01 Beth.
Beth arrivò alla Urban High School in perfetto orario, alle 07:42 in punto. Jackson Hartley, l'autista della famiglia Lewis, parcheggiò poco distante dall'entrata principale lasciando uscire Beth dall'auto.
«Buona giornata, Beth» le disse sorridendo. La ragazza ricambiò il sorriso aggiungendo anche un cenno con la mano, poi si allontanò a passo svelto dall'auto, evitando così di farsi riconoscere dai suoi compagni di scuola.
Tra gli studenti notò alcuni volti abbastanza familiari: sulla destra, attorniato da due cheerleader, c'era Jeremy Robinson, capitano della squadra di football della scuola e suo compagno di banco a matematica; poco più in là, Christine Stewart e Danielle Thompson stavano discutendo su chi fosse il ragazzo più carino tra gli studenti del primo anno; infondo, vicino alla porta d'entrata, con un pallone da football sotto il braccio destro e un libro di musica in mano, c'era Christopher Cooper, uno dei migliori amici di suo fratello maggiore. E loro erano solo alcune delle persone che conosceva. Purtroppo, essendo una scuola privata con una retta annuale di circa cinquantamila dollari, a frequentare la Urban erano solo quattrocentocinquanta studenti, dei quali un quarto frequentavano il Country Club in cui erano iscritti i suoi genitori e, di conseguenza, anche lei. Nonostante ciò, in quattro anni nessuno l'aveva mai riconosciuta. A scuola era solo Beth, e le bastava.
Indossate le cuffie, cercò di non dare troppo nell'occhio sedendosi sotto un albero e aspettando pazientemente che la campanella delle 07:45 suonasse per poter entrare e cominciare la sua giornata scolastica. Ma come poteva non dare nell'occhio? La sua chioma color arcobaleno non faceva altro che attirare gli sguardi degli studenti del primo anno e Beth proprio non riusciva a capirne il perché. Erano sempre di più le persone che si coloravo i capelli, chi di blu o chi di rosa o chi li faceva bianchi, perché si scandalizzavano ancora, strabuzzando gli occhi e schiudendo le labbra, quando la guardavano? Infondo, lei non aveva dei capelli troppo appariscenti: un primo strato era viola/lilla e, andando verso le punte, il parrucchiere era riuscito ad alternare ciocche rosse, magenta, arancioni e salmone da un lato, mentre dall'altro ciocche blu, verdi, azzurre e gialle. Niente di mai visto. Niente di troppo stravagante. Eppure quando camminava per strada le persone non facevano altro che guardarla. Che fossero sguardi di ammirazione o di disprezzo, ormai Beth aveva imparato a non soffermarcisi più del necessario. Aveva imparato a non dare più peso del dovuto al giudizio della gente, aveva imparato a conoscere sé stessa e ad apprezzarsi, per quanto le fosse stato possibile viste le sue circostanze. Il senso di colpa, beh, quello sarebbe rimasto per sempre.
Qualche minuto dopo la prima campanella suonò e Beth lasciò che la folla affluisse un po' per non rischiare di ritrovarsi sballottata qua e là dagli alunni desiderosi di cominciare il prima possibile le lezioni e di finirle quanto prima possibile. "Prima iniziamo prima finiamo" si dicevano l'un l'altro. Sciocchezze. Per quanto la percezione del tempo e del suo passare possa essere diversa da persona a persona, il tempo che avrebbero trascorso a scuola sarebbe stato lo stesso, per tutti. Sette lezioni da cinquanta minuti l'una, un intervallo a metà mattina di quindici minuti e una pausa lunga di un'ora a mezzogiorno. Alle 02:40 del pomeriggio sarebbero finite le lezioni obbligatorie e dieci minuti dopo sarebbero cominciati i corsi pomeridiani di un'ora e quaranta in totale, questi facoltativi. Ciò significava che si era davvero liberi alle 04:30 del pomeriggio, quando ormai il pomeriggio era già inoltrato e si andava verso sera.
