35- 𝙇𝙚𝙩 𝙞𝙩 𝙜𝙤 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢

Avevo le corde vocali paralizzate dalla sorpresa.

Gli stemmi di Minnie e Topolino, alla sinistra e alla destra delle colonne fiabesche, ci avevano appena dato il benvenuto nel parco in cui tutti, adulti o bambini che fossero, staccavano dalla realtà per immergersi in un mondo parallelo fatto di sogni e spensieratezza.

Mentre continuavo a guardarmi intorno stupefatta dalla magia di quel posto, Jordan chiese semplicemente: «Elly, dove vuoi andare come primo posto?»

«Al Magic Kingdom, subito!»

Non sapevo se Jordan fosse già stato a Disneyland o se fosse uno come mia madre, che non si muoveva di casa a meno che non avesse già studiato i percorsi su google maps. Sperai per la prima opzione, guardandolo concentrato alla guida mentre si muoveva con sicurezza nell'andirivieni di persone che esaltate migravano verso gli ingressi del Magic Kingdom, la parte di Disneyworld riservata al mondo fiabesco.

Quando accostò, feci per scendere dall'auto non appena sentii Ellison e Steven slacciarsi la cintura di sicurezza nei sedili posteriori, ma non arrivai nemmeno ad afferrare la maniglia che una mano mi trattenne.

«Tu no.»

«Perché?»

«Ti ho promesso del tempo per noi, da soli. Se loro vanno lì, noi iniziamo dagli Hollywood Studios. Dopo pranzo, se ti va, torniamo qui.»

Il mio cuore fece una capriola. Perché se poco prima me l'ero quasi presa ritrovandomi in quella che pensavo essere un'uscita a quattro, non avevo calcolato che lui potesse aver programmato tutt'altro.

E pochi minuti dopo aver scaricato Steven ed Elly al Magic Kingdom, noi entrammo nel parco dedicato ai film saltando la fila all'ingresso, perché Jordan aveva preso per tutti i pass prioritari.

Era l'ultimo giorno dell'anno, e il grosso della gente doveva ancora arrivare. Subito avvolti nelle atmosfere della golden age, tra perfette strutture hollywoodiane e negozi a tema, seguimmo le indicazioni per la Galaxy's Edge, la zona del parco riservata a Star Wars.

C'erano così tante attrazioni che non avrei nemmeno saputo da quale iniziare, ma non ebbi alcun dubbio quando davanti a noi ci trovammo il Millennium Falcon a grandezza naturale.

«Lì!» Lo indicai. «Ti prego, andiamo lì!»

«Sei una nerd e non me ne sono mai accorto?» Domandò mentre prendevamo posto in fila.

Non esisteva persona al mondo che non conosceva quella mega navicella, ma la realtà era che non avevo mai visto nessun film della saga. Ci avevamo provato, una sera al Fairwinds, ma mi ero addormentata sulla spalla di Lisa.

«No, mi piace solo Yoda.» Ammisi senza nemmeno accorgermene. Tra le spade laser e le guerre stellari che tutti decantavano, io ero stata intenerita da una sottospecie di folletto lanuginoso dal colore verde-malaticcio vestito solo da un sudicio accappatoio marrone.

«E vorrei guidare un'astronave che sta ferma, visto che con la tua macchina non è che sia stata una pro. Così, per provare.»

Jordan portò le mani allo sterno, prima di additarmi in un modo che non gli apparteneva. «Fare o non fare, non esiste provare!» Non era nemmeno il suo modo di parlare, era troppo bizzarro per essere lui, riconobbi quindi la sua frase come una citazione del mondo galattico.

E visto che poco prima Ellison lo aveva appellato come Sheldon Cooper, feci l'unica cosa che mi venne in mente, un gesto che avevo visto fare spesso da quel personaggio. «Guarda qui.» Portai la mano a mezz'aria, con il palmo ben in vista, e unii tutte le dita prima di separarle tra il medio e l'anulare, creando una perfetta V che mi portò gli occhi di gran parte della fila addosso.

