25- 𝙏𝙝𝙚 𝙗𝙧𝙚𝙖𝙠𝙞𝙣𝙜 𝙤𝙛 𝙩𝙝𝙚 𝙨𝙞𝙡𝙚𝙣𝙘𝙚 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
Il palazzetto di Daytona mi dava sempre il benvenuto con un abbraccio che sapeva di parquet verniciato. L'atrio dell'ingresso atleti presentava dinanzi a sé le porte biverso che davano l'accesso alla pista, lasciando ai lati le entrate per gli spogliatoi. Anche senza essere in quell'enorme piattaforma legnosa, potevo sentire il leggero fruscio delle ruote sfrecciare su quei listelli rettangolari, il mio suono preferito: sempre dolce e caldo, più secco quando il pattino impatta al suolo dopo l'atterraggio di un salto o durante la preparazione di una trottola. Dall'atrio potevo sentire il lieve clicchettio di chi pattinava sul lato lungo della pista farsi più frequente quando il pattinatore passava per il lato corto, perché le lievi increspature del legno, nonostante i trattamenti, cominciavano a farsi sentire senza essere d'intralcio alla velocità. Suoni cui nessuno faceva mai caso, ma per noi che eravamo cresciuti a pattini e proteine erano melodia pura.
Avrei potuto vederli pattinare dagli oblò delle porte, se Audrey non li avesse fatti coprire da due sacchi della spazzatura neri per non permettere a nessuno di sbirciare gli allenamenti. I miei vecchi compagni avevano appena iniziato, e non appena richiusi la porta alle mie spalle i genitori si voltarono a guardarmi con l'aria esterrefatta di chi non immaginava che quel giorno sarei entrata lì.
«Amelia, tesoro!» La madre di Veronika mi venne incontro a stringermi in un abbraccio. Mentre venni circondata dai genitori curiosi di sentire un'atleta finita in una clinica riabilitativa, vidi le porte d'accesso alla pista aprirsi e richiudersi, senza avere la possibilità di riconoscere se qualcuno fosse entrato o uscito.
Mi parlavano, mi parlavano tutti. Alla caccia dell'ultima chiacchiera per poter spettegolare durante gli allenamenti dei figli, a quei genitori di me non fregava nulla. Il gruppo whatsapp del Daytona Skating Club era esploso al momento della notizia sul Florida Times, per poi tornare in un silenzio tombale nei giorni successivi. A nessuno, in realtà, interessava niente. Mai nessun messaggio da parte loro, nemmeno a mia madre, con cui avevano condiviso tantissime ore di attesa nell'atrio.
Loro parlavano e io volevo solo il silenzio. Il loro brusio aveva sovrastato lo sfrecciare dei pattini che avevo riconosciuto non appena avevo messo piede in quella che per anni avevo considerato la mia casa. Ero lì solo per parlare con due persone. E poco dopo un "bene, grazie" detto per proforma, le porte biverso si spalancarono di nuovo, rivelando la figura imperiale di Audrey Clark.
Era sempre la stessa: dai capelli acconciati in strette onde biondo miele divise da una riga centrale agli zigomi fin troppo definiti, a prova del fatto che aveva da poco fatto il filler. Mi veniva incontro con il passo sicuro di una ex campionessa d'America e un portamento elegante accentuato dalle sue maglie in Kid Cashmere. Da anni tutto il reparto maglieria del suo guardaroba era fatto in quel tessuto pregiato: diceva che la teneva al caldo in inverno e la riparava dall'umidità estiva.
«Bentornata, Amelia.» disse dandomi due freddi baci sulle guance. Aveva sempre quel profumo orientale che da piccoli tutti noi odiavamo, ma poi tutte le ore passate con lei ci avevano resi assuefatti. «Non sapevo che saresti venuta oggi.» Si scostò un attimo, per prendersi il tempo di guardarmi da capo a piedi.
Non sapevo quanto peso avevo messo al Fairwinds, il dottor Greg continuava a farmi salire sulla bilancia dando le spalle al display. Ma bastò lo sguardo di Audrey per farmi piombare addosso in un secondo tutti i centimetri di pelle in più. Mi avvicinai a lei, in modo che la mia figura intera non rientrasse nel suo campo visivo.
«Possiamo andare in pista? Ti devo parlare.» Cercai di essere più forte di ogni suo sguardo, ignorando la finta discrezione dei genitori alle sue spalle che sussurravano tra loro dando in realtà tutte le attenzioni a noi. Audrey mi guidò cingendomi le spalle con un braccio e un'aria falsa. All'improvviso, mi sentii un'ospite indesiderata.