La scuola era solo una minima parte di schiavitù, credeva Beth. Al tempo, che era per lei come un padrone opprimente, piaceva prendersi beffe degli esseri umani. Faceva credere loro che potevano farcela, che i loro sforzi sarebbero valsi a qualcosa, ma a cosa, poi? Beth, ad esempio, era impegnata ogni pomeriggio con le attività extra scolastiche. Il lunedì aveva diritto, il martedì teatro, il mercoledì dibattito, il giovedì disegno e il venerdì danza. Strano programma, eh? Tornava a casa alle cinque del pomeriggio, ricominciava a studiare per la scuola (come poteva non fare i compiti per i giorni successivi?), alle sette e mezza cenava insieme al resto della sua famiglia e poi andava a dormire perché il giorno dopo avrebbe affrontato un'altra giornata di scuola. Questo per cinque giorni alla settimana su sette.
A cosa le serviva tutto quello studio se poi non poteva godersi la vita, che ora c'è e domani non c'è più? Beth adorava studiare, ma non riusciva a capire perché tutti davano molta più importanza allo studio di quanto in realtà avrebbe dovuto averne. Sapeva che lo studio le sarebbe servito per il futuro, per trovare un lavoro e avere successo. O almeno, così voleva suo padre. Lei invece pensava che avere successo ma poi non essere felici non servisse a niente. A cosa le servivano i soldi se poi non avrebbe avuto qualcuno con cui condividere emozioni, sentimenti, passioni o fantasie? Perché Beth sapeva che era questo a cui andava incontro. Concentrandosi troppo sullo studio, stava trascurando le persone vere e proprie con cui poteva stringere amicizie. E questo l'avrebbe portata ad esser sola anche al college, dove la mole di studio sarebbe stata più corposa. E, una volta aver trovato un lavoro e aver avuto successo, cosa ne sarebbe stato di lei? Non voleva pensarci, non voleva dare un'altra soddisfazione al tempo.
Trovato il suo armadietto, prese subito i libri per le prossime lezioni che avrebbe avuto: due ore di matematica e due di inglese. La scuola era cominciata da neanche un mese e ancora non era riuscita ad abituarsi al nuovo orario, lo trovava scomodo e disconnesso, ma non era lei a decidere. E infondo, quello sarebbe stato il suo ultimo anno lì al liceo. Le toccava sopportare, come aveva fatto durante gli ultimi anni, da sola e a testa alta, senza farsi condizionare troppo. Beth sapeva che doveva fare il suo dovere e il suo dovere era quello di studiare per uscire con il massimo dei voti dal liceo, essere ammessa alla Stanford e studiare giurisprudenza, specializzarsi dopo la laurea per diventare un avvocato e poi esercitare la sua professione allo studio del padre, il famoso avvocato Philip Lewis. Il suo futuro era già stato scritto. Non avrebbe potuto cambiarlo. Si era rassegnata all'idea di diventare ciò che voleva quattro anni prima, ormai. Quando era cambiata ogni cosa.
Arrivata all'aula di matematica, entrò un po' riluttante. Le piaceva la materia, ma non il suo compagno di banco. Jeremy non aveva mai avuto a che fare con Beth durante gli anni precedenti a quello. Per lui Beth era una ragazza carina e attraente come molte altre ragazze lì a scuola, ma distaccata e misteriosa come nessuna e questo lo incuriosiva. Spesso, aveva provato a cominciare una conversazione con la ragazza invano. Gli occhi di Beth erano solo per la professoressa, la sua mente incentrata sulla materia, l'attenzione completamente sul comprendere. A Beth non piaceva essere disturbata durante le lezioni, aveva provato a farlo capire a Jeremy ma il ragazzo persisteva.
Anche quella mattina, cominciata la lezione, le aveva chiesto di getto «Allora, quando me lo dai il tuo numero?» e Beth si era ritrovata ad alzare gli occhi al cielo e a pregare che qualcosa, qualsiasi cosa, facesse perdere al moro ogni interesse che aveva per lei, perché sapeva che sarebbe stato tempo perso con un personaggio come lui.
