37- 𝙎𝙞𝙜𝙣 𝙤𝙛 𝙩𝙝𝙚 𝙩𝙞𝙢𝙚𝙨 -𝘑𝘰𝘳𝘥𝘢𝘯
Un Pan di stelle per iniziare al meglio questo lunedì
e per ricordarvi di lasciarmi una stellina prima di iniziare questo capitolo! ⭐
Buona lettura!
Non ero mai riuscito a raccontare quello che avevo passato. A nessuno. Mi arrabbiavo con qualsiasi persona facesse domande intromettendosi nel mio passato.
Eludevo qualsiasi domanda mi venisse fatta a proposito di quel giorno e, se all'inizio cercavo di essere educato, dopo anni avevo iniziato a rispondere male a tutti, indipendentemente da chi mi trovassi davanti, per stroncare qualsiasi curiosità sul nascere. Era capitato anche con Amelia. Tutti, all'Academy, sapevano quel che era successo ma nessuno sapeva i dettagli.
«Ne sei proprio convinta?» Non era tanto lei a dover essere sicura di voler sapere il mio passato, quanto io a essere pronto ad aprirmi con qualcuno che non dovesse tener fede al segreto professionale.
«Sì.»
Chiedeva la verità.
Clearwater, Dodici anni prima
Mi avevano assicurato che alle medie sarebbe andata meglio.
Ma ho imparato a tacere, in classe.
So le risposte, ma non le dico più ad alta voce.
Ho tante domande da fare all'insegnante, ma non gliele faccio mai, o almeno non di fronte agli altri.
Ascolto quello che mi interessa, imparo. Devo farmi andar bene la situazione, così com'è.
Me ne sono stato da solo per tutta la ricreazione, sperando di non essere visto. Ho imparato che se non mi vedono, loro non mi fanno niente. Solo che mentre sono con tutta la scuola a ridosso delle porte d'uscita aspettando che suoni la campanella, tutta la classe terza inizia a ridere, capitanata da Lewis. Quella è la stessa classe di ragazzi di due anni più grandi che qualche ora fa mi ha ospitato per le lezioni avanzate di matematica e scienze. Si divertono a prendersela con i più piccoli e stanno tutti ridendo incontenibili, indicando me.
Puntano proprio me. Guardano me. Ridono di me.
Non cambia niente, io non posso dire niente. Mi è già capitato, negli anni scorsi, di fare il grosso errore di chiedere aiuto ai piani alti. Ma loro venivano sgridati con una semplice nota e io qualche giorno dopo finivo puntualmente con la testa nel gabinetto.
Devi stare zitto, Jordan.
Mi guardo intorno per capire cosa mi hanno fatto stavolta. Ripasso nervoso la cucitura in fondo alla maglia ancora candida, cercando di controllare se anche stavolta mi è stata tagliata, ma i miei vestiti sono ancora perfetti. Anche le Nike appena uscite che mi sono fatto regalare non hanno segni strani.
Mi controllo ma è tutto a posto. Sono pulito. Non sento i soliti bigliettini con insulti stupidi attaccati alla schiena, me ne sarei accorto mettendo lo zaino. Ma loro continuano a ridere, e mi tolgo subito lo zaino, per cercare di capire da solo cosa mi hanno fatto questa volta.
Quando lo zaino si rovescia a terra, scoppiano a ridere anche i compagni di classe dietro di me. Abbasso lo sguardo e vedo perché si divertono così tanto.
Oggi hanno deciso di attaccare un assorbente femminile al mio zaino.
Lo hanno anche scarabocchiato con il pennarello rosso.
Ho paura ad alzare lo sguardo mentre mi sento le guance prendere fuoco. Continuo a fissare il pavimento, seguo le fughe delle piastrelle mentre dentro di me implodo. Vorrei sparire, vorrei essere invisibile.
