3- 𝙏𝙝𝙪𝙣𝙙𝙚𝙧𝙨 𝙖𝙣𝙙 𝙡𝙞𝙜𝙝𝙩𝙣𝙞𝙣𝙜𝙨 - 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
Preparare una valigia, senza sapere per quanto tempo si starà via da casa, è un'attività che darebbe un gran daffare alla maggior parte delle persone. Non per me: qualche tuta, due pigiami, intimo e sneakers.
Ero fermamente convinta che sarei guarita in breve tempo, e che sarei tornata al Daytona Skating Center quanto prima. Il mio armadio lasciava perfettamente intendere quello che era il mio stile di vita: un mare di tute da ginnastica costeggiava una montagna di leggins e top da allenamento. Nelle grucce in alto, invece, scintillavano tutti i miei costumi di gara, dal primo all'ultimo, seguendo un meticoloso ordine temporale da sinistra verso destra.
Mi sedetti, nostalgica, a immergermi nei ricordi delle mie prime gare, quando altro non ero che una bimba con un body brillante, lo chignon perfettamente acconciato e le mie personalissime ali ai piedi. Iniziai a pattinare quando ero così piccola da non ricordare nemmeno la mia prima volta. «Signora, sua figlia ha bisogno di mettere su muscoli nelle gambe e rafforzare la schiena, tende al rachitico» disse la pediatra dell'epoca a mia madre. Il giorno dopo, nonostante i miei due anni e mezzo, fui spedita in pista.
La società nemmeno accettava bimbe così piccole, ma Catherine insistette così tanto per farmi provare che non lasciò spazio a repliche. Fino al compimento dei tre anni, giorno in cui si sarebbe potuta stipulare una prima assicurazione sportiva, mia madre restò a sorvegliare una piccola me che gironzolava scoordinata da una parte all'altra della pista con un sorriso dipinto in volto, dei pattini più grandi di lei e due spessi calzini per piede a riempire il vuoto fino alla punta dello stivaletto. Non si lamentò mai, nemmeno una volta.
Lei stessa, in gioventù, praticò questo sport, lasciandolo poco dopo per il terrore di staccare da terra il Salto del Tre, il primissimo salto che i pattinatori imparano. Nel suo caso, sosteneva che dieci anni fossero troppi per iniziare.
Non so fino a che punto la genetica incida, ma venticinque anni più tardi si ritrovò con una figlia testarda che voleva già appendere i pattini al chiodo, in quanto convinta di non saper fare... proprio il Salto del Tre. «Impara questo salto, poi sei libera di smettere» mi disse.
Settimane di pianti, discussioni e prove continue anche al di fuori dall'orario di allenamento. Finchè un giorno, finalmente, riuscii a completarlo da manuale. Posso dire, con assoluta certezza, che quello fu il preciso istante in cui mi innamorai perdutamente del pattinaggio a rotelle.
Dopo quel giorno, i salti mi piacquero così tanto che nel giro di un anno riuscii a far miei tutti i salti da un giro: Salto del Tre, Toeloop, Salchow, Flip, Lutz e Rit. Tutti. Come i bambini che avevano almeno due anni in più di me.
Ero ancora seduta sul letto a guardare i body appesi immersa nei ricordi, quando mia madre entrò con l' espressione di sussiego che trascinava con sè dal giorno prima.
«Il pranzo è quasi pronto, vai a prepararti il beauty, così mangiamo e partiamo. Abbiamo quattro ore di macchina da fare.» La sorpassai e uscii senza proferire parola, perchè se la situazione era già difficile, il suo mutismo e il suo tono sostenuto peggioravano il mio umore.
Quando scesi le scale di casa trovai la valigia chiusa già pronta vicino all' ingresso, e vi poggiai sopra il beauty prima di andare a sedermi in cucina.
195 e 70. Petto di pollo grigliato, rigorosamente scondito, e due gallette di mais. Annotai mentalmente le 265 kcal del mio pranzo, che sommate alle 120 dei biscotti secchi del mattino mantennero basso l'introito calorico di quel giorno. Non sapendo a cosa sarei andata incontro la sera, scelsi di tenerlo basso.
