55- 𝙇𝙤𝙨𝙚 𝙮𝙤𝙪𝙧𝙨𝙚𝙡𝙛 -𝘑𝘰𝘳𝘥𝘢𝘯

Siete mai stati bombardati dalle emozioni?

Siete mai stati abbracciati dalla felicità e poi stritolati dal dolore più estremo?

Io sì.

Ero passato dal paradiso all'inferno in ventiquattro ore.

Era bastata una sola chiamata. La mia Amelia non aveva più quella voce melodiosa e allegra con cui mi aveva salutato poco tempo prima. Arrivato a casa non avevo nemmeno fatto in tempo a scendere dalla macchina che mi aveva chiamato per chiedermi di tornare al dormitorio.

Non volle dirmi nulla, ma l'avevo sentita quella voce schiacciata che faticava a esprimersi, scossa da mille tremiti.

Era successo qualcosa.

Quando tornai al Solaris Key, trovai Amelia stretta in una coperta termica, seduta nel retro di un'ambulanza con gli occhi gonfi di lacrime e lo sguardo fisso nel vuoto. La polizia entrava e usciva dal dormitorio.

A nulla valse chiamarla per nome, scuoterla, piazzarmi nel suo campo visivo sperando solo di ottenere una reazione da parte sua.

Non mi domandai nemmeno il motivo per cui fosse così catatonica, troppo preoccupato dal suo stato. Non l'avevo mai vista così, nemmeno quando aveva avuto un attacco di panico in pista.

«Jordan Davis?» Non badai nemmeno alla voce maschile che prese a chiamarmi alle spalle. Avevo bisogno che Amelia mi desse un segnale, che mi dicesse una qualsiasi cosa. Ma per quanto ci provassi lei era inamovibile.

Il cenno arrivò poco dopo. Le sue pupille saettarono verso l'ingresso dell'edificio, dove due soccorritori uscirono trasportando un lungo sacco argenteo legato a una barella.

Il cigolio delle ruote si fermò davanti a un elegante furgone nero. Funeral services, riportava il logo sul lato.

Non capivo.

«Jordan Davis?» Di nuovo quella voce.

La mano di Amelia sbucò dalla coperta, a cercare la mia. Solo lì, in quel momento, mi voltai. Un poliziotto aspettava le mie attenzioni. Se ne stava lì, imbalsamato, ad attendere con espressione indecifrabile che gli rivolgessi la parola.

«Sono io.»

Si assicurò che lo stessi fissando prima di raddrizzare le spalle e parlare. «Mi dispiace doverle comunicare che Ellison Davis è deceduta.»

Amelia mi strinse la mano, e io rifiutai quelle parole.

Non poteva essere.

Non è vero.

Le sopracciglia del poliziotto si alzarono leggermente, e gli occhi si strinsero in uno sguardo di compassione.

«Lo scenario che ci si è presentato in seguito alla chiamata effettuata da Amelia Reed non lascia dubbi sul fatto che si tratti di suicidio con un colpo di pistola alla tempia.»

Chiaro, diretto, conciso. Nessuna incertezza nello sbattermi quell'orrore in faccia, come se fosse un comunicato stampa senza alcun risvolto nella vita di una persona.

Non mi ero nemmeno accorto di come avessi preso a stringere la mano di Amelia. Cercai di trovare un appiglio in quel baratro in cui mi sentii sprofondare violentemente, concentrandomi sulle nostre mani unite e illuminate dalle intermittenze dei lampeggianti fuori sincrono della polizia e dell'ambulanza.

Ellison.

Mia sorella.

La mia migliore amica.

Morta.

Suicidata.

Trovata dalla mia Amelia.

«Jordan.» Riuscì a dirmi tra le lacrime. Mosse a malapena un dito, prima che rinsavissi e allentassi la presa. Mi attirò a sé e spinse la fronte sul mio addome, soffocando le lacrime sulla felpa.

