Revenge
La grandine picchiettava sul terreno bagnato, le buche nella strada erano riempite dalla pioggia, il vento ululava forte e scuoteva le possenti chiome degli alberi, staccando foglie, rametti sottili, qualche fiore colorato e rubava capelli o ombrelli alle persone che stavano disperatamente correndo per tornare a casa, all'asciutto e al caldo. Tra questi vi era anche Jordan, coperto da un lungo cappotto nero e un cappuccio che puntualmente il vento faceva ricadere sulle sue spalle. Rimpiangeva di non aver ascoltato sua moglie Elen, quella mattina, che gli aveva ricordato due o tre volte di prendere l'ombrello. Ora si ritrovava a puntare gli occhi a terra, intruppando con il gomito i fianchi di molte persone e a mugolare uno "scusi" ogni volta che questo accadeva.
Fortunatamente la sua abitazione non doveva essere molto lontana -così come la gustosissima cioccolata calda che Elen avrebbe preparato-, per questo motivo Jordan affrettò il passo, sentendosi rincuorato anche dal pensiero dalla dolce bevanda che lo aspettava.
Dopo qualche altro minuto di corsa, la sua casa si poteva scorgere tra i numerosi negozi che occupavano la città. A Jordan non sembrava vero di essere finalmente giunto al riparo da quel maledetto temporale. Si tolse il giacchetto ormai fradicio, si scrollò di dosso le gocce d'acqua che erano riuscite a trapassare l'abito ed entrò in casa, mentre il tepore finalmente dava sollievo al suo corpo freddo.
-Amore, sono tornato- Disse Jordan battendo i denti. Ma alla sua chiamata la moglie non rispose, né il figlio Emanuele.
Saranno usciti, pensò alzando le spalle, Manu doveva essere accompagnato a una festa. Approfittò della quiete di quel momento per riordinare i documenti e le prove che servivano per far arrestare Michael Allen. Grazie al suo lavoro da sceriffo della città aveva accesso a molte informazioni in più rispetto a semplici poliziotti e assistenti, per questa ragione era riuscito a risolvere il caso che gli aveva portato via quasi quattro mesi di tempo per essere capito. Anche se le prove che aveva scoperto riguardo quell'uomo era scioccanti, era fiero di sé, del suo lavoro. Pensò a quanto sarebbe stato bello vedere Michael in manette, mentre veniva trascinato verso la sua cella per chissà quanto tempo, cosicché Brooklyn sarebbe stata finalmente libera da tutti quegli omicidi orribili. Girandosi, vide la sua immagine riflessa nel lungo specchio a muro e si concesse di dire al suo riflesso un "ottimo lavoro, sceriffo". Andò in cucina per preparare la cioccolata calda e prese anche qualcosa da mangiarci insieme. Mentre stava per immergere la piccola ciambella nel liquido, sentì il cigolio della porta d'ingresso che si apriva. Posò la sua merenda e si diresse in salone per abbracciare sua moglie ma vide che non era lei quella che era entrata in casa: era Michael, con una pistola puntata al petto di Jordan. Quello che successe dopo fu troppo veloce perché potesse essere realizzato da lui –e forse era anche meglio. Sentì solo tre spari, il pavimento freddo contro la sua schiena, del sangue che colava lungo il suo corpo...
L'unica cosa positiva era che Jordan non provava dolore, sentiva come un vuoto dentro di sé che si allargava sempre di più, togliendogli a poco a poco l'aria, ma non stava soffrendo. Era sgradevole quella sensazione ma non poteva farci nulla, era troppo debole per compiere qualsiasi azione e, inoltre, Michael era ancora lì, in piedi, davanti a lui, con un sorriso soddisfatto in volto. Non gli avrebbe permesso di fare anche la più piccola mossa.
Jordan stava diventando pallido come un fantasma, il suo corpo era scosso da piccoli spasmi, il respiro andava rallentando sempre di più e la vista stava diventando sempre meno nitida, come se avesse della nebbia davanti agli occhi che stesse per coprire completamente il suo campo visivo. Si sentiva debole, impotente contro l'uomo che lo sovrastava.
