. Lì come se niente fosse.
Stava piovigginando e dovette socchiudere le palpebre per vedere meglio. I suoi primi secondi all'esterno, e Dover già le regalava gelo e pioggia.«Non ci credo! Skye!» il suo amico corse da lei e la prese a volo tra le braccia, facendola girare in aria più volte. «Cal, fermati che sto per vomitare!» biascicò e lui per fortuna si fermò all'istante. Le rivolse un'occhiata dispiaciuta e la posò subito con i piedi a terra. Dovette afferrare saldamente il suo braccio per non cadere sul marciapiede vittima di nuovo di un capogiro.
«Scusami» mormorò preso dai sensi di colpa. Ma non era colpa sua, lui non le aveva mai fatto nulla di male in tutta la sua intera vita. «È tutto okay, non potevi saperlo» le sorrise prima di fare qualche passo indietro certo che non vomitasse più.
«Ti vedo...» le parole si fermarono mentre studiò attentamente il suo corpo. «Bene» asserì ma non era mai stato un ottimo bugiardo.
Immaginò che lì ormai tutti credevano fermamente alla teoria che era stata rapita e tenuta prigioniera da chissà quale essere spregevole. E perfino lei all'inizio aveva pensato più volte a quello. Non li biasimava dopotutto, come potevano sapere che in realtà Skye aveva appreso più di se stessa lì, in quelle terre aride e desertiche, che nell'accademia di danza? Non potevano neanche immaginare che era stato proprio lì che aveva conosciuto l'amore della sua vita e che l'aveva anche perso.
Educatamente Cal afferrò il borsone che reggeva sua madre, aprì il cofano malandato della sua auto e lo ripose al suo interno poi corse ad aprirle la portiera. Osservandola sul ciglio della strada, ripensò alla volante in cui Maicol l'aveva costretta ad entrare. Per un breve attimo rivide di nuovo un finestrino rotto e la mano di Yuri che scivolava più volte all'interno provando ad afferrarla, a trattenerla in qualsiasi modo riuscisse.
Serrò le palpebre a quel ricordo amaro.
«Inutile farvi le presentazioni, già conosci la mia splendida auto» scherzò portandola definitivamente alla realtà. Si costrinse a ridacchiare. Effettivamente era cosi, il catorcio di Cal era un auto tramandata da suo nonno. Era vecchia, puzzava ancora del tabacco che suo nonno fumava all'interno. E seppur Cal non era un fumatore, quell'odore acre era rimasto nonostante gli anni. Assieme a tutte le chiazze sulla tappezzeria e alla carrozzeria ammaccata sul paraurti. «Come poterla dimenticare» entrò sul sedile posteriore stretto e si aggrappò alla maniglia traballante quando si misero in moto e il motore ruggì scoppiettante lasciando andare piccole nuvole di fumo nero per diversi metri prima che smettesse del tutto.
Constatò che anche gli ammortizzatori non funzionavano per niente, il suo corpo protestava ad ogni piccolo sobbalzo che inevitabilmente causava un urto. Invece la piccola radiolina continuava a suonare imperterrita e ronzante. Osservò che nonostante l'età del veicolo esso riusciva ancora a raggiungere gli ottanta chilometri all'ora. Ci misero comunque più del dovuto per arrivare ed imboccare la stradina quasi sterrata che costeggiava la sua vecchia casa. Il tardo pomeriggio dell'ultima settimana invernale era ancora buio, il sole era calato rapidamente quando tutti scesero dal mezzo e appena messo piede fuori, riuscì a respirare a pieni polmoni l'aria frizzante e salmastra che il vento impetuoso portava con sé assieme alla pioggia. L'accolse l'odore di mare e delle scogliere che aveva tanto amato e sperato di rivedere un giorno. L'odore di quella che una volta era stata casa sua.
Nonostante la pioggia si era trasformata in una tempesta a pieno ritmo, non ci badò, si fermò ugualmente al centro del suo vecchio giardino e sollevò il capo. Come ricordava, casa sua che era di due piani era tinta di un azzurro quasi sbiadito nonostante la salsedine durante gli anni avesse corroso gran parte della vernice creando piccole chiazze. Il piccolo giardinetto che precedeva l'ingresso, era pieno di muschio ed un unico albero padroneggiava in esso. Era quello che conduceva alla sua vecchia camera.
Cal l'affiancò, guardando anche lui quei rami. Tempi addietro, ci si era arrampicato quasi ogni sera pur di raggiungerla. Da quando ne aveva memoria, erano stati inseparabili. Prima due fratelli, poi due amici, poi avevano cercato di essere qualcosa di più ed infine...Erano quel che erano insomma. Scheletri di ciò che era avvenuto dopo lo spettacolo di danza.