Forse avevo urlato troppo. Non capii perché Jordan si affrettò a coprire la mia V con la sua mano mentre con il braccio libero mi avvolse veloce in un abbraccio stritolatore che mi portò a sbattere contro il suo petto. Si voltò, facendo in modo di nascondermi dalla folla il più possibile. Inebriata dal suo profumo, il suo torace prese a muoversi in una raffica di contrazioni prima di liberarsi in una sana risata.

Lui non riusciva a smettere e io non capivo il perché. «Che c'è?»

«Quello che hai fatto: è il simbolo di Star Trek. Sei in mezzo a un'orda di fan di Star Wars.»

Corrucciai le sopracciglia tentando di capirci qualcosa. «Quindi?»

Si prese un attimo di tempo, prima di dirmi il paragone azzeccato: «Hai presente la faida che c'è nel pattinaggio tra chi arriva a prendere la divisa della nazionale facendo singolo o coppia, e chi invece ci arriva facendo gruppo? Credono che ci siano atleti di serie A e serie B. La stessa cosa c'è tra i fan dell'uno e dell'altro film.»

Chi non entrava in nazionale nelle discipline madri del pattinaggio e passava al gruppo spettacolo per la minor quantità di ore di allenamento, era spesso considerato un disertore. Kevin mi faceva una testa quadra a tal proposito. Memore dei suoi discorsi, capii di aver fatto un'enorme figuraccia tra quelle persone e mi sentii arrossire. «Andiamo via?»

Non volle andarsene, ma mi tenne accanto a sé per tutto il tempo finché le occhiatacce della gente in fila mi lasciarono in pace.

Più di un'ora di coda e vergogna dopo, accolti da un sedicente Hondo Ohnaka che a primo impatto pensai che fosse il padre spaziale di Jack Sparrow, riuscimmo a entrare in un labirinto di cunicoli, lucette e tubetti strani cui non avrei saputo dare un nome. Forse nascondevano cavi elettrici, o forse erano lì per bellezza.

Luci intermittenti e sirene spiegate rendevano l'atmosfera immersiva, e arrivammo a sederci nella navicella a sei posti. Jordan era riuscito ad accaparrarsi i posti da pilota, quindi ci sedemmo nelle poltrone in prima fila. Avremmo dovuto coordinarci nella guida attraverso gli schermi interattivi, dove io con la leva apposita avrei mosso la navicella a destra e sinistra, mentre Jordan avrebbe guidato muovendo la leva su e giù. Nel cruscotto c'erano addirittura dei bottoncini colorati che attivavano luci, suoni ed effetti speciali. I quattro sconosciuti, seduti dietro di noi, avrebbero rivestito i ruoli di ingegneri di volo e responsabili delle armi.

Ero concentratissima: mi muovevo tra le galassie schivando missili e ostacoli naturali, stando attenta a non andare addosso alle altre navicelle mentre il simulatore ci scuoteva seguendo la nostra guida a tratti brusca. Ma Jordan, probabilmente annoiato dalla facilità del gioco, prese a divertirsi solleticandomi il fianco. Non sopportavo il solletico, e saltellai di riflesso sul sedile sbagliando completamente la guida.

E se gli altri dell'equipaggio si mostrarono infastiditi dai nostri atteggiamenti infantili, io mi stavo divertendo così tanto da fregarmene e ridere fino alle lacrime, mentre cercavo di ostacolare Jordan con la gamba, dato che con le mani ero troppo occupata a guidare e attivare gli effetti speciali.

Alla fine, le persone dietro di noi che rivestivano il ruolo di ingegneri avevano dovuto lavorare più del previsto, dato che ero andata a sbattere più volte sulle rocce che si ammassavano sulla galassia di cui non ricordavo nemmeno il nome.

Ero felice, di quella felicità che ti riempie il cuore così tanto da farti dimenticare qualsiasi altra cosa.

Avevamo continuato a girare il parco mano nella mano e bevuto la coca cola tipica del Galaxy's Edge, quella contenuta in bottigliette a forma di bomba. Avevamo guardato Minnie e Topolino sfilare su una Camaro e come ultima attrazione del mattino avevamo scelto una montagna russa al coperto che percorrendo le strade di Los Angeles ci aveva portato dritti nel backstage del concerto degli Aerosmith. Carina, ma non abbastanza adrenalinica.