Le insegnanti arrivano e lo staccano subito: una di loro lo alza sbraitando, di fronte a tutta la scuola. «Fuori il colpevole. Immediatamente.»
Perfetto. Così chi ancora non se n'è accorto, si aggiunge alle risate che riprendono senza sosta. Mi assordano a tal punto che vorrei scavarmi una fossa e sotterrarmi per non sentirli. Non ho mai odiato tanto un suono.
«Non preoccuparti, Jordan.» Mi accarezza il capo l'altra l'insegnante. «Prenderemo provvedimenti.»
Lo so che ho una neurodiversità che agli altri non piace. La chiamano plusdotazione cognitiva, un cervello che viaggia sei volte più velocemente rispetto a chi ha un quoziente intellettivo sotto i centotrenta sulla scala Wechsler. Siamo solo in due così, in una scuola con centinaia di iscritti, ma io sono l'unico maschio che pattina.
Ci chiamano geni, ma siamo bambini normali.
Non capiscono che abbiamo anche noi delle difficoltà. Una cascata di pensieri e ragionamenti che confluiscono a tutta forza in un imbuto stretto: pensiero arborescente, lo chiamano i dottori.
Quante volte hanno provato a parlargli. Quante volte li hanno puniti. Il risultato è che si sono fatti sempre più furbi, e a me non è rimasto che farmi sempre più piccolo.
"Vai a fare la spia dalle insegnanti e ti ammazziamo."
Devo solo stare zitto.
Suona la campanella e pieno di vergogna seguo gli altri fino all'uscita, velocizzo il passo fino alla mia bicicletta. Sento le lacrime arrivare prepotenti, ma non posso permettermi di piangere. So che se mi vedono così, si accaniscono ancora di più. Scappo via, mentre loro salgono sul pullman, e una volta solo mi rifugio dietro un cespuglio a metà strada tra la scuola e casa mia. E piango. Ho solo bisogno di cinque minuti per sfogare la rabbia.
Due respiri profondi, mi asciugo le lacrime e torno a casa come se niente fosse successo. I miei genitori sclerano ogni giorno per mia sorella, che ne combina una dietro l'altra. Non mi ci posso aggiungere anche io. Le sei ore di scuola sono finite, ho ancora il resto della giornata per essere solo Jordan.
Posso sempre pattinare. I pattini restano sempre la mia salvezza, sormontano tutto il resto.
A casa trovo il sorriso smagliante di mia sorella, che mi fa dimenticare tutta la merda che subisco ogni giorno a scuola. Mangio qualcosa al volo, e non appena arriva la baby sitter di Elly, posso salire in auto con mia madre per rintanarmi qualche ora in pista a fare quello che mi riesce meglio.
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«Potete andare a casa, allenamento finito!»
«Posso restare ancora qui, Martina?» Domando timido a mia madre mentre le mie compagne scappano a cercare riparo all'ombra. Ha sempre preteso che la chiamassi per nome in pista. Dice che resto sempre suo figlio, ma quando indosso i pattini sono un atleta come tutti gli altri.
«Certo, a che ora dico a papà di venirti a prendere?» Mi domanda senza che i miei compagni di allenamento sentano.
«Facciamo alle sei?» Sono già stremato in realtà, il sole della Florida nel pieno dell'estate mi sfianca.
Ma i campionati nazionali sono alle porte, e voglio di nuovo l'oro in singolo. La gara di coppia artistico invece non mi preoccupa, perché tanto io e Chloe sappiamo già di essere gli unici iscritti. Possiamo anche pulire la pista con il culo che tanto abbiamo il titolo in tasca ancora prima di partire.
«Ok, lo avviso. Mi raccomando, non allenarti troppo.»
Figurati.
Quando se ne va, inizia il mio divertimento. Corro, spingo più veloce che posso e provo la combinazione di salti che voglio portare nello short program a tutti i costi, anche se non mi riesce ancora così bene da poter essere inserita nel disco di gara: doppio Axel-doppio Rit-doppio Rit.