Era troppo buio per poter vedere dietro alle spalle della casa, dove sapeva fin troppo bene ci fosse la vecchia scuderia di suo nonno, quella che tanto aveva amato. Da lì proveniva tutta la sua passione per i cavalli. Le mancò sentire i nitriti degli animali e la voce gracchiante dei suoi nonni che bisticciavano davanti alla cena, ma quello dopotutto era svanito ancor prima della sua partenza per Parigi. Dopo la morte dei suoi nonni, quella casa era stata per Skye a dir poco opprimente. Osservò con la coda degli occhi Grace, domandandosi se infondo non fosse stato cosi anche per lei.
La donna aprì la porta d'ingresso e rimettendo piede nel soggiorno, Skye si sentì cambiata. Aveva la sensazione di essere un ospite e non una proprietaria. Era come se quelle mura non l'avessero mai vista crescere. Come se tutti quei ricordi fossero appartenuti a qualcun altro e non a lei, e sembrava che se ne stesse appropriando indebitamente.
Lo spettacolo di danza, Saleem, il Villaggio, il Deserto, Il Palazzo, la corte, Icaro ed infine Maicol...Erano tutte cose che l'avevano foggiata nel profondo della sua anima. Rendendola una donna completamente diversa.
«Bentornata» sussurrò Cal seguendola e appoggiando il borsone già zuppo ai piedi della soglia. Sua madre la squadrò come per constatare la sua reazione e quando si fu assicurata che Skye non desse di nuovo di matto come al suo primo risveglio in ospedale, avvisò «Vi preparo qualcosa da mangiare» scomparendo subito dopo dietro alla sua vecchia cucina con dei passi silenziosi.
«Cos'ha?» domandò al suo amico quando si fu accertata che non potesse sentirli né origliare la loro conversazione.
Lui fece spallucce. «Credo sia solo scossa. Non è stato facile per lei cercarti senza ottenere mai nuovi indizi o risposte. Sei scomparsa nel nulla più totale per mesi» la guardò come se a stento riuscisse a credere che effettivamente era proprio lì, nel loro vecchio soggiorno. Il suo sguardo poi cambiò, divenne curioso e sapeva che anche lui fosse pieno di domande, volevano tutti una spiegazione, ma a differenza degli altri, Cal desiderava conoscere la verità esclusivamente da lei e non quella sorta di storia che la polizia stava cercando di ideare per darsi delle risposte e incolpare qualche povero innocente. Per sua fortuna ebbe il tatto di lasciarla ancora in pace prima di indagare oltre.
«Lei e papà...» lui annuì afferrando subito l'andamento del discorso. «Sì, stanno divorziando. Non sono riusciti a farsi da supporto l'un l'altro durante la tua...assenza. E come sai le cose andavano parecchio male anche prima» assenza non più scomparsa. Già era qualcosa su cui potevano lavorare. distolse lo sguardo dal punto in cui era andata via e guardò le scale che conducevano alla sua camera. Avevano aggiunto dei vecchi ritratti di Skye appesi alle pareti dove era troppo giovane ed esile e a stento si riconosceva. Tutti ormai l'avevano data per spacciata. Probabilmente sarebbe stato cosi se non fosse stato per Saleem. «Era da un po' che dovevano lasciarsi» commentò seppur poteva sembrare crudele. Cal osservò la traiettoria del suo sguardo.
«Andiamo, ti ci porto io» senza alcun preavviso fece scivolare un braccio sotto alle sue ginocchia e l'afferrò in braccio. Non ricordava tutta quella forza, guardò stupita le sue spalle muscolose e si chiese da quanto aveva tutti quei nuovi muscoli, probabilmente anche lui l'aveva pensato prima fissandola. Era passato cosi tanto tempo dall'ultima volta che l'aveva visto che a stento lo riconosceva. Ma annusando il suo odore di betulla e ginepro, lo stesso che gli apparteneva fin da bambino, pensò che era diverso ed uguale al tempo stesso.
«Uno, due e tre!» mormorò prima di salire velocemente tutti i gradini tenendola salda contro al suo petto.
Quando attraversarono tutto il corridoio ed entrarono nella sua camera, Skye stava ancora ridendo sotto i baffi insieme a lui e alla sua improvvisa trovata di farla salire al piano superiore.
L'amico allungò una mano verso l'interruttore sulla parete e lo azionò.
Osservò Cal con un sorriso, quella stanza lui la conosceva bene tanto quanto lei. La luce calda illuminò l'ambiente e Skye si sorprese di ritrovarlo invariato. Fece qualche passo al centro osservandosi intorno ancora meravigliata. Per lei erano mutate cosi tante cose...mentre in quelle mura sembrava che tutto si fosse bloccato nel tempo. A quando aveva fatto le valigie ed era partita via per Parigi. Come se qualcuno avesse premuto il tasto stop e tutto si fosse congelato. Era come guardare una fotografia scattata e dimenticata.