Jeremy era carino, ma a Beth non interessava per niente avere una relazione. Aveva troppe cose a cui pensare, non riusciva ad avere del tempo nemmeno per trovarsi degli amici e dedicarsi a loro, figuriamoci ad avere un ragazzo. Avrebbe pensato a trovare il ragazzo finito il college, magari dopo essersi stabilizzata. E sempre se ne avesse avuto la possibilità. Nel frattempo, stava bene così com'era. Meglio sola che sola in due, si diceva. Perché prima o poi le persone ti lasciano. Succede sempre. Beth lo sapeva. Beth era già stata scottata una volta. Beth non voleva che ricapitasse. Voleva stare tranquilla, trovare il suo posto, essere felice almeno per un po', giusto per sapere cosa si prova. E questo anche a patto di restare sola per sempre.
Finite le ore di matematica, Beth si ritrovò a scappar via dall'aula per non essere fermata da Jeremy. Era ormai diventata un abitudine, quella. L'aula di inglese non era troppo lontana da quella di matematica, ma muoversi tra gli studenti non era poi così facile. C'era chi correva, chi parlava in mezzo ai corridoi, chi si spintonava, chi flirtava e anche chi si baciava appassionatamente con la schiena attaccata agli armadietti. Per non parlare dei professori che, con i loro mille fogli volanti, camminavano a testa bassa facendosi spazio tra gli alunni e mormorando varie frasi del tipo:
«Fate largo!»;
«Tornate subito in classe!»;
«Vi mando dal preside!»;
«Non siete al parco giochi!».
Patetici, pensò Beth.
Arrivata all'aula di inglese si sedette al suo solito posto, l'ultimo banco infondo a destra, accanto alla finestra che dava sul campo da football della scuola. Spesso si ritrovava a guardare fuori dalla finestra, a contemplare il verde del campo, lo splendore del sole, il cielo limpido e le nuvole bianco latte. E quando c'era mal tempo rimaneva affascinata dalla potenza del temporale, dai fulmini che squarciavano il cielo, dal rombo che emettevano i tuoni, il bagliore accecante dei lampi. Le piaceva osservare la natura e non condivideva la teoria dell'evoluzione che insegnavano a scuola. La Terra era troppo perfetta, i cicli e la vita che pullulavano sulla superficie terrestre non potevano essere frutto del caso o dell'evoluzione. La Terra sembrava essere disegnata da una mano esperta, era tutto curato nei minimi particolari, ogni tratto di quella che era la natura era inspiegabilmente unico, imparagonabile a niente. Frutto di una mente suprema, un Progettista, il Creatore.
Ne approfittò dell'assenza della professoressa Smith per continuare a guardare fuori dalla finestra. I ragazzi della squadra di football della scuola si stavano allenando, chi facendo delle flessioni chi con degli addominali. Tra i ragazzi, riconobbe Christopher. Conosceva quel ragazzo da quando era bambina e negli anni era stato l'unico a non cambiare mai. Aveva sempre avuto uno sguardo sveglio e amichevole, il sorriso smagliante e perennemente presente, il corpo atletico e muscoloso quanto bastava. Gli occhi blu oltremare ipnotizzavano ancora le ragazze e qualche volta avevano ipnotizzato anche lei. Ormai, conosceva a memoria ogni particolare di quelle iridi blu, che brillavano alla luce della luna, che le sorridevano ogni qual volta la guardavano. Soprattutto, di Christopher apprezza il suo carattere forte e deciso, intraprendente ma ponderato, e soprattutto gentile e leale. Gli voleva bene, ma niente di più. Christopher non era altro che il migliore amico di suo fratello Daniel, erano cresciuti insieme e spesso aveva anche dormito a casa sua e mangiato insieme la sera per i tornei alla play station che il ragazzo faceva con suo fratello, ma niente di più. Era solo un ragazzo, su cui poteva contare, certo, ma non era nemmeno paragonabile all'essere considerato suo amico.
Finite le prime ore mattutine, Beth si avviò in caffetteria e prese posto al tavolo più in disparte possibile, che condivideva assieme a Lauren Sullivan e Bridget Renner, due ragazze che seguivano insieme a lei il corso pomeridiano di danza. Erano delle ragazze come lei: chiuse nel loro mondo, amanti della musica e della danza. Con loro le veniva facile parlare, le conosceva da solo un anno ma in tutto quel tempo non l'avevano mai giudicata, né fatta sentire diversa. Erano del secondo anno e molto più intelligenti di molte persone che conosceva e che si sarebbero diplomate quello stesso anno. Finito il pranzo e suonata l'ultima campanella, Beth sprizzò gioia da tutti i pori.