Non avevamo visto tutto, perché avevamo solo un giorno a disposizione e volevo visitare anche il Magic Kingdom, per vedere dal vivo le parate e le principesse che con i pattini ai piedi abbellivano i disegni della me bambina seduta al tavolo della cucina di casa a Daytona.

E non appena arrivammo al parco più famoso, ci fiondammo subito al Tony's Square Restaurant, il famoso ristorante a tema Lilly e il Vagabondo, quello passato alla storia perché la condivisione di un singolo piatto di spaghetti portò al primo bacio tra i protagonisti.

E difatti, una volta accomodati nel ristorante curato nei minimi dettagli, con le sedie in ferro battuto a contrastare con l'avorio dell'ambiente regale illuminato dalle grandi finestre in stile inglese, a svettare in cima al menù c'erano proprio gli spaghetti con le polpette.

Troppo scontato ordinarli. Sarebbe stato un messaggio subliminale in piena regola, e Jordan non se lo meritava dopo avermi lasciata carica del desiderio delle sue labbra nella pista di pattinaggio dell'Arhena.

«Pizza Margherita, per piacere.» Disse Jordan passando il menù al cameriere.

«Per me fettuccine alla Alfredo con il pollo, grazie.»

Passò poco tempo prima che il cameriere tornasse con le bibite e le nostre ordinazioni, ma mentre sotto il naso avevo un invitante piatto di fettuccine, io vedevo solo la pizza di Jordan.

Calda e fumante, aveva dei bordi gonfi dall'aspetto morbido, e profumava di pane fresco dalle lievi note carbonizzate.

Non ricordavo nemmeno quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che l'avevo mangiata, sapevo di aver addirittura vietato a mia madre di prenderla, per non cadere in tentazione.

Dopo le gare, quando la tensione poteva svanire lasciando spazio alla fame, io e mia madre tornavamo sempre a casa con due scatole di pizze fumanti. Ma nelle ultime gare, complici anche le restrizioni dei giorni precedenti, una pizza sembrava non bastarmi, tant'è che mia madre iniziò a prendere qualche trancio in più. Diceva che non importava quanto mangiassi a fine gara, che dovevo recuperare, che mi sarei rimessa in riga il giorno dopo. Ma quando nella coppia artistico Kevin e Audrey avevano notato le mie rotondità, trovai il modo di mettere a tacere la bramosia della pizza post gara:

Non mangiarne nessuna, per non mangiarle tutte.

Mi faceva paura.

Il mio cibo preferito era diventato un terrore così grande da dover essere scacciato a flagellate di dita in gola o di confetti purganti .

Una bomba calorica servita su un piatto in ceramica, che se per tutti era sinonimo di gioia e convivialità, per me era solo il risultato di una categorica somma di grassi e carboidrati: davanti a me, Jordan stava porzionando settecento kilocalorie con precisione geometrica.

Arrotolai in automatico le fettuccine sulla forchetta, senza nemmeno guardare quante ne avessi prese, e ingurgitai il primo boccone, standomene in silenzio e senza mai perdere di vista la sua pizza.

Esitò bevendo un sorso d'acqua e vidi la sua mano fermarsi a due millimetri dalla fetta di pizza prima di cambiare idea e portarla sotto il mento per chiedermi: «E' buona, la tua pasta?»

«Sì.» Risposi laconica. Non me ne fregava nulla di quel che stavo masticando.

«Mi ispira.» Disse sicuro. «Facciamo così: ti do un pezzo di pizza, in cambio di una forchettata di pasta.»

Jordan, cazzo, no.

Avevo il terrore di rovinare quella giornata che stava andando in un modo così perfetto per una fobia stupida.

Avevo paura di mostrarmi debole ai suoi occhi, che lui mi vedesse non del tutto guarita, in parte ancora malata.

In troppi pensavano che i disturbi alimentari fossero dei capricci fatti per seguire la moda, ma che ne sanno gli altri del respiro che ti si mozza davanti a un piatto qualsiasi, della mano che trema incontrollata quando devi prendere una semplice forchetta, che ne sanno gli altri degli specchi coperti per non inorridire davanti alla tua immagine perché l'unica cosa che vuoi vedere è il display sulla bilancia che ti mostra un numero sempre più basso?

Cosa ne pensava Jordan, di tutto questo?

