45- 𝙉𝙚𝙫𝙚𝙧 𝙚𝙣𝙤𝙪𝙜𝙝 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
Una stellina me la lasciate prima di iniziare?
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Tre ore e svariate fermate più tardi, quando la luna iniziava la sua risalita nel cielo, arrivai a Clearwater. Titubante mi avviai verso la Lakeside Villa, il complesso residenziale dove speravo avrei trovato posto per la notte.
Avevo bisogno di qualche ora da sola per cercare di schiarirmi le idee. Il giorno dopo mi sarei scusata con Martina per la fuga improvvisa, ma ero indecisa su cosa e quanto raccontare a Elly. Non volevo metterla nelle condizioni di scegliere tra il fratello e l'amica, anche perché dentro di me conoscevo già la risposta.
Riuscii a entrare indisturbata nella proprietà, oltrepassando studenti e atleti che non sembrarono per nulla sorpresi di vedere una ragazza con un trolley attraversare il vialetto in terra battuta che terminava dinanzi all'ingresso del dormitorio in legno verniciato di ciano.
Passarono pochi secondi prima che un ragazzo già visto in palestra da Jordan mi aprisse la porta. Sperai che nessuno mi avesse riconosciuta.
«E tu sei qui per?»
«Xavier.»
Alle sue spalle fece capolino il biondo, con il suo solito sorriso che si spense non appena vide le mie condizioni.
«Beh, nei miei sogni non bussavi alla mia porta presa così male.»
Riuscii a malapena ad accennare un sorriso. «Posso dormire sul vostro divano, solo per stanotte?»
Se fossi tornata da Ellison, sarebbe passato poco tempo prima che Jordan venisse da noi. Non volevo vederlo.
Quasi mi rise in faccia, al sentire la domanda. «Pensi di dormire da sola nel salotto di una casa piena di giocatori di football?»
Spalancò la porta per lasciarmi entrare nell'enorme zona giorno che aveva una TV più grande ancora di quella del Fairwinds, adornata da mensole con ogni tipo di consolle per videogame e una serie di pouf colorati al posto dei divani.
«Non credo alle dicerie dei giocatori in preda agli ormoni.»
«Piccola, ingenua, Reed...dormi in camera mia.» Un fremito mi scosse a quel nomignolo.
«Non ci dormo con te.»
«Il fatto che dormi in camera mia non implica che dormirò con te.»
Xavier afferrò il mio trolley e si incamminò facendomi strada verso le scale che portavano al piano superiore. Capitava ancora che, a volte, sganciasse qualcuna delle sue battute sardoniche, ma si era sempre limitato a quello. Era un buon amico, e avevo la totale certezza che non avrebbe mai detto a nessuno che mi ero presentata lì alle porte della notte. In più, ero sicura che il suo costante buon umore mi avrebbe distratta.
«Ma è vero che ti chiamano corriera?»
Si fermò per un solo secondo di riflessione nel corridoio del secondo piano. «Forse è meglio che ti cambi le lenzuola.»
Non potei che ridere al suo sguardo colpevole. «Grazie.»
Lo seguii nella sua camera tanto spaziosa quando disordinata, che vedeva calzini, divise e protezioni da football sparpagliate alla buona sopra la scrivania, a nascondere i libri immacolati del college.
«Litigato con Jordan?»
«No.» Litigare avrebbe voluto dire che ci avevo parlato, e non ero pronta. Avevo bisogno di tempo in solitaria.
«Hai cenato?»
«Sì.» Mentii. La verità era che quando tutto sfuggiva al mio controllo, io lo cercavo sull'unica cosa che dipendeva da me: mangiare tutto, o non mangiare niente. Non volevo saperne nemmeno della vocina che mi diceva quanto stessi sbagliando a voler saltare il pasto.
«Okay, allora: il bagno è lì.» Disse indicando la porta vicino al televisore. «Dentro trovi asciugamani puliti e spazzolini nuovi. L'unica cosa che non ho è il bagnoschiuma da femmina.»