Michael si avvicinò a lui e Jordan ebbe un brivido di terrore che risalì fino alla schiena: cosa gli avrebbe fatto ora? Gli aveva già sparato tre volte, non bastava quello?
-Mi sento generoso, oggi. Ti farò morire senza soffrire ancora- disse impugnando la pistola e dando un colpo al petto di Jordan, mozzandogli l'ultima parte di respiro che gli rimaneva. L'aria non arrivava più ai suoi polmoni, anche se il corpo ne urlava il bisogno. Le ultime cose che sentì furono le parole di Michael:
-Non c'è due senza tre, mio caro sceriffo- rise lui beffardo, fissando gli occhi verdi di Jordan, accarezzandogli i capelli. Gli occhi di colui che era steso a terra, ormai immobile, si chiusero, inghiottendolo nel buio.
Michael prese il telefono dalla tasca posteriore dei jeans e fotografò il corpo esanime di Jordan. Lo faceva sempre quando era responsabile della morte di qualcuno. Guardò la foto e il suo sorriso si trasformò in una fragorosa risata: nessuno avrebbe potuto sbatterlo in prigione, nemmeno uno stupido uomo della polizia.
Si sollevò dal cadavere di Jordan e osservò la casa per vedere se ci fosse qualcosa di interessante da poter portare via, essendo quella l'abitazione di un agente.
Com'è banale la casa di un poliziotto, pensò alzando gli occhi al cielo. Michael vedeva solo oggetti decorativi, colorati e per lui inutili. Dopo aver sbuffato un paio di volte, cercò in giro, sperando di trovare delle armi ma invano. Si domandava se fosse possibile che non trovasse neanche una pistola. La maggior parte degli abitanti di Brooklyn ne aveva una: data la gran quantità di omicidi che si stavano verificando grazie a lui nessuno voleva essere il prossimo a finire con una pallottola in testa.
Michael si stancò presto di cercare e si diresse verso il portone d'ingresso. Prima di andarsene notò un simbolo sul vetro appannato della finestra dove aveva spiato Jordan in precedenza. Non gli sembrava di averlo visto prima, quel cerchio con la V disegnata dentro di esso. Si chiese come i ragazzini potessero divertirsi nel disegnare delle strane cose su una superficie appannata. Alzò le spalle, indifferente, e se ne andò dalla casa dell'ennesima vittima che aveva ucciso.
*****
Il fiato di Jonathan si condensava in piccole nuvolette di fumo. Aveva sempre provato a far mutare quelle nuvole in cerchi perfetti, come le persone che vedeva ogni tanto in televisione, ma non ci era mai riuscito; o almeno, non come voleva lui.
Mentre camminava sulla via desolata calciava i piccoli sassi che incontrava sulla strada asfaltata molti anni prima. Sembrava che quel posto fosse stato abbandonato, dimenticato da tutti. L'erba era altissima, non curata, e a volte Jonathan incontrava dei rami caduti a terra –forse a causa di una tempesta- ancora non rimossi e carcasse di animali morti. Il suo pensiero venne rinforzato alla vista dell'edificio –il manicomio- che voleva vedere: alla sua base c'erano delle piante che si erano arrampicate sui muri, sfruttando i mattoni che sporgevano leggermente dalla parete dal colore nero sbiadito, il tetto recava qualche danno, anche da lontano si potevano vedere dei teli azzurri, usati probabilmente per coprire dei buchi nelle tegole. Quel manicomio era un posto diroccato. Si stupiva che degli uomini vivessero lì.
Ma d'altronde non è un problema mio, pensò, se le persone voglio stare lì.