Le mie dita percorsero i suoi capelli lisci. Le scostai alcune ciocche, seguendo la scia di piercing all'orecchio. Controllai l'ora: era da poco passata la mezzanotte. Cercavo di pensare a ogni piccola, inutile cosa, pur di non affrontare la realtà dei fatti.

«Mi dispiace.» Riprese il poliziotto. Parlava piano, scandiva le parole, come se fossi un deficiente incapace di intendere e volere. «Siamo qui a darvi tutto l'aiuto possibile.» Alle sue spalle, il personale medico stava caricando la barella nel vano posteriore del van, e due figure di spalle si tenevano strette tra loro. I miei genitori.

Con più delicatezza possibile, mi scostai da Amelia, che affossò subito la testa tra le ginocchia. «Torno subito. Okay?» Le lasciai un bacio sul capo. «Ce la fai ad aspettarmi qui?»

Lei annuì debole e io indietreggiai con dei passi esitanti e cauti, impaurito dall'idea di lasciare Amelia da sola e allo stesso tempo incapace di portarla dai miei genitori per affrontare l'ineluttabile.

Non mi resi nemmeno conto di aver attraversato il parcheggio correndo.

«Mamma. Papà.» Li richiamai con il respiro leggermente in affanno quando piombai alle loro spalle.

Mia madre restò con gli occhi fissi su quell'involucro anonimo che nascondeva il corpo senza vita di mia sorella, ma lasciò andare mio padre, che mi attirò in un abbraccio.

«Alla fine ce l'ha fatta.» Soffiò prima di crollare in un pianto disperato sulla mia spalla. Mia madre ne sentì il singulto e allungò le mani alle nostre spalle, delicata e silenziosa. Aveva gli occhi così vuoti da lasciarmi interdetto.

Alla fine ce l'ha fatta.

Incredulo, continuavo a ripetermi le parole distrutte di mio padre.

Stretto tra le braccia dei miei genitori mi sentii travolgere dal più violento dei dolori, uno di quelli così terribili e invalidanti che ti mettono voglia solo di lasciarti andare, spegnerti e sperare che tutto sia solo un brutto incubo.

Rimuginavo sugli ultimi momenti di Ellison, i suoi messaggi pieni di allegria per la nostra vittoria, le mille storie Instagram con me e Amelia, e le gif che la divertivano sempre un mondo.

L'influenza.

Ripensai a quella patetica scusa.

Aveva messo in scena il miglior spettacolo della sua vita.

Mio padre cercava di contenere i singhiozzi del pianto stringendo le labbra tra i denti, e mia madre non versò una lacrima. Aveva gli occhi vuoti, inespressivi e riluttanti ad affrontare una realtà piombata d'improvviso come la peggiore delle catastrofi.

«Io...mi dispiace. Non me ne sono accorta. Era già successo quando sono tornata.»

La voce di Amelia giunse fievole alle nostre spalle. Stretta in quella felpa sempre troppo grande per il suo esile corpo, i lunghi capelli scarmigliati e gli occhi sgorganti di sensi di colpa.

Ciondolava stanca da una gamba all'altra, timorosa di avvicinarsi a noi.

E io, io la strinsi forte. lasciandola crollare di nuovo tra le mie braccia.

«Non è colpa tua.» ripetei ad alta voce, un promemoria ben chiaro da fissare nel mio cervello in subbuglio.

Cercai di allontanare il mio dolore. Tra le braccia sentivo di avere l'unica cosa che mi restava, il mio unico appiglio in un tunnel senza uscita.

Lei era l'unica ragione per cui non potevo lasciarmi andare come avrei voluto, come sentivo di aver bisogno.

Perché potevo sentirlo sullo sterno, quel deleterio mix di rabbia e disperazione che prese ad attanagliarmi le viscere.

Non potevo crollare.

Non con lei, la prima persona a trovare mia sorella. Il ricordo del suo ritorno a casa l'avrebbe perseguitata a vita.

Amelia non volle saperne di tornare in quella stanza, e nemmeno gliel'avrei permesso.

