capitolo 8- Paura
Arrivata a casa decido di farmi una doccia fredda e di schiarirmi i pensieri. Fortunatamente mia madre lavora, quindi per il momento sono sola con la mia testa ingarbugliata.
Non so che cosa sia appena successo tra me e Thomas, l'unica cosa che so è che non ho tolto le sue mani da me. L'ho lasciato fare e mi è piaciuto, da morire, oltretutto. Sentire la sua pelle ruvida a contatto con la mia mi ha sopraffatta, soprattutto perché il primo vero contatto che abbiamo. Tutte le altre volte che ci siamo toccati, l'abbiamo fatto per gioco, per stuzzicarci a vicenda e prenderci in giro, mentre ora è stato volontario. Lui voleva toccarmi. Ed io volevo che mi toccasse.
Mi è piaciuto il contatto delle sue mani su di me, il fremito che esse mi hanno causato. Mi è piaciuto il modo in cui mi ha stretto la coscia, così forte da farmi male, da lasciarmi ancora il segno addosso. E lui lo sapeva, altrimenti non l'avrebbe fatto. Oppure pensava solo che mi piacesse? O forse, cosa più plausibile di tutte, non gli importava?
Mi odio per il modo in cui gliel'ho lasciato fare, soprattutto perché adesso crederà che quello che dice sia vero, cioè che m'interessa, quando in realtà lo odio soltanto.
Qualsiasi persona avrebbe avuto la mia reazione, se un dio sceso dall'Olimpo le avesse toccate nello stesso modo peccaminoso in cui ha toccato me.
Vero, Ariel?
Certo. Qualsiasi persona.
Però non sopporto essere presa in giro, perciò mi fa anche arrabbiare il modo in cui mi ha toccata, mi ha presa come se fossi di sua proprietà e mi ha piegata al suo volere, ed io mi sento umiliata per questo. Perché è solo questo che voleva: prendermi in giro e dimostrare a sé stesso che gli avrei lasciato fare qualsiasi cosa. Ed io, come una sciocca, ho ceduto al suo gioco.
Non c'è altra spiegazione, voleva solo farmi capire che può farmi ciò che desidera, quando e come lo desidera.
Ma ora me la pagherai, Thomas Walker! Fosse l'ultima cosa che faccio.
Sono ancora immersa tra i miei pensieri quando mi passo lo shampoo e poi il balsamo. Quando mi insapono il corpo, il mio sguardo va sull'arrossamento che ho sulla coscia. Distolgo subito lo sguardo e mi sciacquo, perché guardare il marchio che mi ha lasciato inciso sulla pelle mi crea dei fremiti incontrollati che al momento non voglio sentire.
Ma, all'improvviso, sento un tonfo provenire dal piano di sotto.
Strano, mia madre è ancora a lavoro. Almeno dovrebbe essere lì...
Decido di lasciar perdere, ma cambio subito idea quando sento una porta sbattere.
Mi precipito fuori dalla doccia e mi avvolgo l'asciugamano bianco attorno al corpo prima di uscire dal bagno.
Avanzo lentamente, con il corpo sgocciolante, fino alle scale che portano al piano inferiore, lasciando delle gocce a terra ad ogni mio passo.
Cavolo, non ho nemmeno un'arma del cazzo!
E se fosse un serial killer e volesse uccidermi, o peggio, rapirmi e farmi del male?
«C'è qualcuno?» grido, anche se sono spaventata a morte all'idea di ricevere una risposta che non sia di mia madre, «Mamma?»
Nessuna risposta.
Scendo le scale fino ad arrivare al piano di sotto, con i palmi delle mani che sudano e le gambe che tremano da morire, ma prima di affacciarmi per vedere se c'è qualcuno chiedo ancora: «C'è qualcuno?»
Nessuna risposta.
Mi affaccio, nascosta dietro la porta che conduce alle scale, e il cuore inizia a battermi all'impazzata, ma non trovo nessuno. Faccio un sospiro di sollievo. Forse è stato il vento a far sbattere la porta.
Sto per voltarmi e tornare di sopra, quando una mano mi avvolge il viso, coprendomi la bocca, riesco a riconoscere la ruvidezza di un guanto che la ricopre, e mi trascina indietro verso un corpo, su cui vado a sbattere in pieno. Visualizzo ciò che ho davanti a me, ma non è niente con cui posso colpire il mio aggressore, mentre dietro di me sento un corpo robusto e la stoffa di una maglia che mi fa prudere la schiena.