Erano paure che credevo di aver superato, ci avevo lavorato tantissimo con i miei dottori. Ma ero lì, da sola, senza la loro protezione, senza Greg che sapevo mi avrebbe letto lo sguardo per capire se fosse stato il momento giusto o meno per affrontare l'ultimo cibo fobico e senza la Cameron che mi avrebbe portato subito nella stanza se fosse stato troppo.

Lascia andare la paura.

A piccoli passi.

Non tutto subito, un pezzo alla volta.

Ricordati il tuo posto felice.

Se non va questa, riproviamo più avanti.

Era strano sentire la voce di Greg in testa quando quella era una giornata interamente dedicata a me e Jordan, ma pensai che se ce l'avessi fatta, se fossi riuscita a mangiare un po' della sua pizza senza poi correre al bagno, sarebbe stata una giornata ancora più memorabile.

Avrei dimostrato di saper camminare con le mie gambe.

Mi sarei avvicinata ancor di più alle dimissioni ufficiali.

Avevo l'acquolina in bocca. Mi faceva voglia. A costo di rovinare tutto, decisi di provarci:

«Solo se mi dai la parte meno cotta.» Cercai di farmi vedere forte con una battuta sfidante, ma ero certa che il tremolio alla voce mi tradì.

«Andata.» Non perse tempo a passarmi un pezzo della sua pizza prima di arrotolare alla forchetta un bel boccone della mia pasta.

Non so se mi avesse vista esitante o cosa, ma c'erano volte in cui non sentivo il suo sguardo addosso e quel giorno, in quel ristorante romantico, i suoi occhi si concentrarono sui dettagli dell'ambiente attorno a noi, ma mai una volta su di me.

Prese a parlarmi di tutt'altro, raccontandomi di quando da piccolo seguendo la madre a un campionato nazionale aveva interrotto una gara perché per sbaglio aveva fatto scivolare una macchinina in pista.

Non aspettava nemmeno le mie risposte, continuava a chiacchierare mentre io non riuscivo ad ascoltarlo, perché chiusi gli occhi e addentai il primo angolino di pizza.

Era morbida. L'acidulo del pomodoro, la dolcezza della mozzarella e l'impasto dal sapore intenso diedero vita a una sinfonia di sapori che risvegliò le mie papille gustative da un torpore che avevo lasciato a crogiolarsi in un angolo della mente per troppo tempo.

Pensavo che una volta assaggiata i pensieri malati sarebbero venuti a bussare.

Pensavo che avrei sputato in un tovagliolo, dopo averne riassaporato la reminiscenza.

Pensavo che d'impulso ne avrei ordinate altre mille, e non mi sarebbero bastate.

Pensai un sacco di cose, ma la realtà fu che riuscii a bearmi del ritorno di un ricordo senza ricorrere all'accesso o alla totale privazione.

Ce l'ho fatta.

Jordan non propose altri scambi. Non disse niente, quando dopo aver finito il suo discorso, non commentai né gli risposi, perché non ero più riuscita a seguirlo. Restammo al tavolo finché non finimmo di mangiare, e tanta era la gioia che quasi avrei voluto urlarla al mondo intero, ma c'erano lotte invisibili agli occhi di Jordan e di qualsiasi altra persona, vittorie che probabilmente sarebbero state sminuite da chi invece le viveva come pure consuetudini.

Decidemmo di prendere un caffè da asporto e continuare a camminare lungo le vie fiabesche del Magic Kingdom, guardando i personaggi che intrattenevano i più piccoli ed escludendo qualsiasi giostra perché decisamente troppo da bambini.

Ci bastò solo camminare, mano nella mano con il caffè nell'altra, finché ci fermammo di fianco all'imperiale carosello in cui cavalli dalle armature minuziose ruotavano attorno alla colonna centrale rivestita di specchi. Ogni visitatore si era fermato nell'attesa del passaggio della famosa parata di tutti i personaggi Disney, cercando di accaparrarsi un posto in prima fila.

Io stessa me ne rimasi ferma a tenere il posto in prima fila, mentre Jordan andò a cercare un cestino per buttare i bicchieri di caffè.

Mentre in lontananza sentivo la musica festosa della parata avvicinarsi sempre più, alle mie spalle Jordan mi prese in vita, facendo aderire la mia schiena al suo petto.