Era visibilmente sotto shock, ma rifiutò categoricamente l'offerta di aiuto del personale medico. Ripeteva che voleva stare con me, che non voleva lasciarmi da solo, si agitava alla sola idea di andare in ospedale e si assicurava che il suo corpo fosse sempre a contatto con il mio.

Così un agente ci aiutò portando giù le sue valigie, e guidai fino a casa tenendole la mano mentre i miei genitori seguirono gli agenti.

Si trascinò nel mio appartamento, probabilmente senza nemmeno rendersi conto di essersi tolta la felpa gettandola a terra.

Mi lasciò solo per correre in bagno in preda ai conati, riversando tutto nel gabinetto.

Non appena chiusi la porta d'ingresso alle mie spalle, quel peso sullo sterno prese a gravarmi in modo atroce sul respiro, impedendomi di incamerare aria a sufficienza nei polmoni.

La realtà scalpitava per essere affrontata, terribilmente offesa dal mio rifiuto.

Ma io non volevo accettarlo. Avrei voluto resettare completamente le ultime ore, per restare sull'aereo che ci aveva riportato a Clearwater.

Seguii Amelia in bagno per aiutarla, ma vedendola star male mi resi conto che più quel peso mi opprimeva, più si faceva tangibile, meno sentivo tutto il resto.

La guardavo seduta accanto al gabinetto, ma non provavo più niente.

Avevo riconosciuto l'amore nei battiti di un cuore che acceleravano sempre un pochino in sua presenza. Spesso bastava la vicinanza al suo profumo vanigliato per sentirmi carico di vita e desideroso di un futuro che ci vedeva protagonisti.

Ma non sentivo più nient'altro che non fosse quel fardello nel petto.

Riversai il rifiuto di una verità che minacciava di farmi a pezzi solo per il desiderio di sentire almeno un po' di tutto quello che provavo per lei fino a qualche ora prima.

E lei si lasciò guidare come un fantoccio alla mercé di un burattinaio.

Tentai in ogni modo di provare qualcosa. Qualsiasi cosa. Le lacrime premevano per essere liberate, ma non ci riuscivo. Non piangevo dal giorno in cui mi ero rintanato dietro un cespuglio dopo gli scherzi dei bulli. Per la prima volta dopo dodici anni ne sentivo un bisogno spasmodico.

E nonostante provassi a sciogliere quella zavorra nel petto, per quanto volessi lasciarmi andare, io non ci riuscii.

Provai a cercare quel vivido affetto che mi legava ad Amelia. Era il sentimento più puro di sempre, doveva pur esserci. Non poteva essere sparito così in fretta.

La spogliai delicatamente, la portai con me sotto l'acqua calda e mi sistemai dietro di lei. Si perse a osservare il vapore ammassarsi sulla piastrella per poi scivolare lentamente in piccoli rigagnoli d'acqua.

Poggiai la fronte alla sua spalla, sperando di riuscire a lasciarmi andare sotto il getto del soffione.

Niente.

Lei non voleva parlare di quello che aveva visto, io...nemmeno. Non volevo saperlo, allo stesso modo in cui rifiutai di vedere il cadavere di mia sorella.

Fui io a insaponarla, come se potessi sciacquarle via dalla memoria quell'immagine.

Le districai i capelli con il balsamo che avevo preso solo per lei, provando a cercare lo stesso Jordan che prima ancora di regalarle le chiavi di casa sua aveva riempito i cassetti e la dispensa di qualsiasi cosa potesse essere necessaria alla vita in due.

Sembrava così distante, quella versione di me. Eppure, erano passati pochi giorni dal nostro appuntamento.

Le baciai le spalle fino a risalire lungo il collo, alla ricerca di una qualsiasi emozione.

Tamponai poi ogni centimetro della sua pelle liscia con un telo morbido, le asciugai i capelli con cura meticolosa, impiegando il triplo del tempo che ci metteva lei di solito.