«No problem.»
«Vuoi parlare di quello che è successo?» domandò mentre sostituiva con lenzuola pulite quelle tutte stropicciate e, probabilmente, sporche di chissà cosa. «Non ti ho mai vista così.»
Scossi la testa in segno diniego, poi, Xavier se ne andò portando tra le braccia il grosso mucchio di biancheria sporca, raccomandandosi che per qualsiasi cosa l'avrei trovato nel gazebo sul retro.
Chiusi la porta a chiave e mi fiondai sotto il getto dell'acqua bollente, sperando mi aiutasse a fare chiarezza.
Ogni passo fatto insieme a Jordan mi aveva riempito il petto di vita, rivelando emozioni cristalline che mi avevano portata all'assuefazione più potente.
Era stato il migliore degli azzardi, quel rischio inconscio che mi aveva accompagnato nella scalata verso la vetta illusoria del sentimento più forte.
Ma ogni rischio porta sempre con sé delle conseguenze celate dai brividi e l'adrenalina delle nuove scoperte.
La mia personalissima conseguenza era stata una bugia dagli occhi color miele che mi aveva spinta giù dal precipizio, un salto nel vuoto che crepò il mio cuore acerbo d'esperienza.
Alla vetta non ero nemmeno arrivata.
Pensavo che l'amore fosse quel tumulto prorompente al centro del petto, lo sciabordio euforico di ali di farfalle che fremevano alla ricerca di uno squarcio per gridare al mondo quanto il sentimento per eccellenza fosse puro e travolgente.
Ma non ero mai stata abbastanza tranquilla per godere di quel tumulto.
Troppo occupata a controllare quei battiti per viverli a pieno.
Troppo occupata a pensare agli obiettivi a otto ruote per volerne di più.
Ancora troppo chiusa in me per ammettere una sola verità.
E sotto la doccia, quando lo sfarfallio era ormai annegato nel veleno delle menzogne, mi resi conto del significato di quel vuoto improvviso che mi aveva assalito:
ero innamorata di Jordan Davis.
Solo l'amore poteva fare quel male atroce, lasciandoti schiacciata sotto un enorme macigno corroso da lacrime salate.
Restai sotto la doccia più del dovuto, sperando che l'acqua cancellasse quel profumo pungente dello shampoo all'eucalipto e limone di Xavier. Ormai, ero troppo assuefatta dal bergamotto per tollerare altri profumi.
Nel giro di poche ore ero passata dall'assaporare quel senso di potenza che solo il palcoscenico della pista e il calore del pubblico sapevano dare, al buio delirio della delusione.
Non avevo mai tollerato le bugie.
Lo avevo imparato dai miei genitori, quando le amanti di mio padre in famiglia si chiamavano "convegni politici" e "riunioni".
Non puoi dare fiducia a chi mente, mi aveva detto mia madre il giorno in cui il senatore David Reed venne sbattuto fuori di casa con i suoi soldi e le sue camicie inamidate mentre io altro non ero che una bambina troppo piccola per capire quella situazione.
Ero cresciuta fermamente convinta di quell'ideale, soprattutto vedendo mia madre coerente con se stessa nel lavorare così tanto per mantenere la sua indipendenza senza far mancare nulla a me.
Era decisamente troppo tagliente nelle parole e forse ottusa nei pensieri, ma almeno avevo la certezza che fosse sempre dalla parte del vero.
Avevo capito che era meglio restare soli, piuttosto che vivere contornati da persone false. Anche se quelle erano sangue del tuo sangue. Alla fine, eravamo esseri umani completi anche senza nessuno accanto.
Me lo aveva dimostrato mio padre in persona, quando venne a trovarmi sempre meno negli anni, rompendo la promessa di restarmi accanto malgrado il divorzio. Era riuscito addirittura a sparire del tutto dalla mia vita.
Testarda com'ero, lo avevo affrontato quando a dodici anni le liti con una madre che mi organizzava la vita si erano fatte insostenibili, ricevendo in cambio la risposta che mi fece capire che la sincerità era il valore più importante del mondo, perché aveva il potere di aprirti gli occhi sulle persone.