Eravamo quasi arrivate alla porta quando mi strinse la spalla per farmi strada verso lo spogliatoio in destra.
«Ho bisogno di parlare con te e Kevin.» Dissi appena mi lasciò libera. Io volevo che fosse presente anche lui.
«Ci sono solo io.» Si sedette sulla panca incrociando le gambe snelle, continuando a puntarmi due occhi neri come la pece addosso. «Con il mio gruppo agonistico hai chiuso nel momento in cui tua madre ha scelto una clinica a duecento miglia da me e non la cura ambulatoriale. Con quella avresti potuto continuare qui, ma così...no, Amelia.» Parlava con voce sicura e sguardo severo, e capii che nonostante quello che era successo a una delle sue atlete di punta, Audrey Clark non era cambiata di una virgola.
Fu una doccia fredda, ma i conti, a me, non tornavano. Era stata chiara nel messaggio che avevo ricevuto un paio di mesi prima. «Mi avevi scritto che mi avresti aspettata.» Inclinai la testa di lato, confusa, in attesa di una sua risposta.
«Certo, qualche giorno. Sai benissimo che nel pattinaggio, a questi livelli, chi si ferma è perduto. Se vuoi puoi tornare a fare singolo, magari in qualche categoria promozionale, se proprio vuoi pattinare. Ma in questo gruppo siamo andati avanti, mi spiace. Ho bisogno di menti presenti e disciplinate, non di cervelli che costringono il corpo a non mangiare appena le fai presente che hanno messo peso.»
Stronza. Stronza, stronza e ancora stronza.
Da quella chiacchierata mi aspettavo di doverle spiegare i motivi della mia scelta e mi ero preparata mentalmente un discorso in cui le avrei chiesto di lasciarmi pattinare dall'altra parte della Florida. Ma forse mi ero data troppa importanza: lei aveva già scelto al posto mio. Ero fuori dalla sua squadra agonistica.
Sentii la rabbia entrare in circolo, un sangue velenoso che aspettava di esplodere come mai prima d'ora. Audrey mi aveva allacciato i pattini per la prima volta. E dopo tutti quegli anni in cui a modo suo mi aveva plasmata come atleta, mi stava sbattendo le porte in faccia con una freddezza unica. Capii che teneva a me come un bambino con il giocattolino nuovo: quando smette di luccicare, appena un angolo si crepa, si butta via. Avrei voluto risponderle a tono, ma dovevo restare focalizzata sul mio obiettivo e lei mi stava fornendo quell'occasione servendomela su un piatto d'oro, il suo metallo preferito.
«Allora sono sicura che non avrai problemi a mettere una firma qui.» Senza aggiungere niente, prendendo esempio dalla sua flemma, le consegnai il modulo per il cambio società ben aperto, in modo che si rendesse conto che forse non ero poi così finita se un'altra allenatrice era disposta ad allenarmi. Mentre lo leggeva, sfilai dalla tasca della i tuta venticinque dollari necessari da regolamento nazionale e me ne restai lì, con il braccio allungato in attesa di un suo commento maligno.
«L'Academy, il paese dei balocchi.» disse con aria strafottente quando lesse il nome di Martina Davis nella sezione dedicata alla società ricevente.
«Firma il foglio, Audrey, e levo il disturbo. Tanto sono comunque fuori, no?» Quasi rideva, quando filò dalla borsetta la sua inseparabile Montblanc, la stessa con cui tracciava le linee dei nuovi programmi di gara su dei fogli immacolati che sarebbero poi passati nelle mani del coreografo.
«Se quel Davis fosse stato un mio atleta lo avrebbe vinto il mondiale.» Scribacchiò la sua sigla e quando mi guardò di nuovo vide quelle banconote che stringevo tra le dita ricominciò: «Non me ne faccio niente di quella misera cifra, Amelia. Valevi molto di più, prima delle scelte di tua madre.»
Me lo ricordavo bene, quel giorno. Fosse stato per me, avrei scelto di restarmene in quel letto d'ospedale ad aspettare che la vita se ne andasse. Non avevo le forze per nessun tipo di scelta, se non quella di restare nascosta. Mia madre aveva scelto per me. L'essere ancora minorenne si era rivelata una fortuna, perché il Fairwinds e la mia forza di volontà si erano rivelati un'accoppiata vincente.
Audrey stava attaccando. Mi sminuiva come nessuno avrebbe meritato. A suo dire, valevo meno di venticinque dollari. Lei voleva vedermi reagire e io volevo solo andarmene.