Serve una precisione millimetrica all'arrivo di ogni salto per poter attaccare il successivo, ma la difficoltà nell'attaccare il doppio Rit è che va bloccato l'automatismo all'uscita del salto: il trucco sta nell'essere bravi a fermare in avanti la gamba e il braccio sinistri all'atterraggio, perché quella è la posizione necessaria per staccare il doppio Rit, un salto in cui si parte e si arriva sul piede destro dopo aver completato due giri in aria.
Alle volte mi riesce, ma spesso mi sfracello a terra. La mia allenatrice mi ha insegnato a capire dove sbaglio in base a come cado. Se mi schianto sul fianco sinistro, vuol dire che in fase di stacco ho anticipato troppo la rotazione con le spalle.
Concentrarmi su ogni singola posizione, mi aiuta a non pensare al resto.
Esausto e con troppo formicolio ai muscoli per continuare a saltare, mi fermo un po' a bere nell'angolo della pista. Il cemento scotta troppo, la balaustra in ferro è così calda che sono convinto che a breve si sciolga, così mi siedo sopra la borsa dei pattini e l'acqua, anziché berla, me la rovescio addosso, sperando di rinfrescarmi ancora un po'.
«Ehi, femminuccia, ti è arrivato il ciclo?» fa una voce alle mie spalle. Non mi volto nemmeno, riconosco la voce di Lewis, quello che sicuramente ha organizzato lo scherzo del mattino.
Decido di ignorarlo, nella speranza che se ne vada il prima possibile.
«Hai dodici anni ormai piccolina, è giunta l'ora di diventare grandi.» Questa, invece, è una voce nuova.
Sento dei passi in veloce avvicinamento, e mi volto perché c'è troppo rumore perché siano solo due persone. Quando lo faccio, però, è tardi. Lewis passa attraverso la balaustra alla mia sinistra, mentre qualcun altro sta entrando in pista alla mia destra.
Sono grossi. Troppo, per me che sono ancora mingherlino.
Scatto in piedi con le forze che mi restano, pensando a come scappare. Ma ormai mi hanno accerchiato. Sono in quattro. Due di loro giocherellano con una mazza da baseball.
Sono qui per me.
«Non vi ho fatto niente.» Mi accorgo che mi trema la voce, perché ho paura. E loro la fiutano subito.
«No, figurati. Ci fai solo fare delle figure di merda in classe. E anche casa, visto che mia madre non fa altro che parlare di quanto Jordan Davis sia un campione intelligente. Perché non te ne stai in classe tua?»
Stai zitto, Jordan.
«Vieni a rompere il cazzo nella nostra classe perché non sai stare al tuo posto, vero? Non ti basta vincere nel tuo sport da checche, devi anche essere il migliore della scuola? Hai mai preso una B?» Lewis si fa più vicino, e il mio respiro si fa corto.
«Sì.» Mento spudoratamente.
«Bugiarda.»
«Ti piace fartelo succhiare dagli altri gay con i vestiti brillantinati?»
«Lo prendi nel culo, principessa Jordan?»
«O ti piace metterlo?»
Ognuno di loro ha un insulto diverso per me. Un incubo. «Smettetela.» Riesco a dire.
«Oppure?»
Mi zittii. Loro hanno le mazze, io ho due pattini. Posso ancora scappare, posso sfrecciare lontano da loro, devo solo abbatterne uno per aprirmi un varco. Giro piano su me stesso, per osservarli tutti e capire chi colpire. I più pericolosi sono quelli che stringono quelle aste in legno. Meglio puntare su uno dei due energumeni che godono nel vedermi con le gambe tremanti.