Il cuore mi martella nel petto.
Ho paura.
Cerco di divincolarmi ma questa persona, che presumo sia un uomo, dall'addome duro come il marmo che sento nella mia schiena, è troppo forte. Mi tiene stretta a sé e non emette un singolo respiro.
Dalla porta d'ingresso, che vedo spalancarsi, entra un altro uomo. Indossa una maschera rossa e non riesco a capire chi sia. È alto, molto alto, e molto muscoloso.
Sto tremando dalla testa ai piedi, ho i brividi per tutto il corpo e il cuore rischia di uscirmi dal petto.
Ho così paura che potrei farmi la pipì addosso. Letteralmente.
A stento riesco a respirare, tanto forte è la sua presa sulle mie labbra sigillate. Vorrei gridare, urlare di lasciarmi andare, ma non riesco ad emettere un singolo fiato, sia per la paura che per la sua stretta d'acciaio.
«Che facciamo adesso?» domanda l'uomo di fronte a me, ma sussurra, facendomi intendere che vuole mascherando la sua voce.
Perché mascheri la voce, ti conosco?
Non avrebbe altro motivo per parlare in questo modo. In casa non c'è nessuno a parte noi.
«L'abbiamo presa, la portiamo con noi» dice l'uomo dietro di me, sussurrando anche lui.
La sua voce, così vicina al mio orecchio, mi causa dei brividi anche nella nuca.
In un attimo di coraggio, dettato dal mio istinto di sopravvivenza, mordo la mano al tipo che mi tiene e lui la ritrae subito, lasciandomi le labbra libere e facendomi riacquistare fiato.
«Merda», impreca lui.
«Vi prego, vi prego, no!» grido più forte che posso, «Cos...cosa volete?» balbetto, in preda al panico più totale. Posso dare loro qualsiasi cosa, tutti i gioielli, tutti i soldi, basta che se ne vadano.
L'uomo dietro di me ride, «Da te niente», sussurra ancora.
«Spaventarti un po'», ammette poi l'uomo davanti a me.
Spaventarmi? Perché?
Capisco di essere nella merda, dato che non posso offrire loro nulla di materiale, ma solo la mia più totale paura: ce l'hanno.
«Lasciatemi andare», strillo ancora, sperando che qualcuno mi senta da fuori e che venga in mio soccorso.
Il mio sesto senso mi suggerisce di chiedere loro perché vogliono spaventarmi, ma il mio istinto mi dice di evitare di fare domande, potrebbero essere semplicemente pazzi e non aver nessun motivo per volerlo fare. Piuttosto, decido di urlare ancora più forte.
Sento il battito del mio cuore sbattere su ogni parete del mio stomaco, arrivare fino ai timpani e rimbombarmi nelle orecchie.
Ad un tratto, sento l'auto di mia madre parcheggiare nel vialetto, e credo che la sentano anche loro.
«Portala di sopra, io prendo l'auto. Scendi dalla finestra», dice l'uomo con la maschera rossa a quello che mi tiene.
In tutta risposta, l'altro mi solleva come se pesassi meno di una piuma, e mi trascina di sopra, mentre io cerco di scalciare per liberarmi.
«Non gridare. Stai zitta», mi ordina prima di rimettermi giù davanti alla finestra di camera mia. Abbiamo fatto le scale in meno di cinque secondi.
Ora posso vederlo. È alto, molto più di me. Indossa una maschera bianca e una tuta completamente nera, non ha scoperte nemmeno un lembo di pelle.
Il ragazzo mi viene addosso, costringendomi ad appoggiarmi con la schiena contro il muro, mentre lui porta tutto il suo corpo sul mio ancora immobile. Sento il suo peso gravarmi addosso, mentre il mio corpo si irrigidisce totalmente. Il tuo addome aderisce completamente al mio, non lasciandomi via di scampo, poi avvicina le sue labbra al mio orecchio.
«Se vuoi che tua madre domani sia ancora viva, ti consiglio di tenere la bocca chiusa», sussurra, prima di lasciarmi respirare e tuffarsi dalla finestra.
Ormai da sola, rimango appoggiata al muro, con una mano sul petto e il respiro affannato. Mi sento come se avessi corso per quindici ore di fila.
Ho il cuore che mi batte ancora così forte che credo di riuscire a sentirne il rumore.
Non mi hanno fatto niente. Ma avevano intenzione di farmi del male?