Le intrecciai i capelli per la notte e le infilai una delle mie maglie, una di quelle che le facevo trovare ogni domenica mattina e che mi facevano girare la testa ogni volta che si sedeva al bancone della cucina. Poi, ci infilammo sotto le coperte.

Niente, non sentivo più niente. Nessun affetto.

«Mi dispiace», continuava a bofonchiare.

Non avevo più risposte per lei.

Non sapevo nemmeno se volevo restare lì.

La cullai tra le mie braccia perché sembrava che fosse l'unica cosa che la calmasse, e raccolsi le sue lacrime finché non si addormentò esausta.

Amelia e Jordan che il giorno prima erano saliti sul tetto d'America, svanirono in quella notte di luglio.

Rimasi solo con me stesso e il pensiero di una sorella che aveva scelto di togliersi la vita.

Con Ellison eravamo sempre stati discreti. Eravamo andati tutti in terapia per starle accanto. Avevamo imparato a memoria possibili comportamenti maniacali e depressivi, tipici e atipici.

Credevo di aver imparato a conoscerla. Era mia sorella, cazzo. Era cresciuta accanto a me.

Sapevo che il sesso nei bagni di Disneyland rientrava perfettamente nelle caratteristiche di un episodio maniacale.

Avrei dovuto avvertire la Cameron, ma avevo dato retta ad Amelia.

È una ragazza di diciotto anni che ha trovato qualcuno che le piace.

Aveva liquidato l'episodio così, come se fosse un nonnulla, insistendo sul fatto che le persone al giorno d'oggi facevano sesso ovunque.

Ma le altre persone non erano Ellison.

Gli altri continuavano a sminuire il disturbo bipolare con una battuta; pensavano di essere simpatici, senza rendersi conto che in realtà era una malattia ben più grave, che saltava di continuo tra emozioni contrastanti: euforia di vita e desiderio di morte.

Elly, con quell'incomodo, ci aveva vissuto davvero.

E mentre noi avevamo imparato cosa fosse davvero quella subdola malattia, lei aveva imparato a fingere, a nasconderla nel migliore dei modi.

Ci avevamo creduto tutti.

Le avevamo lasciato più libertà.

Ha imparato a conviverci, dobbiamo accompagnarla verso una vita adulta e indipendente, ripetevano i medici, senza rendersi conto che Ellison stava prendendo per il culo anche loro.

E da bravi coglioni, noi glielo avevamo permesso.

Le avevamo preso un posto nello stesso dormitorio di Amelia, speranzosi di farle vivere un'esperienza comune in mezzo a dei coetanei. Con lei vicino eravamo sicuri che sarebbe andato tutto bene. Ci avrebbe avvisato, se avesse ripreso a non mangiare o se avesse notato qualcosa di strano. Casa dei miei era esattamente a dieci minuti di autobus dai dormitori del Solaris Key.

Sembrava troppo bello per essere vero.

Continuavo a guardare Amelia dormire, seguendo quel profilo innocente rischiarato appena dalla luna. Lei, almeno, era riuscita a mettere in pausa l'incubo, rifugiandosi nel sonno.

Ma più la guardavo, più sentivo la rabbia salire.

Ero perfettamente consapevole che Ellison non era mai stata una sua responsabilità.

Una parte di me, però, non lo accettava. Sembrava che avessi un disperato bisogno di trovare un colpevole per la morte di mia sorella. Un bisogno che stava crescendo così tanto da offuscare la razionalità che era sempre stata un mio tratto distintivo.

Era colpa di Steven? L'aveva presa per il culo la prima volta che lei si legava a qualcuno e lei non aveva retto il peso dell'abbandono?

Era colpa della Cameron? La Cameron l'aveva in cura. La vedeva settimanalmente, in quella cazzo di stanza delle parole. Come aveva potuto non aver fatto il suo lavoro? Aveva sbagliato i dosaggi dei farmaci?

Amelia aveva sottovalutato quel campanello d'allarme a Disneyland. E io?