Il tappeto peloso al centro di essa, le pareti azzurre, il letto accanto al muro ricoperto dalla sua coperta preferita, una in pile a quadretti blu e gialli. La sua scrivania di legno chiaro era ancora accanto alla finestra. Alzò il capo e vide le stelle in silicone attaccate al soffitto che si illuminavano al buio. Le aveva appiccicate con suo padre quando aveva avuto pressappoco nove anni e tenuta sulle spalle e fatta girare per tutta la stanza affinché riuscisse a metterle sparse un po' ovunque.
«È tutto cosi uguale a prima» sussurrò, ma in quell'ambiente familiare si sentiva sbagliata. Come se fosse appena entrata nella stanza di qualcun altro senza il suo permesso. Cal annuì comprensivo dietro di lei. «Già, la ricordo anch'io cosi» rispose un po' emblematico, appoggiandosi allo stipite della porta con le braccia conserte.
«Da quanto tempo non entravi qui?» gli domandò. C'era un tempo in cui quel ragazzo stava sempre a casa sua perfino quando lei non c'era. Si chiese se le cose non erano cambiate dopo la sua partenza.
«Dopo che te ne sei andata sono continuato a venire. Ho continuato anche nel primo mese dopo la tua scomparsa...sai per dare supporto ai tuoi insieme ai miei» la loro famiglie erano amici di vecchia data e sono rimaste molto legate durante gli anni. Guardandolo gli sembrava ancora il fratello che non aveva mai avuto. «La notte, quando non riuscivo a chiudere occhio, sgattaiolavo ancora su per quel tronco e salivo dalla finestra sperandoti di vederti su questo letto» le indicò con un indice i rami all'esterno che venivano scossi da forti folate di vento e poi il letto incastrato nell'angolo. Le gocce di pioggia che battevano sul vetro della finestra creando un rumore rilassante che fece formicolare la pelle di Skye. Aveva quasi dimenticato com'era sentire freddo. «Poi con il passare del tempo ho smesso. Ha fatto male non vederti più tornare» a quell'affermazione si sentì tremendamente egoista, perché dopo essersi arruolata come soldato nel Villaggio, aveva smesso di pensare completamente alla sua vecchia vita. A tutti loro. Compreso lui.
«Com'è stato?» probabilmente Cal si era fatto coraggio per chiederglielo, sapeva che quella domanda ce l'aveva avuta sulla punta della lingua appena l'aveva rivista. Si voltò verso di lui distogliendo gli occhi dal suo vecchio letto e lentamente si mise seduta su di esso, affondando sul materasso troppo morbido ormai per i suoi gusti.
«Direi...inaspettato. Ma nel senso positivo della cosa» rispose sincera. Lui la guardò attendendo, come se credesse che stesse scherzando e potesse scoppiare a ridere da un momento all'altro. La raggiunse sedendosi accanto a lei sul materasso. Probabilmente si aspettava di tutto tranne che quella rivelazione. «In che senso?» Skye fece vagare per un attimo gli occhi sulle mura colorate, indecisa se mentire o meno. Ma Cal... era stato il suo primo amico. L'unico a Dover. Trasse un respiro profondo prima di dire «Non è come credi...lì io non sono stata trattata male» inevitabilmente i suoi pensieri finirono sul Palazzo e Yuri che aveva fatto di lei una vera Regina dandole dame, abiti sontuosi, cibo e tutto ciò che poteva anche solo immaginare. Ed anche quando era al Villaggio era stata trattata esattamente come tutti gli altri. Niente di più e niente di meno. «Non sono stata rapita, sono stata salvata» chiarì e il modo in cui Cal sembrava guardarla sembrava un po' seccato. Come se avesse a che fare con una bambina che lo stesse prendendo in giro. Lo guardò negli occhi, osservò i lineamenti familiari e ripeté «Non sto mentendo. Quello che dico è la verità» aggrottò le sopracciglia. «Ma noi tutti abbiamo visto il video in cui un uomo ti rapiva, Skye» probabilmente parlava di qualche sorta di video recuperato dalle telecamere di sicurezza del vecchio teatro. Questo non se l'aspettava. Effettivamente tutto poteva essere molto equivoco. Frenò l'istinto di chiedergli maggiori informazioni riguardo quel video, era certa che se l'avesse guardato anche lei sarebbe scoppiata di nuovo a piangere. Ma piangere non sarebbe servito a nulla, tantomeno a riportarla nel deserto. «L'ha fatto per evitare che morissi» spiegò e Cal finalmente sembrò prestarle la dovuta attenzione. Si voltò verso di lui e incrocio le gambe sul letto. Fece anche lui lo stesso come un suo riflesso, gesto che facevano spesso da bambini. Sorrise a quel ricordo e lo sentì prometterle «Puoi parlare con me. Sono sempre io» le afferrò un palmo e lo portò sul suo petto affinché sentisse il battito regolare del suo cuore, come se glielo stesse giurando. Abbassò ogni difesa rimanente e decise di confidargli ogni cosa trascorsa.