Jonathan spinse la grande porta d'entrata –che si aprì cigolando- e guardò tutti i graffi incisi su di essa, come se qualcuno vi ci fosse aggrappato mentre veniva strattonato per essere portato via. Si chiese se fra questi rientrasse anche suo padre. Mentre la domanda rimaneva senza riposta, la sua attenzione venne catturata dalla voce di qualcuno:
-Buongiorno. Come posso aiutarla?- chiese una donna giovane dietro la lunga scrivania marrone piena di fogli, senza alzare la testa dal telefono che stava usando. Era vestita con un camice bianco, come una dottoressa, aveva i lunghi capelli biondi legati in una coda, le piccole mani fasciate in due guanti neri che rendevano precaria la sua presa sul cellulare. Jonathan le si avvicinò lentamente, appoggiando i gomiti sulla scrivania. Solo sentendo quel rumore la ragazza si decise a sollevare il capo. Davanti alla vista di Jonathan rimase ferma a squadrare il corpo scolpito del ragazzo e il viso privo della minima imperfezione.
-Voglio vedere Michael Allen- le sussurrò accennando un finto sorriso, lei diventò rossa in viso e, dopo avere smesso di balbettare e di far guizzare gli occhi da un punto all'altro del corpo di Jonathan, chiese se avesse una qualche parentela con la persona cui voleva far visita.
-Sono il figlio- rispose lui allargando ancora di più il sorriso.
-D-Devo chiamare q-qualcuno che la accompagni. E-E' la procedura d-delle visite...- balbettò la ragazza.
-Non ce n'è bisogno, sarà una cosa veloce. Gli parlerò dallo sportellino- disse fissandola con sguardo magnetico. Lei si fece abbindolare da quelle iridi azzurre come il ghiaccio e gli disse la stanza dove il padre era stato rinchiuso. Jonathan salì soddisfatto le scale che l'avrebbero portato alla stanza di suo padre, passando una mano sulla ringhiera della gradinata. I suoi occhi lessero tutti i numeri incisi nelle piccole targhette fissate alle porte delle camere finché non trovarono il numero 185. Sul viso di Jonathan spuntò un sorriso perfido, come se avesse finalmente raggiunto uno scopo che si era prefissato di realizzare. In fondo era così, se lo era promesso che un giorno avrebbe vissuto quella situazione. E ora eccolo lì, in piedi davanti alla camera di suo padre diventato pazzo grazie a lui.
Fece un passo avanti e con la mano aprì lo sportellino della porta. Michael si trovava seduto a gambe incrociate di fronte alla finestra, probabilmente chiusa in modo ermetico.
-Ciao papà. Come te la passi?- chiese. Michael chiuse gli occhi.
Ti prego, fa che non sia reale, stava sperando quest'ultimo, fa che sia solo un'altra allucinazione, ti prego... Non voleva vedere suo figlio, il motivo per cui ora si trovava in un manicomio. Forse Jonathan non era così, forse era Michael che stava solo immaginando tutto. Ma non poteva non attribuirgli la colpa: le allucinazioni erano cominciate poco dopo la sua nascita. Aveva avuto tante volte l'istinto di ucciderlo ma non ne aveva mai avuto il coraggio. Non perché li legasse chissà quale affetto, ma per la semplice ragione che rivedeva sempre gli occhi di qualcuno che aveva ucciso in quelli di Jonathan. E in alcuni casi, in frazioni di secondo, l'immagine di suo figlio scompariva per lasciare il posto a qualche persona cui aveva tolto la vita che puntualmente faceva ricadere la testa a destra del proprio corpo e lo guardava con occhi vitrei, con il sangue che colava dalla ferita che gli aveva inflitto.
-Cosa vuoi?- rispose in un sussurro, abbassando la testa e non girandosi per incontrare quegli occhi che aveva sempre temuto.
-Vedere il mio dolce papà, non è ovvio?- disse fingendo un tono ingenuo e nascondendo il sorriso sfacciato che voleva venire fuori. Michael rimase in silenzio, sperando che suo figlio se ne andasse o che fosse solo un'illusione che stava vedendo, una delle tante che aveva già passato, una delle tante che avrebbe sopportato. Chiuse gli occhi ma sentì ancora la sua voce, penetrante e bugiarda, che gli diceva:
-Papà, mi hai insegnato che è scortese dare le spalle a chi ti sta parlando.- Michael si rassegnò al fatto che Jonathan non fosse un'allucinazione e si voltò. Nel momento in cui i suoi occhi incontrarono quelli del ragazzo, Michael ebbe un fremito, un brivido che attraversò tutto il suo corpo: lui lo stava guardando come fosse il suo giocattolo preferito con cui non aveva ancora finito di giocare. Altri brividi, altri fremiti, dovuti al fatto che suo figlio lo inquietava. Aveva strappato via la vita a decine e decine di persone, le sue mani erano completamente intrise del sangue ormai rappreso di innocenti, la sua mente era piena di ricordi che per individuo normale sarebbero stati orribili da sopportare, sconvolgenti. Lui era un mostro. Ma davanti a quello sguardo arretrava, come se gli togliesse tutti i coltelli, tutte le pistole, tutte le armi che finora aveva sempre avuto; lo faceva sentire vulnerabile.
