7- 𝙒𝙚 𝙗𝙪𝙞𝙡𝙩 𝙤𝙪𝙧 𝙤𝙬𝙣 𝙬𝙤𝙧𝙡𝙙 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢

Dopo mesi di apatia e vuoto, misurarsi con due emozioni contrastanti come rabbia e serenità aveva provocato nel mio cervello uno scontro a fuoco. Vinse la rabbia: mi travolse con la forza di un maremoto facendo risvegliare il mostro che si era a malapena assopito nella mia testa.

 Quale motivo aveva spinto Jordan a compiere una cattiveria del genere nei miei confronti? Quell'articolo sarebbe stato un pettegolezzo che avrebbe riempito le bocche dei miei rivali, dandogli pane di cui cibarsi e crescere. Lo stesso pane che io rifiutavo, cercando di scomparire. Per le gare future, si era ufficialmente liberato un posto sul podio, e gli altri atleti avevano ora la speranza di occuparlo. Era scorretto, completamente sbagliato ed ignobile, eppure era successo, e non era più possibile tornare indietro.

Me ne stavo lì, con le mani aggrappate alle braccia di Ellison, a riprendere fiato con un senso di vergogna infinito.

«Cos'è successo, Amy? Parlami.» chiese ancora, senza staccarsi da me. Non parlai ancora. Sbloccai la tastiera e le porsi il mio cellulare. La pagina con l'articolo pubblicato era ancora aperta, e le mie foto che completavano quell'articolo non lasciavano spazio a dubbi: ero davvero io. Lesse velocemente e strabuzzò gli occhi, sedendosi accanto a me.

«Merda.» disse secca.

«Già.»

«Sai già chi può essere stato a farti una cosa del genere?» chiese sincera.

Tuo fratello, avrei voluto risponderle. Ma avevo bisogno di prove prima di confermare i miei sospetti. E se anche l'istinto mi avesse suggerito la verità, mai e poi mai avrei potuto prendermela con lei. 

«Andrò a fondo della questione, puoi starne certa.» dissi determinata.

Mise il mio telefono sul comodino, e con una buffa espressione che rese il suo volto apprensivo ricominciò a parlare.

«Ti aiuterò in ogni modo mi sia possibile, Amelia. Sono quasi certa, però, che tu abbia avuto un attacco d'ansia, e credo sia meglio tu vada in infermeria. Vuoi che ti accompagni o preferisci che chiami qualcuno qui?»

«Vado da sola, Elly. Hai già fatto tanto, non voglio rubarti altro tempo per le telefonate.» Avevamo il cellulare per circa due ore ogni sera, non volevo che usasse quell'ora rimasta per me. L'infermeria era vicina, ero certa che io e le mie gambe molli l'avremmo raggiunta senza problemi.

«Ti svelerò il mio trucco, Amelia.» disse socchiudendo l'occhio destro, lasciando manifestare un lato di lei che ancora non conoscevo: la furbizia. «Prima però ti accompagno in infermeria, così ti presento anche l'infermiera di turno questa notte.» Si alzò, tendendomi la mano, che presi senza indugio. Uscimmo dalla nostra camera e ci incamminammo, strette insieme, lungo il corridoio animato dal brusio delle telefonate delle altre. Qualsiasi cosa mi fosse presa, Ellison non mi aveva lasciata sola per un millesimo di secondo. 

«Possiamo entrare, Tamara?» chiese bussando la mia amica. Pensai a lei così, per la prima volta. Nonostante i sospetti su Jordan, lei si era sempre comportata da vera amica nei miei riguardi. La porta si aprì leggermente, lasciando intravedere due piccoli occhi neri come la pece, oscurati da un'acconciatura corta e crespa. 

«Ah, vieni Ellison, stavo per chiamarti per la terapia.» disse con una voce calda.

«Ho compagnia con me, stasera.»

La porta si spalancò del tutto, e la figura austera di Tamara ci invitò ad entrare. Si presentò davanti a me una stanza asettica, con degli armadi adagiati alle pareti, organizzati in reparti in base al tipo di contenuto, come segnalavano le etichette ordinate incollate alle ante.