«Vengo a vivere con te, papà.»
«Bisogna vedere se io ti voglio.» Lo disse con un'aria di sufficienza e menefreghismo che uccise l'Amelia vivace.
Non ero mai abbastanza.
Come figlia, come atleta, come persona.
Qualsiasi cosa facessi, non ero mai abbastanza.
Quel giorno, come un fulmine a ciel sereno, nacque l'Amelia soldatino silente che pur di essere accettata dalla madre avrebbe fatto di tutto. D'altronde, era l'unica figura adulta che mi restava.
Alla fine, dentro di me, ringraziai mio padre, per avermi donato solo il colore degli occhi e l'esempio da non seguire.
Uscii da quella doccia infinita e mi asciugai i capelli alla buona. Nel cellulare trovai qualche decina di messaggi da parte di Jordan, e non aprii nemmeno la nostra chat per non far comparire la spunta blu. Aprii solo la chat con Ellison:
E: Che fine hai fatto?
A: Problemi con jordan. Non sono tornata al nostro appartamento perché sicuramente verrebbe lì.
E: Infatti è qui.
A: Vedi? Ho fatto bene.
E: Posso aiutarti in qualche modo?
A: No. È tuo fratello. Non voglio metterti in mezzo.
E: Dicci solo che sei al sicuro.
A: Sì. Ho solo bisogno di tempo.
Cercai di spazzolare i capelli, lasciandoli asciugare all'aria. Poi, il telefono squillò di nuovo.
E: Puoi tornare qui domani. Mi ha promesso di lasciarti stare finché non gli vorrai parlare.
Non so cosa avessi fatto per meritare un'amica così. Mi infilai la tuta, anche se era quella usata per andare in gara, e decisi di scendere in cucina a cercare qualcosa per cena. Non potevo permettermi di ricadere in dinamiche disfunzionali al primo ostacolo trovato all'uscita dal Fairwinds. Dopo tutta la fatica che avevo fatto per stare bene, non me lo meritavo. La nuova Amelia non reagiva più in quel modo, così affrontai quel bisogno di digiuno che mi era preso poco prima.
Recuperai dal frigorifero una confezione di affettato e del pane dalla dispensa, e mi sedetti al tavolo di quella cucina deserta. Era domenica sera e per fortuna erano tutti fuori in giardino. Potevo sentirli scherzare dalla cucina.
Decisi che, a testa alta, sarei andata avanti nella mia vita, anche se questo avrebbe significato perdere Jordan fuori dalla pista. A diciotto anni sarei stata perfettamente in grado di continuare ad allenarmi con lui. Volevo il mondiale, giusto? Senza Jordan non ci sarei mai arrivata.
Quanto all'amore, ero certa che mi sarebbe passata.
Saldamente ancorata a quella convinzione, il giorno dopo mi presentai in pista per l'allenamento in perfetto orario. Non entrai all'Arhena né un minuto prima, altrimenti avrei dovuto rivolgere la parola a Jordan, né un minuto dopo. Puntuale come un orologio svizzero, per mantenere la mia disciplina.
Martina mi chiese semplicemente se andasse tutto bene e, alla mia risposta affermativa, non si ostinò a ricercare la motivazione che il giorno prima mi aveva spinto a tornare a Clearwater da sola.
«Possiamo parlare?» Mi si affiancò Jordan nella corsa di riscaldamento.
«No, dobbiamo allenarci.»
«Mi puoi spiegare cos'è successo?»
«Separare il lavoro in pista da quel che c'era fuori, no? L'hai proposto tu stesso.»
E tu mi hai pure baciata davanti a tutti, alla gara.
«Parli al passato, adesso?»
«Ieri sera non hai promesso a Elly di rispettare i miei tempi?» corsi via, lasciandolo indietro, quando la collera aveva cominciato a ribollire nelle vene.
In quell'allenamento trasformai tutta la rabbia in concentrazione.