A tavola non ebbi nemmeno il coraggio di guardare negli occhi mia madre, che imperterrita, continuava a cavalcare l'onda del silenzio. Ero irrequieta, e sentivo il respiro farsi pesante al pensiero che di lì a poco avrei lasciato casa. Non mi spiegai il motivo, ma continuavo a guardarmi intorno cercando di memorizzare nuovi dettagli della casa che per quasi diciotto anni mi aveva vista crescere tra i mille impegni: la trama geometrica del copridivano sopra cui mi stendevo, stanca, a guardare Netflix la sera, il tavolino con la scacchiera su cui qualcuno, un tempo, mi insegnò i rudimenti dell'arte degli scacchi, i mille fiori che mia madre cresceva con cura e che davano colore al salotto.
E ancora, in cucina, il tavolo che aveva visto la me bambina disegnare principesse sui pattini crescere fino a diventare una ragazza insofferente che in quel tavolo, se avesse potuto, non ci si sarebbe più seduta. La gabbietta con Skippy, l'odioso canarino che con i suoi canti acuti mi svegliava anche la domenica mattina, ma che in quel momento ringraziai perchè il suo cinguettio era l'unico suono capace di spezzare il silenzio in cui versava l'open space del piano terra.
In ultimo, la vetrina con i miei trofei. Era la prima cosa che si notava entrando in casa: una panoplia di coppe, medaglie e trofei che avevo collezionato in quindici anni di fatiche sulle rotelle. Mi riempiva sempre di gioia poter tornare a casa, stravolta, dopo una o più giornate trascorse in preda all'adrenalina in qualche palazzetto, per aprire l'antina in vetro e aggiungere l'ennesima coppa guadagnata nella specialità singolo prima, in coppia con Kevin poi. Mi chiusi la porta alle spalle, con il cruccio di non sapere se un domani sarei stata in grado di portarne a casa altre, e salii in macchina.
Colsi mia madre a trafficare infastidita nella sua tote bag, mentre scaldava il motore dell'auto. «Ecco tieni, me lo hanno dato in ospedale» e mi porse il mio smartphone. Me ne ero dimenticata. Lo collegai al caricabatteria del cruscotto, mentre Catherine ingranò la retro per uscire dal nostro posto auto, nel consueto tintinnio dei ninnoli legati al polso che accompagnava le sue manovre, e lessi gli unici due messaggi ricevuti:
Audrey: "Mi spiace essermene andata così. Non è facile per me accettare che la mia atleta di punta debba fermarsi per non so nemmeno quanto tempo. Ti aspetterò al tuo ritorno, un bacio"
Kevin: "Ciao, mi ha chiamato Audrey, ho saputo la novità...mi dispiace. Continuerò ad allenarmi, ci si vede in pista!"
Considerando che la chat mia e del mio partner altro non era che un elenco di orari e conferme, quello fu il messaggio più lungo che mi avesse mai scritto. Risposi a entrambi con un laconico "grazie". Non sarei riuscita ad andare oltre la risposta monosillabica con entrambi, non me la sentii. Mi sarebbero mancati i pattini e la libertà che conseguiva l'averli ai piedi, ma non avrei certo provato nostalgia per una persona che era più volte arrivata ad alzare le mani su di me e per un ragazzone dall'ego smisurato che mi incolpava di qualsiasi errore in pista, costantemente circondato dalla sua aura di perfezionismo da sbandierare su instagram al ritmo di hashtag imbarazzanti.
Sopportavo, e avrei sopportato di tutto, perchè conscia del fatto che le difficoltà pullulavano nella via della realizzazione personale. I grandi obiettivi richiedono sempre una buona dose di sacrificio: sta a noi definirne limiti e priorità. Nel mio caso, lo scotto da pagare portava i nomi di Audrey e Kevin. Sopporta, mi ripetevo.