«Tu devi essere Amelia.» Mi disse subito. Non apparve materna come le altre infermiere, sembrò distaccata. 

«Sono io, piacere.» Mi presentai, seguendo Ellison. Mi sentivo più sicura, standole vicino. La vidi agguantare un piccolo contenitore ed ingoiare le due pastiglie di diversa misura che vi erano all'interno, per poi trangugiare a grandi sorsate l'acqua contenuta in un bicchiere di plastica. Ellison schioccò la lingua sul palato, e si girò verso Tamara con la bocca ancora aperta. Vidi l'infermiera controllarle attentamente la bocca, e scoppiò in una risata fragorosa, quando richiudendo la bocca, Ellison disse: «Visto? anche stasera pappate tutte!»

«Ci mancherebbe altro, pestifera.» le rispose allegra.

«Tamara, sono qui con Amelia perchè poco fa le è successa una brutta cosa e non si è sentita bene.» Iniziò Ellison facendosi seria, portandomi davanti a lei.

«Grazie Ellison, puoi andare allora. Chiudi la porta quando esci.» disse Tamara guardandomi negli occhi, liquidando velocemente la mia compagna di stanza. «Cos'è successo?» chiese allarmata.

Vidi Ellison uscire, lasciandomi un cenno di rassicurazione prima che la porta, chiudendosi, mi nascose il suo corpo scarno. Tamara mi invitò a sedere sulla grande poltrona reclinabile al centro dell'infermeria, e si sedette sulla sedia da ufficio vicino al pc. 

«Raccontami tutto» mi incitò.

Titubante, mi accomodai sulla poltrona che profumava ancora di disinfettante, e le raccontai tutto dell'articolo e della reazione che aveva scaturito in me, stando ben attenta ad eludere il nome del mio sospettato principale. Tamara si alzò, e dopo avermi misurato la pressione ed il battito cardiaco con estrema cura, confermò anche lei l'idea di Ellison: si era trattato di un attacco d'ansia. E nel momento in cui demmo un nome a quell'episodio, mi resi conto che questi erano stati piuttosto frequenti nell'ultimo periodo. Prese una grande agenda rossa dal cassetto della scrivania, iniziando a scrutarla con attenzione.

«Vedo qui che domani hai già in programma il primo incontro con la dottoressa Cameron. Mi dispiace, ma questo è un argomento delicato, Amelia, e ti consiglierei di parlarne con lei. Ti andrebbe una camomilla? Posso farti un po' di compagnia, se ti va.» Propose gentile, pur mantenendo quello strano tono a tratti apatico.

«No, grazie Tamara. Vorrei chiamare mia madre, per capire se ne sa qualcosa.» rifiutai educatamente.

«Certo, immagino. Non ti rubo altro tempo allora.» disse avvicinandosi alla porta per farmi uscire. «Amelia?» mi fermò.

«Si?»

«Non farti abbattere da quello che succede fuori dalle porte del Fairwinds. Lasciali parlare, e sii forte.» disse salutandomi Tamara. Più facile a dirsi che a farsi. C'erano delle istruzioni, in vendita, su come soprassedere alle fughe di notizie estremamente personali?

Me ne tornai in camera, e chiamai subito mia madre. Nemmeno lei era a conoscenza di chi mi avesse sbattuto sulle pagine di quel quotidiano. Lessi frettolosamente l'articolo, salvandomi il nome del giornalista, con il proposito di chiedere un permesso l'indomani per poterlo chiamare e indagare. 

Quella che seguì fu una notte insonne, popolata da ogni tipo di pensieri. Passai mentalmente in rassegna ogni persona di mia conoscenza, ma il cerchio si chiudeva sempre intorno alle uniche quattro persone che sapevano dove mi trovassi: mia madre, Kevin, Audrey e Jordan. Mia madre era la persona che era, ma ci avrei messo le mani sul fuoco che il tutto non fosse a causa sua. 