-Com'è qui al manicomio? Le persone sono gentili con te? Ti trattano bene?- domandò fingendosi preoccupato per lui.
-Benissimo.- mentì Michael liberando un sospiro. Jonathan non poteva sapere che lui non aveva nessun rapporto di amicizia, parlava a malapena con le guardie che gli portavano il cibo e lo scortavano fino al bagno. O forse lo aveva chiesto proprio per quel motivo... Michael non lo sapeva, non era mai riuscito a prevedere una sola mossa di suo figlio.
-Puoi sempre usare questo, per pura precauzione, s'intende.- estrasse dalla tasca della giacca un piccolo coltello argentato che rigirò tra le mani più e più volte, come per memorizzare nella sua mente ogni dettaglio di quell'oggetto.
Michael impallidì, terrorizzato al solo pensiero di tutte le cose orribili che suo figlio avrebbe potuto fare con quel semplice utensile. Ma, contrariamente a quanto aveva pensato, il coltello non finì impiantato nel suo petto: Jonathan stava incidendo qualcosa sul muro, qualcosa che era ancora coperto dalle sue possenti spalle. Lui sorrise, forse pensando alla reazione che Michael avrebbe avuto capendo tutto grazie a quel disegno, forse per la soddisfazione di aver portato a termine l'obbligo che si era imposto di raggiungere.
Quando Jonathan si spostò dalla parete, Michael non vide subito quello che lui aveva disegnato. Gli occhi di suo figlio mutarono colore: non erano più azzurri come prima. Erano verdi. Michael pensò a un'altra allucinazione, anche se lui non distingueva più la realtà dall'illusione, per lui tutto era solo un miscuglio di colori che non stavano bene insieme. Però chiuse leggermente la palpebre, come per osservare qualcosa che aveva già visto in passato. Non ricordandosi di nulla, spostò lo sguardo sulla parete bianca incisa dal coltello. Quel simbolo... Michael spalancò gli occhi, i quali passarono velocemente dalle iridi verdi di... della persona davanti a lui a quel simbolo, quel maledetto simbolo. La sua mente rievocò involontariamente un ricordo, delle immagini: Jordan a terra che esalava il suo ultimo respiro e lo stesso simbolo inciso sulla parete era apparso sul vetro appannato della finestra della casa di Jordan. E in quel momento la verità apparve davanti ai suoi occhi, come se per tutto quel tempo avesse vissuto dietro un velo che impediva la visione nitida delle cose, delle persone, dei luoghi. Capì che colui che ora sorrideva davanti a lui non era suo figlio, non lo era mai stato: era sempre stato Jordan. Lui, che morente gli aveva giurato vendetta in silenzio.
Le ginocchia di Michael cedettero, fece un vano tentativo di sorreggersi al muro ma finì solo carponi, a terra. La bocca si spalancava e si richiudeva subito dopo. Non sapeva neanche lui se faceva quel gesto per prendere aria o se stesse cercando di dire qualcosa, magari che lo poteva aiutare a uscire dalla situazione che stava vivendo.
Urlò, mentre la pazzia lo travolgeva ancora, mentre la disperazione prendeva le redini di quell'incubo assurdo che gli stava sfuggendo di mano, mentre delle guardie salivano le scale per vedere cosa fosse successo, mentre Jordan se ne andava con quel sorriso di soddisfazione che Michael non avrebbe più dimenticato.
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