Avevo quattro ore per distrarmi un poco e prepararmi ad affrontare una nuova situazione. Uscire dalla comfort zone per spontanea volontà può incutere timore, figurarsi quando si è costretti a farlo. Mi distrassi acquistando qualche ebook in offerta per il mio kindle, dal momento che non potendo allenarmi in qualche modo avrei dovuto occupare il mio tempo libero. Leggere aveva da sempre un effetto sedativo sui miei nervi, amavo immergermi in qualche sport romance per empatizzare con le dinamiche degli altri sport. Mi piaceva tuffarmi nel crescendo delle storie d'amore, vedere i protagonisti passare dall'odiarsi all'amarsi, affrontare i mille intoppi di trama per vederli poi trionfare nell'epilogo. Adoravo comprendere l'amore tra le righe di una storia scritta, ma non lo sognavo per me, figlia di una famiglia disfunzionale. Rotta e vuota com'ero, non me lo sarei meritata. Se anche avessi voluto, poi, non ne avrei avuto il tempo.
Approfittando del continuo silenzio di mia madre, intenta a seguire le indicazioni del navigatore, infilai le cuffie e mi assopii lungo le strade trafficate della Florida.
Qualche ora e due album dei Power-Haus dopo, il navigatore ci indicò di svoltare a sinistra. Da Harrison Avenue, mia mamma rallentò per svoltare in un vialetto alberato, l'ingresso al Fairwinds Treatment Center. A primo impatto somigliava a un'imponente struttura composta da villette a schiera, con i tetti a punta pronunciata e mattoni faccia vista. I colori caldi dell'enorme edificio contrastavano quasi con il verde brillante del prato curato che delimitava la strada d'accesso. Non avesse avuto un cartello con scritto in rilievo "psychiatric center", i passanti lo avrebbero di sicuro pensato come un resort per le vacanze.
La mamma parcheggiò l'auto nei posteggi adibiti.
«Arrivati!» disse in tono concitato, guardandomi negli occhi. Erano occhi di diopside grezza, un tempo brillanti, in quel momento poco valorizzati dal suo sguardo spento. Le ultime ore mi avevano lasciato troppo sfiancata per darci importanza, così rimisi le cuffiette nella custodia e scesi con lei senza aggiungere altro.
Entrai dietro di lei, nell'ingresso a porte scorrevoli del centro, calpestando il tappeto scuro che con caratteri a contrasto riportava il nome stesso, "Fairwinds Treatment Center". Era un'ospedale, ma con l'aria di una grande casa: a darci il benvenuto non furono luci asettiche e fenolo, ma plafoniere a luce calda e un olezzo di pour pourrie nell'aria.
«Buonasera, vi stavamo aspettando» disse una voce alle nostre spalle. «Sono l'infermiera Flores, faccio parte dell'equipe dei disturbi alimentari. Tu devi essere Amelia Reed, corretto?»
Flores era di corporatura tanto imponente quanto dolce era la sua voce. Un connubio bizzarro, dal risultato decisamente simpatico. L'espressione rilassata, gli occhi amichevoli semi-nascosti dal ciuffo biondo cenere poggiato su una spessa montatura nera mi fecero subito un'ottima impressione.
«Sono io, tanto piacere» dissi allungando la mano presa da un improvviso moto di coraggio «lei è mia madre Catherine.» Si strinsero la mano per presentarsi, in un sorriso di circostanza.
«E' un piacere conoscervi. Come vedi, questa clinica ha più l'aria di una grande casa, i fondatori hanno voluto avesse questo aspetto per mettere a proprio agio i pazienti che l'avrebbero frequentata. Vi spiego brevemente, questa è la sala accoglienza, in cima alle scale vi sono ambulatori e aule studio per i progetti di scuola a distanza, mentre seguendo il corridoio a sinistra si arriva alla sala comune e alla sala pasti. In questo corridoio invece ci sono le stanze dei pazienti ospitati, sono tutte camere doppie. La tua sarà la stanza cinque, in condivisione con una ragazza che conoscerai a breve» disse incamminandosi.