Audrey mi aveva cresciuta fin da piccola sui pattini, e nonostante la sua irascibilità, mai avrebbe messo i bastoni tra le ruote ad un sua atleta in quel modo. Kevin? non aveva nessun altro in zona con cui allenarsi con costanza nella coppia artistico. Aveva solo me. Infastidito o meno che fosse dalla mia improvvisa partenza, mai avrebbe agito alle mie spalle in quel modo disonorevole. E soprattutto, era così egocentrico che al massimo avrebbe commissionato un articolo sul povero pattinatore rimasto solo, piuttosto che sulla partner ricoverata per anoressia. 

Jordan. Restava solo lui. Io e Kevin eravamo i soli a dargli filo da torcere in Florida, e mi convinsi che quello fu il suo modo per restare in vetta alla classifica.

Quella notte vide i miei occhi chiudersi all'avvicinarsi dell'alba, giusto due ore prima della Ellisveglia. Non avevo fame. Rimasi seduta a colazione a fissare il vuoto, senza toccare cibo, sotto lo sguardo da mantide del dottor Greg. In quello sguardo, c'erano infinite parole, che rimbalzavano indietro una volta scontratesi sulla cupola di rabbia e silenzio sotto cui mi ero rifugiata.

Sentii qualcuno bussare: alzai lo sguardo, notando sullo stipite della porta una donna bionda dall'eleganza raffinata con gli occhi già puntati sui miei. Non ebbi alcun dubbio che quella fosse la dottoressa di cui le ragazze mi avevano parlato. La loro descrizione coincideva esattamente con la realtà.

«Ciao Amelia. Verresti di sopra con me?». chiese in un caldo sorriso. Mi alzai, lasciando la colazione intatta, per seguirla lungo le scale, finchè si fermò sulla porta accanto a quella del dietista. Anche accanto alla sua porta vi era una targhetta personalizzata, e la lessi mentre la dottoressa cercava la chiave giusta in quel grande mazzo di ferraglia e gingilli: "Ilenia Cameron, medico psichiatra e psicoterapeuta".

Il suo ambulatorio differiva da quello del dottor Greg: una stanza leggermente più grande, con un comodo divano bianco a contrasto con le pareti beige. Quella opposta al divano, era decorata da innumerevoli di cornici che mettevano in bella vista i suoi diplomi e certificazioni. I due studi si eguagliavano solo nella piccola scrivania sulla sinistra, tenuta con lo stesso ordine maniacale. 

«Siediti pure, Amelia» mi disse invitandomi a sedere davanti a lei. Aveva una voce fatata, di quelle incantate, fatte per narrare la buonanotte ai bambini. «Sono la dottoressa Cameron, ma puoi chiamarmi Ilenia.» e si interruppe per un breve, rassicurante, sorriso. «Allora, sei mai stata in terapia?» chiese curiosa. 

«La società di Daytona ci aveva messo a disposizione un mental coach, ma non lo definirei un terapeuta. Ci ha aiutato solo a riconoscere e gestire le emozioni pre-gara.» dissi subito. Non mi dilungai in presentazioni. Da quel che avevo capito del Fairwinds, lì tutti gli operatori erano a conoscenza della vita delle pazienti. Probabilmente la Cameron era già a conoscenza anche del mio numero di scarpe.

«Certo, è un'ottima figura per voi sportivi.» confermò ticchettando le dita sulla tastiera del pc. Lei, a differenza del dottor Greg, lo sapeva usare. «Io svolgo un ruolo diverso, però. Puoi considerare questo ambiente come la stanza delle parole, ovvero uno spazio esclusivamente tuo, dove puoi sentirti libera di dirmi ogni tipo di pensiero. Credo molto nel segreto professionale che ci impone il codice deontologico, di conseguenza, da qui, non uscirà una sola parola di quello che tu sceglierai di condividere con me nella tua stanza.» mi rassicurò.  L'avrei ascoltata parlare per ore. Aveva quella voce fatata che si sarebbe perfettamente adattata nel raccontare le favole ai bambini.

«Com'è stato il tuo ingresso qui?» chiese. Non ero mai stata in terapia, ma mi sentii sicura di poterle raccontare tutto: la splendida accoglienza della mia compagna di stanza e delle altre  ragazze, la gentilezza delle infermiere, la singolarità del dottor Greg. Le raccontai di ciò che mi aveva colpito del Fairwinds, delle sue rigide regole, del pour pourrì da cui ormai ero assuefatta. Riuscii a parlare liberamente, senza remore o vergogna.