Era in momenti come quello che mi ricordavo quanto quella passione, quella continua ricerca del controllo in ogni posizione, fosse uno sfogo che mi permetteva di isolarmi completamente da qualsiasi problema potessi avere.
Staccai i miei salti tripli come se non avessi mai smesso di farli: veloci, alti, senza sbavature in uscita.
Jordan, al contrario, sembrava non essere più in grado di farli. Non lo avevo mai visto cadere così tanto. Si arrabbiava, imprecava, sbatteva con violenza i pattini a terra e credetti che di lì a poco sarebbe riuscito addirittura a rompere le parti in titanio del telaio.
Martina, all'ennesimo sbaglio, lo mandò via dalla sua stessa pista. La sentii dirgli, con il suo tono calmo, che in giornate come quella era meglio non fare niente, pena il serio rischio infortuni.
Non riuscii a dispiacermene. Avrebbe potuto dirmi la verità sin da subito.
Quando finii il mio allenamento in solitaria e passai per la palestra, Jordan stava seguendo un cliente, e fui sollevata che non interruppe il suo lavoro per rincorrermi. Arrivai alla fermata dell'autobus e tornai al mio dormitorio.
In quella settimana, rimasi focalizzata sul come investire le mie energie: lezioni, allenamenti, studio. Prendevo appunti di continuo, mi impegnavo ogni giorno in pista e la sera studiavo come una forsennata con l'aiuto di Elly, che non aveva più toccato il tasto Jordan. Semplicemente, eravamo di sostegno l'una per l'altra, anche se fu lei a proporre il gioco a freccette con suo fratello e Steven come bersagli.
Rigore, disciplina, costanza. Era questo l'importante, no?
Ogni giorno che passava, però, era sempre più difficile stare vicino a Jordan. Riuscivo a pattinarci insieme, ma non riuscivo a guardarlo negli occhi. Ci allenavamo sotto lo sguardo attento di sua madre, e lui non aveva più avuto giornate terribili come il primo giorno dopo la gara.
Facevo sempre più fatica ad allontanare quella parte di me che provava nostalgia logorante per le nostre chiacchierate, la morbidezza dei suoi baci, le sue mani sapienti. Mi beavo del suo profumo durante quelle ore, lo salutavo per quieto vivere ma continuavo a non voler affrontare l'argomento di quei maledetti articoli di giornale.
Aveva tradito la mia fiducia, seminando in me il terrore di ritrovarmi in un futuro come mia madre. Anche lei aveva iniziato dal perdono della prima bugia smascherata. Non volevo il suo stesso destino.
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Il venerdì, alla fine della lezione di sociologia, pregustavo già l'aria del weekend che avrei sicuramente passato tra qualche nuovo libro e tanto, tanto dormire.
«Hai ancora questa faccia da funerale?» Fuori dall'aula trovai Xavier ad aspettarmi. Durante tutta la settimana, quando poteva, mi accompagnava alle lezioni anche se il tempo era sempre quello per un saluto veloce.
«Sono nata così, che ci vuoi fare.»
«Vieni a bere una cosa con me stasera?»
Lo guardai storto un po' preoccupata che, sapendo che mi ero allontanata da Jordan, ricominciasse a provarci come quando l'avevo conosciuto.
«Solo come amici, lo giuro.» Disegnò una croce sul cuore leggendomi nel pensiero. «È solo la mia sfida personale a farti ridere.»
«Io vorrei andare a dormire stasera.»
«Perfetto, otto e mezza sono da te, nonna. Ti porto fuori anche se sei in pigiama, ti avverto.»
Se ne andò senza darmi la possibilità di rispondere, e me ne restai bloccata nel corridoio del college indecisa sul da farsi.
Alla fine, un po' di svago dopo quella settimana impegnativa, me lo meritavo anche io. Mentre mi cambiavo, Ellison si era raccomandata di tenere mani e lingua al proprio posto durante l'uscita con Xavier.