«Vi chiedo scusa per il mio essere così concisa, immagino di darvi un'impressione frettolosa. Nel rispetto dell'ideologia di comunità ci teniamo che siano le pazienti stesse ad accogliere le nuove colleghe e a presentare tutte le attività della struttura. Al momento le ragazze sono impegnate per la seduta di gruppo con la terapeuta, quindi per una volta posso io fare gli onori di casa» e con un sorriso caloroso aprì la stanza cinque, invitandoci ad entrare. La seguimmo a ruota portando la valigia appresso, e feci fiduciosa il mio ingresso in quella che sarebbe stata la mia stanza nel periodo temporale che ebbe inizio proprio in quel momento. Era una camera dalle pareti verde pastello molto spaziosa, con una grande finestra centrale che lasciava trasparire la luce del tramonto. Ai suoi lati, trovavano posto due letti da una piazza e mezza. Intuii che quello della mia compagna di stanza fosse quello di sinistra, perchè vidi delle scarpette da danza classica pendere dalla maniglia dell'armadio a due ante adiacente al letto. La stanza era speculare, quindi l'armadio dall'altro lato sarebbe stato il mio. Quella stanza, seppur spoglia, era splendente e trasmetteva davvero un senso di calma. Continuavo a guardarmi intorno cercando di ambientarmi il prima possibile. Anche mia madre si guardava intorno curiosa, ma conoscendola, era in realtà alla ricerca dell'unico granello di polvere da togliere.
«Ecco, questa sarà la tua stanza. Non posso farti altri spoiler» disse Florence ridendo tra sè per il gergo da millennial «in realtà, in fase di accoglienza, mi occupo di burocrazia con i genitori delle pazienti. Infatti ora vi lascio sole qualche minuto per salutarvi, anticipando già che il giorno di visita è la domenica. Signora Reed, la aspetto in segreteria all'ingresso. A dopo, Amelia cara» mi strizzò l'occhio sinistro e uscì sorridente.
Eravamo rimaste sole io e mia madre. Mi imposi di non parlare per prima, sperando di evitare le risposte cattive come il giorno precedente. Infatti, dopo un sospiro, iniziò lei, stupendomi: «Prenditi il tempo che ti serve, Amelia. Davvero, resta fin che non hai la certezza di essere perfettamente guarita. Troverai le porte di casa aperte, quando ti sarai sistemata.»
«Grazie, mamma» riuscii a rispondere con un nodo alla gola.
«Ti lascio sistemare le tue cose. Sembra carino qui. Pulito è pulito.»
«Ti aspetto domenica prossima con lo Swiffer allora» dissi cercando di smorzare la tensione.
Strinse le labbra trattenendo un sorriso, mi strinse una spalla e uscì. Non che mi aspettassi abbracci strappalacrime, quella sua smorfia trattenuta fu un successo visto l'andamento delle ultime ore. Rimasta sola, iniziai a disfare la valigia con le mani tremanti per l'agitazione, mettendo le tute nei ripiani, i pigiami in un cassetto e l'intimo in un altro.
Solo alla fine, a valigia vuota, mi accorsi che nella tasca interna della valigia era scomparso ciò che vi avevo nascosto. Il mio taccuino non era più dove lo avevo messo: ora lì, celati, vi erano dei calzini a righe ceruleo e grigio chiaro. Non trattenni più le lacrime, che sgorgarono incontrollate per l'ennesima volta.
A dodici anni portai a casa una vittoria, con un programma di gara privo di errori degni di nota, dopo una settimana di influenza in cui non ero riuscita ad allenarmi. Mia madre e io, euforiche, demmo il merito ai calzini nuovi. Da quel giorno, quei calzini vennero usati in via esclusiva per le gare, lavati rigorosamente a mano per paura che la lavasciuga nel tempo ne precludesse l'elasticità. Quelli, erano esattamente gli stessi calzini che ora tenevo in mano. Li aveva sostituiti al mio taccuino, di proposito.
In quel momento capii. Al di là delle uscite poco amorevoli di mia madre, la sua non era rabbia, non era delusione, non era frustrazione per i sogni infranti.
Mia madre aveva paura. Per me.
«Ciao!!» fece una voce allegra alle mie spalle. «Sono Ellison!»
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