Io me ne ero accorto. Sapevo che dopo un episodio maniacale di quel tipo spesso piombava in dinamiche depressive.

Ma non aveva nessun taglio sulle braccia.

Non era dimagrita.

Non era mai sembrata assente, non aveva dato alcun segno di crisi, nemmeno dopo l'assenza di Steven.

Come cazzo era possibile che nessuno se ne fosse accorto?

Avevo sbagliato a dare retta ad Amelia?

Mi sentii pervadere dalla rabbia, nei confronti di tutti: medici, genitori, amici, Amelia... me stesso.

Avevo bisogno di allontanarmi, di fermare quel vortice soffocante che mi voleva accanito contro tutto e tutti.

Per un momento pensai di usare l'ascensore e scendere in pista, ma il solo pensiero mi faceva pensare all'inaugurazione dell'Arhena, a quando Ellison era nel pieno di una sua crisi eppure si era messa in tiro per essermi di supporto.

O, ancora, quando aveva bisogno di provare i suoi passi di danza e veniva all'Arhena per gli specchi e la sbarra che aveva comprato per sé stessa. Si era impuntata per lasciarla in pista, sperando fosse di aiuto anche agli atleti agonisti.

Avevo pensato a un mucchio di posti in cui poter andare, ma la verità è che quando qualcuno cui sei legato da tutta la vita se ne va per sempre, continui a rivederlo in ogni luogo, in ogni gesto, in ogni pensiero.

Mi sembrava tutto troppo stretto e logorante per me.

Mi alzai più piano possibile, abbandonando Amelia, spinto da un bisogno viscerale che provai ad allontanare con un'altra, inutile, doccia.

Senza il minimo rumore, recuperai una valigia e ci infilai quanti più vestiti possibili. Una volta chiusa, la portai di peso all'ingresso in modo che lo scorrere delle ruote non la svegliasse.

Lasciai solo un biglietto per Amelia, poi recuperai la borsa dei pattini e me ne andai.

Non avevo nessuna destinazione. Non sapevo dove andare. Percorsi le strade notturne di Clearwater, imboccai l'autostrada e vagai senza meta per tutta la notte senza riuscire a scacciare i pensieri.

Alle prime luci dell'alba il telefono prese a squillare a non finire: le chiamate di Amelia e dei miei genitori continuavano ad occupare lo schermo. Ignorai l'anteprima dei loro pedanti messaggi, e non risposi. Mi sentii soffocare al pensiero di non voler sentire nessuno per paura di esplodere.

Fermai la macchina nel primo locale trasandato aperto ventiquattrore su ventiquattro che trovai lungo la strada. Non sapevo nemmeno dove fossi, guidare non mi era più né d'aiuto né di sfogo.

Avevo bisogno d'altro, un qualcosa che avevo sempre considerato da deboli.

E una volta sedutomi al bancone, al vecchio gestore importò solo che non fossi un delinquente in fuga.

Lasciai che il primo bicchiere di vodka mi bruciasse in gola, e sorso dopo sorso mi beai della sensazione che dava la sua lenta discesa nel mio stomaco.

Ne ordinai un altro.

Un altro ancora.

E quando non sentii più nemmeno il bruciore, finalmente quel macigno nel petto si alleggerì e riuscii a spegnere i pensieri.

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«Ragazzo.» Una mano mi schiaffeggiò finché non mi svegliai. Il proprietario del locale svettava su di me, con le braccia conserte accanto al tavolo in cui mi ero appartato.

«È la seconda notte di fila che passi qui.» Continuò seccato mentre un gran mal di testa prese il sopravvento, «hai intenzione di passare un'altra giornata da solo al mio bancone?»

Sapere che avevo passato due giorni a bere in un bar squallido avrebbe dovuto suscitare una qualsiasi reazione. Invece, niente. «Ti pago per darmi da bere.»

«E cazzo se mi piacciono i tuoi soldi. Ma al terzo giorno mi fai pena. Che c'è, hai perso il lavoro? Hai fatto qualcosa di losco? Pene d'amore di voi giovani?»