«Sono davvero felice che il tuo ingresso qui sia stato così proficuo, Amelia. So anche che, dal punto di vista alimentare, avevi iniziato ad assaggiare qualcosina in più. Come ti sei sentita?»

«Inizialmente bene..vorrei impegnarmi per stare qui il meno possibile per tornare a pattinare» cominciai a raccontare. «Ma ieri sera è successa una cosa, e da lì, se prima il cervello mi diceva di mangiare e guarire, quando mi sono seduta a tavola stamattina tutti i buoni propositi sono svaniti. Non è che non voglio mangiare, è che proprio non ce la faccio. Ho visto calorie e grassi ovunque, e lì mi sono bloccata. E ho visto il mio ritorno in pista un passetto più in là.» Dissi tutto d'un fiato. Mi sentivo al sicuro lì dentro, complice anche la delicatezza della Cameron. 

«Sai, Amelia, la guarigione è un processo lento. I nostri processi mentali non funzionano a comando. Ti vedo determinata, e sono certa che in questo l'agonismo ti abbia aiutata, ma non cercare la guarigione dall'oggi al domani, concentrati sul qui ed ora. Porteresti nella stanza quello che è successo ieri sera?»

Presi fiato, e parlai. A ruota libera, senza alcun freno, perchè sentivo che se c'era qualcuno che potesse aiutarmi ad allentare la corda che spesso stringeva il mio collo, quel qualcuno era lei. Le raccontai del duello rabbia-serenità, dell'aiuto di Ellison, e del sospetto su Jordan. La stanza era libertà e protezione.

«Hai ricevuto un duro colpo, Amelia. Immagino quanto possa averti scossa. Cosa vorresti fare a riguardo? A parte dar fuoco alle edicole.» disse in un sorriso carico di empatia.

«Vorrei chiederle il permesso di telefonare alla redazione del Florida Times, se possibile. Voglio parlare con quel giornalista, prima di parlare con Jordan.»

«Non è mio compito dirti cosa fare, ma sembra tu abbia le idee piuttosto chiare: permesso accordato, avviso l'infermiera del pomeriggio.» E lo annotò in un post-it. «Ti capitano spesso episodi come quello di ieri sera?» Domandò.

«Si, ultimamente spesso, ma mai in gara.>> Precisai. «Capitano in allenamento, quando le cose non riescono, e a casa, quando mia madre vuole controllare qualsiasi cosa. Anche a tavola, mi succede.»

La vidi battere al pc parole a me sconosciute, stuzzicando quella curiosità da sempre insita in me. Ma ben sapevo che non avrei potuto ficcanasare, così aspettai che la Cameron finisse di scrivere osservandola, concentrata, nel suo ambiente: se ne stava seduta composta sulla sedia, con la schiena dritta. Riusciva a scrivere senza guardare la tastiera, perchè i suoi occhi muovevano solo da sinistra a destra sullo schermo, mai verso il basso. Faceva solo una breve, piccola, pausa per sistemare la montatura luccicante degli occhiali sul ponte del naso e poi riprendeva veloce a scrivere.

«Mi pare di capire che la tua vita si alterni solo tra casa e palazzetto, corretto?»

Annuii. In risposta, un respiro che lasciò trasparire il suo disappunto.

«Proviamo così: chiudi gli occhi, Amelia. Fai un respiro, pensa al tuo posto felice. Suoni, odori, sapori, esperienze tattili. Vorrei che mi raccontassi una cosa che ti rende felice.» disse dolcemente.

Chiusi gli occhi. Non tardò molto ad arrivare un'immagine che suscitasse in me serenità. 

«Io. Da sola, al tramonto, nella ciclabile del lungomare vicino casa, a pattinare per chilometri e chilometri, ma senza fare salti e trottole. Solo pattinare, senza dover tenere le braccia in posizione o tirare le punte dei piedi ad ogni spinta, e senza qualcuno che mi dica cosa, come e quanto fare. Solo io, i miei pattini, e il profumo di salsedine che mi solletica le narici.» Aprii gli occhi, commossa. «Direi che è questa, per me, la felicità.»