Non mi lasciò scappare quando prese a parlarmi, abbassando il capo al mio orecchio, in modo che nessuno potesse sentire quel che aveva da dirmi.

«Sei stata brava, al ristorante.»

Non può essersene accorto. «Per questo non mi guardavi a tavola?»

«Te l'ho letta negli occhi, la paura. Ho provato a parlarti di cose che non credo nemmeno tu abbia ascoltato, per lasciarti libera di scegliere.» Mi girò in modo che potessi guardarlo negli occhi. «E ti ripeto che sei stata brava.»

Ero agitata. Mi rendeva irrequieta il fatto che le mie fatiche nel nascondermi non avessero portato al risultato che speravo. «Grazie. E' stato merito tuo.»

«La verità è che hai fatto tutto tu. Ringrazia solo la tua forza di volontà.»

Dopo quelle parole mi alzai sulle punte dei piedi per avvicinarmi a lui ancora di più, non so nemmeno con quale coraggio. Il mio era un invito bello e buono, di quelli che non lasciavano spazio ad altre interpretazioni. Chiuse gli occhi e io li chiusi di rimando, e sentii il suo naso sfiorare il mio.

«Ti ho promesso brividi e adrenalina, Reed. Ma sappi che mi stai mettendo a dura prova.»

«Non mi interessa, Jordan.»

Che se ne andassero a fanculo Cenerentola, Sissi, Elsa e Rapunzel, che stavano sfilando alle mie spalle nelle maestose carrozze che avevo visto arrivare prima di dare ogni mia attenzione a lui.

Eravamo nella nostra bolla, era il momento perfetto per il mio primo bacio, e la mano di Jordan prese a salire dalla mia schiena lentamente verso il mio collo, fino ad avvinghiarsi ai miei capelli per bloccarmi davanti a lui.

Ero soggiogata dal suo tocco carezzevole e annientata dal desiderio di baciarlo, perché non mi interessava più nulla delle promesse ineluttabili e delle sfide travolgenti, l'avrei voluto ad ogni costo e in qualsiasi luogo; poco importava che fossimo sudati in palestra o in mezzo alla folla.

Io lo volevo.

Lui lo voleva.

I cuori che battevano all'unisono ne erano la prova lampante.

Ma i nostri telefoni presero a suonare in contemporanea.

Potevo sentire il mio vibrare nella tasca del sedere e il suo a solleticarmi la cresta iliaca.

Quasi spirai quando facendo leva sul suo petto mi liberai dalla sua morsa per sfilare il telefono dalla tasca.

«Ferma. Non rispondere.» Mi disse bloccando la mia mano per riportami a sé.

«Suonano entrambi, dev'essere successo qualcosa.»

Ripresi il mio telefono per leggerne il display, mentre lui con il fastidio dipinto nei tratti induriti faceva altrettanto.

«E' Ellison.»

Mi mostrò lo schermo del suo iPhone. «Steven.»

Ci scostammo al di fuori della bolgia, cercando un posto più silenzioso in cui poter rispondere per sentire la voce all'altro capo del telefono.

«Ehi, Elly. Tutto ok?»

«Siamo stati arrestati, Amy. Ho poco tempo. Steven sta chiamando Jordan perché se lo chiamo io di sicuro mi strozza. Quindi la mia domanda è: puoi calmarlo, mentre venite in commissariato?»

Ellison. Steven. Arrestati.

«Ma cosa avete fatto?»

«Atti osceni in luogo pubblico. Ma nei bagni eh, che non mi piacciono i guardoni.»


Buonasera!

Scusate per il ritardo, ma tra le giornate all'hospice e gli impegni normali, il tempo per scrivere è davvero poco. Il mood poi è quello che è, e ho davvero paura di sbagliare e di non riuscire a farvi arrivare tutte le emozioni dei protagonisti!

Il box domande arriva domani sera, nel frattempo su instagram trovate tutti i programmi di gara che hanno dato il nome a questo capitolo!

PS. Dato che in questo periodo gli aggiornamenti non saranno più regolari, seguitemi qui su wattpad e su instagram (entrambi amelieqbooks) per non perdervi le notifiche!

A presto💜

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