«Ecco fatto.» Disse ripassandomi il foglio. «Sei libera.»
Una cosa giusta l'aveva detta. Ero ufficialmente libera. Libera di seguire la passione e non un risultato. Un tempo le parole di Audrey mi avrebbero segnata fino alle lacrime, ma quel giorno riuscii a controllare la rabbia grazie alla consapevolezza di avere comunque un futuro davanti. Un futuro diverso, ma pur sempre uno che valesse la pena provare, e mi aggrappai con ogni mia forza a quello senza lasciare che le cattiverie mi spezzassero ancora una volta.
Infilate di nuovo le banconote in tasca, uscii da quello spogliatoio a passo sicuro, e me ne andai salutando spedita i genitori che probabilmente erano rimasti a origliare. Una volta salita in macchina sventolai il documento firmato sotto il naso di mia madre, cercando di mostrarmi così euforica che, per una volta, non diede nessun giudizio. Audrey mi aveva appena fatto un regalo enorme.
Tornammo a casa per preparare in fretta un'altra valigia, in cui riposi tutti i miei completi da allenamento e i jeans che se ne stavano inutilizzati sul fondo dell'armadio. Avevo un treno da prendere e non vedevo l'ora di tornare a Clearwater, tant'è che passai tutte le ore di viaggio a guardare incredula quella firma e pensare a come dire a Jordan che quell'anno avrei pattinato con lui. Quando Florence mi riaccompagnò dalla stazione di Tampa al Fairwinds, il sole iniziava a tramontare e avevo il da farsi ben chiaro. Scrissi un piccolo messaggio prima di riconsegnare il telefono:
A: Alla finestra che diede inizio alla congiunzione astrale. Hai dieci minuti.
Jordan visualizzò subito, ma non rispose nemmeno. Non sapevo come interpretarlo, se fosse impegnato in quel momento o se si fosse fatto prendere dalla foga. Forse ero stata troppo perentoria, ma l'avrei aspettato. Corsi in camera e lasciai la valigia abbandonata a se stessa quando mi accorsi di un corpicino nascosto sotto le coperte. Negli ultimi giorni Elly si annoiava così tanto che aveva preso a dormire al pomeriggio. Probabilmente il pisolino di quel giorno le era sfuggito di mano, perché dormiva beatamente avvolta tra le lenzuola con il volto nascosto da una chioma di capelli scuri.
«Elly! Elly!» Per una volta, fui io a svegliarla. Iniziai scuoterla un poco, cercando di essere delicata nonostante la fretta. «Elly, ho bisogno della felpa di Jordan.»
Non mi rispose nemmeno. Provò a biascicare qualcosa, ma alla fine la sua mano comparve dalle lenzuola a indicarmi l'armadio. Lo presi per un sì.
Aprii quelle ante che, a differenza di quelle di Lisa, mi presentarono il caos più totale. Quasi imprecando, iniziai a rovistare nel marasma di vestiti fino a tastare un cotone garzato che riconobbi simile a quello già indossato in precedenza, ma quando la aprii mi accorsi di aver sbagliato. Quella felpa over aveva un orsetto stilizzato su una scritta con effetto murales. "Be my teddy bear". Di certo non era quella di suo fratello.
Il tempo iniziava a stringere, forse Jordan stava arrivando e volevo farmi trovare pronta. Iniziai ad andare in panico e a rovistare con più foga nel suo armadio, lanciando alle mie spalle qualsiasi indumento non fosse quello giusto.
«Amelia, se mi alzo ti strozzo!» Almeno Elly si era svegliata.
«Ho fretta! Poi sistemo tutto meglio di prima, promesso!» Continuavo a scagliare sul suo letto felpe, magliette e pantaloni, finché non trovai, nell'angolino del ripiano, la famosa felpa. Quell'enorme, morbida, felpa azzurro cielo.
Fai come se fosse tua, mi aveva sussurrato all'orecchio il giorno in cui avevo provato a parlarci per la prima volta. L'avrei preso alla lettera.
«Trovata!» Urlai esaltata e corsi verso il salotto alla ricerca dei pennarelli. Ne avevamo tanti e inutilizzati, perché nessuno li toccava mai a eccezione di Lisa quando disegnava i bozzetti dei suoi vestiti. Ne avevamo di tutti i tipi: pastelli, colori a cera, tempere, pennarelli di misure diverse. Ma quello che scelsi fu un indelebile nero. Gli avrei rovinato la felpa e nemmeno sapevo se si sarebbe arrabbiato o meno. Poco mi importò in quel momento: l'indelebile era segno di sicurezza. Niente e nessuno avrebbero cancellato un singolo tratto. Scarabocchiai alla buona la mia risposta risposta sul petto: un sì a caratteri cubitali, dai tratti indefiniti lasciati da una mano tremante ed emozionata.