La Cameron mi stava ascoltando con il gomito poggiato alla scrivania, e il palmo aperto a reggerle il volto. Era strana, così scomposta e con l'aria sognante.

«Se sapessi pattinare, probabilmente la mia idea di felicità sarebbe simile alla tua. Ti fa sentire libera questo, vero?»

«Non sa quanto.» dissi affranta.

«Pensa a questo. Ogni volta che senti il cuore accelerare, che il respiro si fa più corto, che la corda inizia a stringere, pensa a questo: tu, il lungomare, i pattini e il profumo di salsedine. Concentrati sul tuo posto felice, prova a lasciar fuori tutto il resto. Ok?»

«Si, ci proverò, grazie Il-» mi interruppi. «Scusi, dottoressa.»

«No no, non scusarti. Nella stanza delle parole puoi chiamarmi come ti viene naturale. La parola è il mezzo principale della terapia, devi sentirti libera. Va benissimo Ilenia.» Era magica. La Cameron, con la sua voce fatata e la sua eleganza, sapeva fare le magie. Me lo sentivo.

«Quando potrò tornare a pattinare?» Chiesi impaziente.

«Al momento, direi che le priorità che sono altre, Amelia. Concentriamoci sull'avviare un buon percorso qui, e vediamo come va. Ti prometto che, quando sarà il momento, andrai prima nel tuo posto felice, e poi, forse, in una pista vera.» disse sorridendo comprensiva.

Era sicuramente un'idea allettante, un obiettivo per me già fissato. 

«Ti ha già spiegato il dottor Greg in cosa consiste la riabilitazione psiconutrizionale progressiva?»

«Solo la parte alimentare» spiegai, «e che collaborerete.»

«Il dottor Greg si è limitato alla sua area. Per quanto mi riguarda, seguirai la psicoterapia con me, ma vorrei proporti anche qualche appuntamento con i tuoi genitori. Ti andrebbe?»

«Va bene, ma solo mia madre. Sarebbe capace di tenere la seduta al suo posto, l'avviso già.» dissi cinica.

«Oh tranquilla, saprò gestirla. E' importante che quando sarai dimessa, tu torni a casa in un ambiente più comprensivo ed accogliente, e per questo saranno necessari alcuni incontri con tua mamma.»

«E se non funzionasse? Se le sue manie di controllo vincessero sempre?»

«In tal caso, imparerai tu a non farti coinvolgere dai suoi tentativi di controllo. I nostri genitori ci hanno messo al mondo, credono di sapere cosa sia meglio per noi. E' un loro, contorto, modo di volerci bene. Non esistono genitori perfetti, Amelia, ma esistiamo noi e la nostra coscienza: siamo noi, crescendo, a decidere cosa sia meglio per noi stessi, anche se le nostre scelte possono nel tempo rivelarsi degli errori. E siamo sempre noi, a dare agli altri il potere di influenzare le nostre scelte ed emozioni. Datti tempo, fidati.» e di lei, come di Ellison, mi fidai.

«Grazie.» dissi sincera. «Grazie.»

«Per oggi abbiamo stabilito un buon piano di lavoro. Sarai stanca immagino, ci riaggiorniamo in settimana?» chiese soddisfatta. Annuii, e ci alzammo insieme. Salutai la dottoressa e scesi in camera mia a riposare un po', da sola. La prima volta nella stanza delle parole era stata tanto liberatoria quanto stancante.

A pranzo, seduta al posto assegnatomi quel giorno tra Julie e Lisa, provai a mangiare qualcosa. Pensai al mio posto felice, rilassando i nervi, e riuscii quasi a completare il pasto. Non me ne restai nella mia cupola oscurata, mi feci cullare dalle note dei Coldplay che le ragazze avevano scelto come sottofondo musicale per quel pranzo. Ed in quel momento notai come Monique, seduta davanti a me, sminuzzasse la fetta di lonza che aveva sul piatto. La tagliava in pezzi più piccoli di un'unghia, masticando pezzo per pezzo per tempi lunghissimi.

«Miss Adams.» intervenne il dottor Greg alle sue spalle, «Pezzi più grandi, per cortesia.» le disse sottovoce. 