Mi soffermo su quello che sembra più sicuro di sé, che capendo le mie intenzioni si prepara a colpire schiaffando la mazza sulla mano. Un suono secco. Ma non sa che sto guardando lui per fare in modo che l'altro abbassi le difese. Lo tengo a bada con la coda dell'occhio, e appena lo intravedo abbassare la mazza lo colpisco. Una pattinata ben assestata alle palle che lo fa piegare dal male.
«Razza di troia.» Grida dal dolore e indietreggia, lasciando cadere a terra la mazza e si copre le parti basse con le mani stringendo le cosce.
Non ho tempo da perdere e inizio a pattinare via, ma riesco a malapena a partire che qualcuno dietro di me mi afferra per i pantaloni e cado a terra.
«Sei finita.» Minaccia Lewis.
Ricevo un primo calcio all'addome.
«Colpisci di nuovo uno di noi e giuro che stavolta ti ammazzo.»
Mi guardano dall'alto, e mi preparo a colpirli di nuovo alle palle. Non ho altre possibilità, devo tentare il tutto e per tutto.
Non riesco a fare niente, perché sento Lewis tirarmi i capelli per guardarmi negli occhi con aria truce.
«Te li faccio mangiare quei brillantini di merda che metti sui vestitini, finocchio.»
Mi solleva ancora un po', prima di far sbattere violentemente la mia testa sulla superficie in cemento che fino a quel giorno era stata il mio posto felice.
Il cervello mi scoppia dal male, le ondate di dolore si propagano senza lasciarmi il tempo di riuscire ad aprire gli occhi. Mi arriccio in posizione fetale, prima che la loro ira si scateni del tutto su di me.
Urlo, sperando che qualcuno mi senta e li allontani, ma non arriva nessuno. E loro colpiscono, sempre più forte.
Iniziano solo con calci e pestate in ogni parte del mio corpo, ma più urlo "basta", più forte battono, più insulti mi rivolgono.
"Checca."
"Frocio."
"Femminuccia."
"Principessa di 'sto cazzo."
Sento le mazze scaraventarsi su di me allo stesso ritmo degli insulti, senza potermi preparare al colpo successivo. Resto qui e, con il fiato mozzato, non riesco più a prendere aria. Posso solo fare respiri veloci, non sono nemmeno più capace di urlare, perché ho la bocca piena di sangue e appena provo a fare un respiro più profondo io vorrei morire dal dolore. Boccheggio mentre continuano a picchiarmi. Uno di loro mi strattona i capelli all'indietro e strizzo gli occhi, perché ho così tanto male che fatico ad aprirli.
Gli altri tre mi colpiscono a più non posso, finché non mi mollano di nuovo a terra.
Li sento ridere.
Provo ad aprire gli occhi, ma li richiudo subito appena vedo il pavimento cementato coperto di sangue.
Decido di lasciarli fare e, per la prima volta in vita mia, mi arrendo. Non ho altre possibilità. Mi stanno ammazzando di botte umiliandomi come la peggiore delle fecce umane.
Solo perché pattino.
Perché sono diverso.
Ricevo un ultimo, grosso, colpo alla testa, poi, finalmente, non vedo più niente.
Non sento più niente.
E' tutto finito.
E' questa la morte?
Pier60, Notte di capodanno
«Quell'allenamento in più mi è costato un mese di coma per fratture multiple al cranio e pneumotorace traumatico. Non ho potuto fare i campionati nazionali, quell'anno. Mi hanno frantumato la parte destra del corpo.»
Non riuscii, però, a raccontarle che ero stato trovato da mio padre nudo, agonizzante e privo di coscienza. Quel dettaglio me lo sarei portato nella tomba.
Raccontare tutto ad Amelia fu più facile del previsto. Mi aveva dato coraggio sapere che chi era stato nella merda, proprio come mia sorella, aveva doti empatiche fuori dal comune. E Amelia nella merda di un ambiente sportivo abusante, sfociato in un disturbo alimentare, aveva sfoderato in tempi record una resilienza pura.
Non potevo sapere se avrebbe capito, ma ero sicuro del fatto che non mi avrebbe giudicato.