Così, all'orario prestabilito mi presentai nel parcheggio con un vestitino preso in prestito, al solito, dal suo armadio e le converse bianche che mi ero comprata da poco.
Salii nella macchina di Xavier, una di quelle sportive così basse che sembrava di sedersi a terra. L'unico mio volere fu quello di non andare né al Wave né al Sandpearl, perché sapevo che quelli erano i locali frequentati da Jordan.
Scelse di proposito il bar più trasandato della Mandalay Avenue, un luogo dalle pareti rivestite con poster vintage, luci soffuse e birra spillata come se non ci fosse un domani. Ci accolsero gli odori poco invitanti di alcool e sudore.
Ci accomodammo in un tavolino vicino al bancone appiccicaticcio dopo aver ordinato birra e Coca-cola, e non appena mi sedetti mi accorsi che la confusione di quel locale era dovuta al torneo di biliardo alle mie spalle e all'addio al celibato davanti a noi.
«Quindi, devo solo farti ridere. Sfida delle figure di merda?»
«Andata, inizia tu.»
«La scorsa settimana ho dato il buongiorno alla ragazza che ha dormito con me chiamandola con il nome della mia ex.»
«Così tanto da te che non fa ridere. Ritenta.»
«Il primo giorno delle scuole medie sono inciampato all'ingresso della scuola e sono caduto davanti a tutti.»
Strinsi le labbra tra i denti, anche se per quella figura un po' mi dispiaceva.
«Ce l'ho quasi fatta! Tocca a te.»
«A una premiazione sono caduta dal primo gradino del podio. Ero in piedi, ferma, dovevo scendere con la coppa in mano e il pattino è slittato. Hanno riso tutti. Vale?» Mi rallegrò quel ricordo, anche se parlandone un po' mi vergognai.
«Fortuna che avevi già fatto la gara, altrimenti ti avrebbero tolto anche la possibilità di pattinare ancora. Senti questa», si prese un attimo per sorseggiare la sua birra, «ho lasciato la Spagna da due anni, e arrivato qui non parlavo benissimo l'inglese. La prima volta che sono andato al bar con i documenti falsi, ho provato a fare il figo con la barista più gnocca che avessi mai visto. So che impazzite per l'accento ispanico e-»
«No.»
«Tu sei a parte, Reed. Le altre sì. Comunque, quando mi ha chiesto "cosa vuoi" io l'ho letteralmente scopata con gli occhi e ho risposto in spagnolo "ginebra", che per voi è il gin. Il problema è che lei si chiamava Ginevra, ed era la figlia del titolare.»
Lo raccontò gesticolando con le mani mentre accompagnava le parole a delle espressioni facciali che mi fecero scoppiare a ridere per la prima volta in quella settimana.
«Con la confusione, hanno pensato stessi ordinando la barista stessa, e sono stato buttato fuori dal padre.»
Risi più del dovuto, perché alla fine le risate alleggerivano sempre i problemi e io ne avevo bisogno. Asciugai gli occhi umidi di spensieratezza e agganciai i capelli dietro l'orecchio prima di alzarmi per andare al bagno.
Fu mentre cercavo l'indicazione con i due disegnini stilizzati nel marasma di quel posto, che lo vidi: Jordan era appoggiato al bancone, con un bicchiere in mano e il corpo rivolto del tutto verso il nostro tavolo.
Inespressivo, quasi glaciale, e così rigido nella postura che stentai a riconoscerlo.
Quando incrociai il suo sguardo affilato, poggiò il bicchiere ancora pieno e venne verso di noi.
Buongiorno 💜
Chiedo già scusa per la foto, ne ho fatte a centinaia in questa settimana, provando a inserire Jordan alle loro spalle. Risultato: vi ricordate Paolini, il disturbatore dei servizi al tg5?
Ecco, U G U A L E!
Detto questo, negli spazi autrice dei capitoli in cui c'è tanto di personale, non so mai cosa scrivere. Quindi, vi aspetto su ig per commentare insieme il capitolo 💜
A presto!!
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