Non avevo mai visto nessuno mangiare così, a meno che non fosse il mio piccolo cuginetto che vedevo alle feste comandate. Guardandomi intorno, tra un boccone e l'altro, mi accorsi come tante di noi, a tavola, adottassero tecniche diverse: chi separava l'olio d'oliva dalla verdura, chi aveva dei tic nervosi alla gamba, non permettendole di stare ferma, chi il cibo lo divorava a grossi bocconi...ed Ellison, che vidi aspettare il miglior momento per far scivolare dal bordo del piatto i pezzi di carne rimasti nel tovagliolo di carta opportunamente preparato. In un battibaleno, accartocciò il tovagliolo, si tamponò le labbra come se nulla fosse, e lo appoggiò vicino al piatto, pronto per essere cestinato. 

Tutte avevamo dei comportamenti disfunzionali che la malattia ci imponeva, e non sempre vincevamo noi. Il pasto, che per la maggior parte delle persone era un momento naturale e conviviale, per noi era il momento in cui i nostri corpi feriti venivano buttati in un mare infestato dagli squali. E se per alcune le ferite erano ormai rimarginate, guadagnandosi l'indifferenza del predatore, per altre quelle ferite sanguinavano ancora. Ed era guerra aperta.

«Reed, Davis. In infermeria con me. Subito.» disse severo il dottor Greg.

Io ed Ellison lo seguimmo inquiete, con la preoccupazione che camminava davanti a noi a passi decisi. La mia amica aveva l'aria di essere stata colta in fragrante, e sapeva già a cosa andasse incontro.

«Integratori, giusto dottor Greg?» chiese sicura una volta entrati in infermeria.

«Assolutamente si. Reed, ha saltato la colazione. Davis, pensavo lo avesse superato il trucchetto del tovagliolo. Sul serio lo ha rifatto?» disse in un tono severo smorzato dallo sguardo scherzoso, con un risultato decisamente angosciante. Greg ti osserva, ricordai. 

Si girò verso di noi, porgendoci due piccole bottigliette bianche con il tappo lilla con una cannuccia incartata e incollata al lato. 

«E questi per...?» chiesi.

«Ho detto che non forzo le mie pazienti a mangiare, ma non posso lasciarle senza energia. Questi sono integratori per tenervi in forza. Non dovessero bastare, ci sono i sondini ed un sacco di altri mezzi per sostentarvi, che spero non siate curiose di scoprire.»

«In pratica è alimentazione forzata» disse decisa Ellison scartando la cannuccia.

«Davis. Stia attenta a quel che dice.» la fermò alterato il dietista.

«Scusi, doc.» si pronunciò sconfitta Elly. «Cin Cin, Amelia» disse brindando allegra, e seduta al mio fianco iniziò a sorseggiare quell'intruglio alla vaniglia come se fosse il più buono dei cocktail estivi.

Scrutai la tabella nutrizionale della bottiglietta, prima di portarmi la cannuccia alle labbra. 300kcal. Cose da pazzi. Sentii il cuore iniziare a battere più forte, ma cercai di reagire.

Il lungomare. Un sorso. I miei pattini. Un sorso. La salsedine. Un sorso. La libertà, la gioia, il rumore delle ruote sul cemento, le persone spensierate, l'aria di mare tra i capelli, i bambini che giocano sulla sabbia, il suono delle onde che si infrange sulla battigia. Avevo finito l'integratore.

A piccoli passi, suggerii a me stessa.

«A piccoli passi, miss Reed. Brava.» Non usava il pc, ma sapeva leggere nel pensiero? Poco importava: avevo appena ricevuto un complimento dal dottor StrampalatoGreg.

Quel pomeriggio, più tardi, tornai in infermeria per telefonare alla redazione del Florida Times, per mettermi in contatto con George Ilinik, il giornalista. Fu una telefonata decisamente breve: «La fonte ha richiesto l'anonimato, signorina. Non posso dirle niente.»

Jordan. Avrei scommesso tutto su di lui. Ancora quattro giorni, poi sarebbe arrivata la domenica, giorno in cui l'avrei affrontato.


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