«Non riesco a smettere di chiedermi perché ti abbiano fatto questo.»
«Considerala una delle fortune di essere cresciuta in una società blindata come quella a Daytona. Nel mondo reale, il pattinaggio è considerato uno sport da femmine. Se sei maschio e ti piace, meriti di essere discriminato ed etichettato come omosessuale.» Cercai di spiegarle. «Come se le persone omosessuali fossero una piaga sociale da estirpare alla radice, una malattia da curare.» Quel pensiero era così assurdo da risultarmi ancora inconcepibile.
Un passo alla volta, mi ripeteva sempre il team di medici quando avevo un attacco di panico. Ero un ragazzino che era passato dal fare i salti tripli sui pattini al non saper nemmeno mettersi seduto nel giro di una manciata di minuti di pura agonia.
"Impariamo a stare dritti, Jordan."
"Proviamo a camminare."
"Proviamo a correre."
"Puoi saltare di nuovo."
Sei mesi di fatiche immani per riprendere le normali facoltà motorie.
"Sei guarito."
Guarito?
Come si spiegava che dopo l'accaduto alla sola idea di mettere un piede fuori dal cancello di casa mi si bloccava il respiro e il cuore andava in iperventilazione? Avevo il terrore di trovare qualcuno di loro in giro e che il mio personale inferno a forma di scuola media ricominciasse.
«Spero che abbiano pagato per quel che ti hanno fatto.»
«Li ho denunciati e anche se tra loro conoscevo solo Lewis, non è stato difficile arrivare agli altri. Ma sai cosa?» la preparai alla parte peggiore «In quella pista non c'erano telecamere di sorveglianza, e nemmeno testimoni. La denuncia si è rivelata un grosso buco nell'acqua.» La ciliegina sulla torta delle prese in giro.
«E' ingiusto» commentò schifata Amelia.
Mi ero rinchiuso in casa per anni. Lo psicologo che mi aveva aiutato mi consigliò subito di provare uno sport di squadra, per tentare di reintegrarmi in un gruppo sotto la vigilanza di un allenatore e per alleviare il trauma. Scelsi il football, pensando che se avessi fatto uno sport così annoverato tra i maschi, quando sarei riuscito a tornare in mezzo alla gente avrei evitato qualsiasi commento omofobo.
Ma era una tortura, non mi piaceva. La testa me lo impediva, ma il cuore mi diceva di pattinare perché la mia vita era tutta su quelle otto ruote.
Scegli con il cuore, sempre.
Era il consiglio più importante che mi aveva dato mio padre. Lo stesso che avevo dato ad Amelia quando volevo che scegliesse me. Lo avevo seguito alla lettera, seppur con qualche compromesso.
Mi ero ridimensionato come atleta: costumi rigorosamente senza brillantini, musiche moderne che non richiedessero la mimica facciale, e soprattutto passi grintosi che ben si adattassero a un volto inespressivo. Nonostante questo, i programmi di gara miei e di Chloe erano così ben studiati dal coreografo da risultare originali in ogni cosa, e lo sarebbero stati anche quelli in cui avrei pattinato con Amelia.
Lei se n'era stata lì tutto il tempo ad ascoltarmi in silenzio con la testa poggiata alle mie gambe e il viso rivolto a me, lasciandomi parlare senza mai interrompermi avvolta in una felpa più grande di lei. Ma soprattutto, non mi aveva mai riservato sguardi colmi di pietà, come tutti gli altri. Nei suoi occhi c'era un mare di gratitudine per averle permesso di entrare nel mio passato in punta dei piedi, delicata come solo lei sapeva essere.
Si guardava intorno, sbatteva le palpebre più veloce del normale e mi teneva la mano tra le sue dita affusolate per giocherellarci nervosa. Incrinava leggermente il labbro a destra, morsicandosi l'interno della guancia. Stavo imparando a conoscerla: quando faceva così, era curiosa. E io, avvertivo il bisogno viscerale di darle il più possibile di me.