E se fosse, perché non l'hanno fatto?
Avrebbero potuto trascinarmi fuori con loro, se avessero voluto. Ma forse era troppo difficile.
Torneranno a prendermi?
Non posso dire niente a mia madre. Mi ha minacciata. Non voglio rischiare che succeda qualcosa a lei.
Devo sbrigarmela da sola. Ma come dormirò stanotte, sapendo che possono tornare in qualsiasi momento?
«Tesoro, tutto bene?» chiede mia madre quando mi vede in quella posizione, con gli occhi sgranati.
Mi riprendo all'istante, perché non voglio che lei si metta in mezzo. «Si, tutto bene. Adesso scendo per cena», dico con voce sottile, ricordandomi che indosso solo un asciugamano.
***
«Allora, raccontami qualcosa. Hai conosciuto qualcuno, immagino, visto che sei uscita più in questa settimana che in tutta la tua vita», presume mia madre mentre mangia il pollo arrosto che ha preparato per cena.
Non siamo solite a mangiare cose cucinate in casa. Di solito mangiamo d'asporto da quando si è separata con mio padre, che oltretutto non sento da esattamente una settimana.
Ci penso per qualche secondo, ma appena la nostalgia inizia a farsi sentire decido di pensare ad altro. A volte, preferisco sfuggire dalle emozioni negative e fortunatamente è una cosa che mi riesce abbastanza bene, solo che poi finisco in un limbo infinito, in cui non riesco a sentire quasi più nulla. Solo che pensavo che dopo la separazione dei miei, io e mio padre saremmo stati legati come prima, ma forse mi sbagliavo. Oppure è solo molto impegnato. In fondo è un avvocato, avrà delle cose da fare.
Diciamo che sia così, perché l'alternativa fa schifo.
«Si, ho conosciuto delle persone. Non so se posso definirli amici, ma mi piacciono», ammetto.
«Sono contenta, Ariel», dice lei in un modo che mi fa capire che sia davvero sincera. «Non hai mai avuto molti amici. Sono felice che tu stia uscendo, anche se la cosa un po' mi preoccupa.» Ridacchia.
Sembrerebbe una normale conversazione madre-figlia, eppure sono sicura che questa sua premura sia dovuta ad altro. Certo, è stata una madre presente e lo è tutt'ora, ma non si è mai mostrata molto interessata alle mie conoscenze e amicizie.
«Sputa il rospo, mamma.»
Lei sgrana gli occhi, «Che vuoi dire?»
«So che c'è qualcosa sotto. La cena preparata da te, tutte queste domande. Dimmi quello che mi devi dire.» La guardo negli occhi, cercando da sola la risposta.
«Non posso fare domande sulla vita di mia figlia?» ribatte lei alzando appena la voce.
«Non dico questo. Dico solo che è strano, fatto da te», ammetto.
Sembra rabbuiarsi. «Lo so, proprio per questo ho deciso di farlo. Ho sentito che siamo un po' distanti ultimamente e volevo fare qualcosa per te, interessarmi di più alla tua vita. Tutto qui», confessa lei. Ed io le credo.
Forse è il modo in cui lo dice, quasi a malincuore, ma il mio cuore si stringe un po' a quell'affermazione.
Forse ho esagerato a pensare che mi dovesse dire qualcosa.
«Possiamo guardare un film insieme, dopo», propongo, vergognandomi di me stessa per i pensieri che ho fatto prima.
«Si, certo. Non devi uscire stasera?»
È venerdì sera e Carmen mi ha mandato un messaggio poco fa chiedendomi di andare con loro da Pop's, ma ho negato perché non avevo molta voglia dopo ciò che è successo oggi. Sono ancora scossa e preferisco stare in casa con mia madre, piuttosto che uscire, anche per assicurarmi che non le capiti nulla durante la mia assenza. Se solo immagino che possano entrare e trovare lei invece che me...mi si stringe il cuore.
«No, non esco stasera» Le sorrido. «Però guardiamo Harry Potter, ti avviso.»
«Oh, ti pregooo», si lagna, «L'abbiamo visto dieci volte. Non ce la faccio più. Ormai so le battute a memoria.»
«Meglio così. E poi non è vero, ti addormenti sempre a metà film.»
«E va bene, guardiamo Harry Potter», concede con uno sbuffo, prima di finire l'ultimo pezzo di pollo e iniziare a sparecchiare.
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