Mentre gli raccontava tutto quello che era successo, dal momento del rapimento, passando dalla botola, ai bombardamenti, alla Torre, al suo arruolamento, alla sua prima missione e a tutto il resto che ne è derivato, fu strano vedere l'effetto che avevano le sue parole sul volto dell'amico.
Stupore, meraviglia, incredulità e preoccupazione passavano velocemente su di lui mentre ascoltava attentamente ogni sua singola parola.
Sapeva che era tanto da elaborare, dopotutto non era facile ammettere che la sua amica non era stata rapita, bensì salvata. E che di sua spontaneità fosse diventato un soldato per salvare la gente del Villaggio. E che alla fine per farlo aveva stretto un patto con quello che immaginava il nemico e che infine non si era rivelato altro che il suo miglior alleato.
Parlare di ciò che aveva provato per Saleem fu difficile. Pensò fosse imbarazzante parlarne proprio a Cal, ma quando iniziò a raccontargli anche di lui, le parole uscirono come un fiume in pena e ogni tensione si alleggerì.
Fu ancora più difficile però, parlare di Icaro. Spiegare chi era, cosa rappresentava, cosa aveva fatto durante gli anni per il suo popolo ed infine per lei.
«Dopo che la portiera della volante della polizia si è chiusa io...mi sono risvegliata direttamente qui. Il resto poi, già lo sai» finì conficcando i denti nel suo labbro inferiore per evitare che tremasse al ricordo di quella battaglia. Era stata cosi abituata a nascondere le sue debolezze, che anche di fronte a lui pensava di dover continuare a mostrarsi indistruttibile.
In quei mesi passati nel deserto, non aveva mai pianto nonostante vi fossero state parecchie occasioni per farlo. Si era trattenuta quando era nel Villaggio e l'avevano lasciato perché da bravo soldato doveva mostrarsi forte a chiunque. E aveva resistito nel Palazzo perché era continuamente circondata da avvoltoi pronti a scannarla. Aveva però smesso di lottare quell'impulso quando il suo amico Finn era morto tra le sue braccia. Lì le lacrime erano uscite da sole, senza che lei potesse dargli il permesso o anche solo pensare di ritirarle indietro.
Ma lì a Dover, sembrava che non riuscisse a fare altro. Piangere la consolava, le faceva scivolare via un po' della voragine che sentiva dentro. Continuava a mostrarsi debole con le persone che sapeva non fossero suoi nemici. Era come se tutto quello che aveva accumulato alla fine fosse esploso lo stesso. Un po' come la risacca del mare che ti torna indietro tutto ciò che gli hai lanciato negli anni.
«Wow Skye» mormorò Cal. Vedendola trattenersi dalle lacrime, allungò un braccio intorno alle sue spalle e la spinse contro di lui. Di nuovo, non le restò far altro che piangere.
Ricordare le faceva male...Ma pensare anche solo di vivere senza più rivederlo e sapere che stavano tutti bene era la peggior condanna a morte.
«Nonostante tutto, ora sei in salvo. Spero tu non sia cosi idiota da compromettere di nuovo la tua incolumità» gli disse e lei si limitò a singhiozzare per un po'.
«So che ami quelle persone. Lo si vede anche solo da come ne parli. Ti stai struggendo per loro, Skye. Ma non sono adatte a te. Non puoi più farci nulla» sfregò una mano sulla sua scapola per consolarla. Lei si scostò, puntando gli occhi nei suoi e qualcosa in lei lo fece ammutolire.
«È cosi vero? resterai qui al sicuro con tutti noi» sussurrò l'amico e lei si decise a fermare per una buona volta le sue lacrime. «Ricomincerai daccapo. Anche se hai fatto tanto per quelle persone, come dare tutta te stessa, Skye, avete comunque perso. Perché la verità è che una guerra cosi grande non poteva essere vinta cosi facilmente» sparò una frase dopo l'altra come se stesse cercando di riparare un tubo che perdeva in troppi punti.
Scosse il capo, negò ogni singola parola che gli aveva appena detto. Lei non aveva dato tutta se stessa, se cosi fosse stato non starebbe su quel letto con lui a Dover. Starebbe con tutti gli altri ovunque fossero.
«E cosa intendi fare allora?» domandò accigliato.
«Raggiungerli. E lo farò anche se dovesse essere l'ultima cosa che faccia»
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