«Puoi farmi qualsiasi domanda ti passi per questa testolina.» Mi abbassai a darle un bacio su quelle labbra gonfie di prime volte di cui sentivo non ne avrei mai avuto abbastanza. Volevo che sapesse solo dei miei baci.
«Non mi rispondi male, oggi?»
Doveva essersele legate al dito le risposte seccate che le avevo dato più volte. «Lo sai che potrei innamorarmi di te.» Sono già sotto un treno. «Quindi inizia. Sono tutto tuo.»
Amelia aveva un volto da bambina e l'espressione di chi si affaccia a un nuovo mondo scoprendo che anche lì c'è la crudeltà, seppur diversa da quella che aveva conosciuto durante gli anni a Daytona.
Adoravo vederla imbarazzarsi quando facevo lo sdolcinato con lei. Le guance le si coloravano di un rosso tenue, che contrastava con l'azzurro dei suoi occhi. Non riusciva nemmeno a reggere lo sguardo, si sconnetteva e si incantava a osservare qualche punto indefinito alle mie spalle, per poi tornare da me quando il colorito riacquistava la tonalità abituale.
«Come hai fatto...dopo?»
Mi divertì il ricordo di un me ragazzino preso da mille paranoie che ritardava il più possibile il giorno dell'uscita. «Non ridere ma... mi ero convinto che se fossi diventato più muscoloso, qualsiasi persona ci avrebbe pensato due volte prima di farmi qualcosa. Quando sono tornato in mezzo alla gente per l'università, ero diventato più robusto, compravo da vestire nel miglior negozio della città e alle ragazze piacevo.»
Trasalì non appena nominai altre ragazze. Non credevo fosse gelosa, ma ero convinto che l'irrequietezza che sprigionava quando mi riferivo al sesso fosse dovuta solo alla sua inesperienza. «Ne ho approfittato, sperando di crearmi una nuova reputazione, anche se di loro non mi interessava nulla. Ha funzionato.»
Avevo scoperto che la maggior parte dei ragazzi ti rispettava solo se scopavi a destra e a manca e se vestivi firmato, così cavalcai l'onda per tutti gli anni universitari. A modo mio, l'avevo fatto più volte possibile. «Prossima domanda?»
«Dimmi del tatuaggio che hai sul fianco.»
Quello era bello. «Sono stato convocato ai mondiali in Nuova Zelanda, qualche anno dopo l'aggressione. A gare finite, mi sono fermato lì con la mia famiglia in vacanza, e ho conosciuto la cultura Maori. Non sono un grande fan dei tatuaggi, probabilmente se nulla fosse successo non l'avrei nemmeno fatto, ma non ne potevo più delle persone che guardavano in quel modo le cicatrici sul fianco, soprattutto quella del drenaggio toracico. Così mi sono fatto disegnare un sole maori il più intricato possibile. In teoria simboleggia la rinascita e la forza, anche se resto un atleta a metà. Mi sono bloccato.»
Corrucciò le sopracciglia, incredula nel sapere quel mio dettaglio sportivo. «E ti va bene non esprimerti liberamente?»
«Del pattinaggio mi piacciono i salti e le trottole, non è un sacrificio poi così grande.» Anzi, lavoro in meno. Potevo concentrarmi di più sulla tecnica.
Rimuginò ancora sulla mia risposta, incerta se le fosse bastata o meno, poi continuò con le domande: «Perché la gente è così cattiva, secondo te?»
«Troppe persone sono ancora condizionate dagli stereotipi di genere. L'uomo dottore, la donna infermiera. L'uomo direttore d'azienda, la donna casalinga. Ai maschi il blu, alle femmine il rosa. Non tengono in considerazione che ognuno è libero di fare il cazzo che gli pare. Sulla carta esiste una cosa chiamata libertà, ma nella realtà...esistono le persone ottuse.»