La danza era tutta la sua vita. Una volta essersi spogliata e aver indossato le punte si sentì rinata. Quando ballava, dimenticava ogni cosa, brutta o bella che fosse e si concentrava su sé stessa, sui suoi sentimenti, sul suo essere più interiore e profondo. Quando ballava lasciava l'ansia, la paura e tutti i perché nell'armadietto assieme al suo cambio d'abito. Quando ballava scompariva ogni timore, si sentiva viva, ma viva per davvero.
Miss Leroux, poi, era un insegnante fantastica. Di nazionalità francese, miss Jacqueline Leroux aveva frequentato l'École de Danze de l'Opéra national de Paris e, finita la scuola, fino ai trent'anni aveva fatto parte del Ballet de l'Opéra national de Paris. Si era trovata dall'altra parte del mondo per amore. Logan aveva deciso di staccare completamente l'aria facendo una vacanza a Parigi perché il divorzio gli aveva prosciugato ogni forza. Una sera stava passeggiando fuori l'Opéra Garnier dove il Ballet de l'Opéra si era esibito. Era ormai l'una inoltrata di notte quando una donna di corsa lo travolse. E lì qualcosa nel suo cuore cambiò, così come cambiò qualcosa nella vita di Jaqueline. Aveva abbandonato il gruppo di danza e la famiglia per amore di uno sconosciuto e, a distanza di cinque anni, non se ne pentiva. Continuava a danzare e a insegnare danza, quindi non aveva abbandonato la sua passione, ma si era costruita anche una famiglia e questo la rendeva completa nel modo più pieno.
Anche a Beth sarebbe piaciuto frequentare una scuola di danza e poi danzare a livello agonistico. La Juilliard School a New York era da sempre stato il suo sogno nel cassetto, il più grande che avesse mai avuto e l'unico che avrebbe voluto realizzare. Ma sapeva che non ne sarebbe stato possibile. Lo sapeva e si era ormai rassegnata all'idea.
I sogni sono fatti per essere irrealizzati, diceva lei prendendosi un po' gioco della celebre frase che aveva spesso sentito pronunciare da compagni di scuola, professori, personaggi di spettacolo o conoscenti. I sogni si chiamano sogni perché quando dormi e sogni non sei cosciente di ciò che la tua mente sta pensando. Quindi i sogni, per quanto possano essere belli, sono semplicemente il frutto di pensieri non coscienti, irrealizzabili, troppo fantasiosi o poco realistici. Si diceva Beth.
Quindi, per quanto amasse danzare e per quanto bello fosse il solo pensiero di ballare a livello agonistico, sapeva che quella sua fantasia le avrebbe solo fatto del male se avesse continuato a pensarci. Decise quindi di mettere in pausa i suoi pensieri e di concentrarsi su ciò che miss Leroux stava insegnando al piccolo gruppo di danza. Ben presto, il tempo a disposizione finì e, dopo essersi fatta una doccia, si ritrovò a camminare a passo svelto verso il parco, dove Jackson la stava aspettando con l'auto.
«Buonasera Beth, com'è andata la sua giornata?» le chiese Jackson quando Beth prese posto sui sedili posteriori.
«Bene, grazie Jackson. Ti dispiace se chiudo?» chiese a sua volta lei indicando il soffitto dell'auto.
«Niente affatto, signorina» rispose l'autista.
Beth tirò quindi giù il telo nero che divideva il lato anteriore da quello posteriore dell'auto. Alzato il tappetino e tirata su la piccola botola segreta, Beth prese gli abiti che erano al suo interno da quella stessa mattina. Velocemente si cambiò indossando la gonna a balze, la maglia rosa e le ballerine. Infine, tolse la parrucca e le lenti a contatto, posizionando tutto all'interno dello zaino. Guardo il suo riflesso in uno specchietto che usava per ripassarsi il trucco prima di tornare a casa: era arrivato il momento di smettere di essere Beth, ma di tornare ad essere Rebecca.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top