Mia sorella si è suicidata, stronzo. Faceva male il solo pensiero, e mi morsi la lingua.

Il rumore della bottiglietta d'acqua che sbatté accanto a me fece eco nel locale ancora deserto.

«Hai tempo un'ora andartene e portare la tua macchina costosa lontano da qui. Poi chiamo la polizia.»

Non aspettò nemmeno una risposta. Tornò dietro il bancone a pulire, certo che il tono severo e la minaccia avrebbero fatto il suo lavoro. 

Di bar ne avrei trovati altri mille. Volevo solo zittire il dolore senza rotture esterne. Lasciai qualche banconota sul tavolo e andai a sedermi in macchina. Con le mani stropicciai gli occhi e strinsi i capelli in un pugno, bisognoso di capire cosa fare della mia vita.

La continua vibrazione del telefono mi impediva di pensare, e mi decisi ad aprire la chat con mio padre per leggere solo l'ultimo messaggio.

Papà: La veglia per tua sorella è domani alle 14.30. Presentati.

Non volevo tornare a Clearwater per restare, non sarei riuscito a stare lì e continuare a vivere come se niente fosse successo. Non sapevo nemmeno dove andare. Ma non ci pensai due volte a partire alla volta di casa. Almeno un ultimo saluto, a mia sorella, lo dovevo.

Impostai il navigatore e mi scoprii a due ore dalla casa funeraria, incurante dei postumi della sbornia.

Se non avessi schiacciato a fondo l'acceleratore, non sarei mai arrivato in tempo.

Nonostante tutto, avevo bisogno di restare vicino a mia sorella ancora una volta. Ascoltare quello che i pochi amici avevano da dire su di lei, ricordare la sua simpatia e il suo altruismo, sapere quanto fosse ben voluta.

Arrivato al parcheggio della casa funeraria, lo trovai già pieno di auto, e una nutrita folla di persone in abiti scuri si era radunata fuori dalla porta d'ingresso adornata di fiori.

Cercai Amelia tra loro, senza vederla. Un po' sperai che dopo lo shock iniziale riuscissi a sentire qualsiasi cosa che non fosse lo stomaco rovesciato dai fiumi di alcool bevuti in quei giorni. Mi sentivo una merda a volerla solo vedere da distante.

Riconobbi solo le macchine del Fairwinds nel parcheggio, e alcune ragazze della scuola di danza.

Sapevo che Ellison aveva pochi amici, e tutto il resto delle persone erano probabilmente i classici turisti dell'orrore, venuti a ficcare il naso perché attirati dallo scalpore che una diciottenne aveva fatto puntandosi una pistola alla tempia.

Decisi di aspettare il più possibile, perché non avevo voglia di ricevere strette di mano e condoglianze dettate dalla proforma e non dal sentimento.

Mi incamminai verso l'entrata senza dare nell'occhio, ma una volta avvicinato vidi una persona che cercava di nascondersi in ogni modo. Se ne stava appoggiata alla parete in tutta la sua altezza, con il cappuccio a coprirgli la testa a torturarsi le pellicine delle mani con i denti.

Chi ha qualcosa da nascondere avverte sempre la necessità di guardarsi intorno, discreto, per avere conferma di non avere le attenzioni di tutti addosso.

E mi bastò aspettare che lo stronzo che ritenevo un amico si accorgesse di me.

Steven Miller, alla fine, il tempo per Ellison lo aveva trovato.

Troppo tardi.

Buon lunedì! 💜

Scusate ancora per l'assenza, sono state settimane davvero piene!

Ve l'aspettavate questa reazione da Jordan?

Ne parliamo questa sera nel box domande nel mio profilo instagram, vi aspetto dalle 18.30! (memo ig: amelieqbooks)

 A più tardi 💜

Ps. Se non l'avete ancora fatto, vi ricordo di lasciarmi una stellina! Può sembrare una cosa da nulla, ma sono davvero importanti per noi autrici ⭐

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