Sollevò il capo che teneva appoggiato sulle mie gambe per mettersi in ginocchio sulla nostra panchina e per guardarmi dritto negli occhi, assicurandosi che le sue parole mi arrivassero dritte al cuore.
«Non permettere mai più agli altri di definirti, Jordan. Non sentirti mai in colpa per quello che sei.»
Presi in braccio Amelia, mettendola a cavalcioni su di me, e lei si accoccolò poggiandomi la fronte sul collo. «Ho imparato a non farlo.» Mi scostai per posarle un bacio sulla tempia e me la strinsi addosso carezzandole i capelli. Non ero mai stato tipo da smancerie, ma con lei venivano così naturali al punto da averne bisogno.
«Quindi...sei stato un giocatore di football, eh?»
«Preferisci quelli, ai pattinatori?»
«Preferisco te.»
E per una volta, anche se lei arrossì, fui io a restare senza parole. Me la tenni stretta, a parlarle senza il bisogno di emettere alcun suono, in quella prima notte dell'anno che proseguiva verso un albeggiare annebbiato dalle polveri residue dei fuochi d'artificio. E non riuscii a trattenere una risatina nervosa nel pensare all'enorme differenza tra i due sport.
«Perché ridi?»
«Pensavo alla diceria che il pattinaggio è da femmine quando noi pattinatori cresciamo negli spogliatoi in mezzo ai vostri culi mentre loro, nelle docce, fanno a gara a chi ce l'ha più lungo.»
«Mi hai guardato il culo, Davis?» Si alzò in piedi con una finta faccia sconvolta dopo aver provato a darmi un pugno sul bicipite. Sapeva benissimo anche lei che negli ultimi anni andava a indossare il body di gara in bagno, lontana da sguardi indiscreti. Non potevo averla vista mezza nuda negli spogliatoi.
«Te l'ho detto già una volta, avresti scoperto un sacco di cose se non te ne fossi sempre stata nel tuo mondo a leggere.»
«Ad esempio?»
Mi morsi la lingua, perché c'era tanto che ancora non sapeva e non mi sarei bruciato quello che custodivo di lei dopo un solo giorno insieme.
Aveva gli occhi che brillavano di vita e i capelli arruffati dopo quasi ventiquattro ore fuori dal nuovo appartamento, in cui aveva a malapena fatto in tempo a poggiare le valigie. Era bella da far male, e non volevo nemmeno riportarla al dormitorio.
«Ad esempio, basta domande.» Mi alzai in piedi facendola indietreggiare a passi incerti fino alla balaustra, dove le onde del mare risuonavano ancor di più e l'odore di salsedine copriva quasi il suo profumo vanigliato. Non aspettavo altro che la ringhiera interrompesse la sua fuga, per bloccarla tra le mie braccia e baciarla ancora.
«Voglio un ricordo, Amelia. Uno, per ogni serata trascorsa insieme. Da qui a quelle che verranno.»
Ciao! 💜
Ho voluto portare questo tema nel passato di Jordan perché non avete idea di quanto sia reale.
I maschi nel pattinaggio scarseggiano, e di tutti quelli che ho conosciuto, tanti sono stati etichettati almeno una volta come "froci".
Ho anche allenato i piccoli, per un breve periodo. Uno dei miei bambini, nel corso amatoriale, ha smesso: non perché non gli piacesse pattinare, ma perché le prese in giro alla scuola elementare iniziavano a essere pesanti.
Inseguite sempre le vostre passioni, credeteci fino in fondo, e fregatevene dei pregiudizi ignoranti.
Tutti, indistintamente, abbiamo un valore.
Ce lo meritiamo!
A stasera con il box domande su ig (amelieqbooks).
PS. C'è un modo per ringraziarvi per la dolcezza che avete nei miei riguardi in questi brutti giorni?
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