«Amelia. Hai davvero usato l'indelebile su una felpa da almeno cinquecento dollari?» Lisa era piombata alle mie spalle e mi fissava a braccia conserte e uno sguardo sbarrato.
«Non è di marca, non ha nessun logo.» Cercai in fretta l'etichetta interna: Balenciaga. Mai sentita.
Lisa iniziò a ridere sguaiata. «Non voglio perdermi la reazione di Jordan. Poi ti farò scuola di moda: scoprirai che c'è un mondo oltre Nike e Adidas.»
«Come vuoi.» Corsi di nuovo in camera infilandomi la felpa, seguita dai passi più tranquilli di Lisa. Non ci era concesso correre al Fairwinds, ma in quel momento ignorai quella regola e i richiami di Florence. Spalancai la porta della nostra stanza e andai dritta ad aprire la finestra per sgattaiolare fuori e perlustrare ogni centimetro del perimetro del Fairwinds. Non era arrivato nessun SUV nero e non riuscivo a intravederlo nemmeno tra i piccoli buchi della siepe.
Iniziai a muovere la gambe nervosa, alzavo i polsini della felpa lungo l'avambraccio per farli poi ricadere a coprirmi le mani ogni volta che abbassavo le braccia. Camminavo avanti e indietro in attesa di veder arrivare Jordan e nel frattempo tutte le ragazze, Emily inclusa, si erano affacciate alle loro finestre senza aver alba del motivo della mia irrequietezza.
Stavo per svoltare l'angolo di quell'imponente struttura in mattoni quando sentii stridere sull'asfalto le ruote di una macchina in frenata. Mi voltai e vidi Jordan scendere veloce dall'auto senza nemmeno spegnerla, e corsi verso di lui coprendo la scritta sul petto con le braccia.
Dalla fretta di arrivare in tempo, non aveva neanche parcheggiato la macchina. Non si era nemmeno nascosto. Alla luce aranciata del sole in pieno tramonto, Jordan se ne stava in piedi vicino alla sbarra a guardarmi arrivare sotto lo sguardo indispettito di John, già sul piede di guerra per la visita fuori orario.
Quando fui abbastanza vicina, aprii le braccia rivelandone la scritta. Non dissi niente, ero certa che il sorriso sul mio volto e la risposta messa in nero su azzurro sarebbero stati intuitivi. Una calamita fatta di sguardi che non avevano bisogno di essere spiegate a parole. Bastavano quelle di John, che iniziò a mandarlo via alzando la voce.
Ma lui, non si fece abbattere. Lo fregò indicando qualcosa alle sue spalle, e non appena il portinaio si girò a guardare il punto segnatogli, Jordan scavalcò la sbarra e si precipitò di fronte a me. Mi squadrò da capo a piedi, ma non come Audrey poche ore prima. Jordan mi guardava, facendomi sentire bella e desiderata.
«Pattineremo insieme davvero?» Chiese afferrando il bordo della felpa per appianare il tessuto con la scritta e portarmi addosso a lui, appannandomi i sensi ancora una volta.
«Giuro.»
Jordan si liberò in uno di quei suoi sorrisi mozzafiato per poi prendermi in braccio e stringermi a sé. E il mio mondo prese a girare tra sogni e speranze, in un attimo spensierato sospeso tra il Fairwinds e gli abusi che con una firma erano finalmente finiti. Ridevamo, di quelle risate pure e cristalline, stretti in un abbraccio fatto di promesse silenziose che lasciavano spazio solo all'unisono dei nostri cuori.
Le ragazze che avevano assistito a tutta la scena delle loro camere se ne stettero appollaiate ai davanzali delle finestre ed iniziarono a fare teneri gridolini che in altre situazioni mi avrebbero messa in imbarazzo. Ma noi due eravamo così in estasi da fregarcene; anche dei clacson delle macchine che avevano iniziato a suonare i clacson, incolonnate dietro un SUV abbandonato in mezzo alla strada ancora in moto.
«Reed, fili dentro subito.» fece una voce alle nostre spalle. La severità del dottor Greg era riconoscibile anche senza voltarmi. Jordan mi rimise a terra e ancora una volta scostò i capelli che mi ricadevano sul viso, portandoli dietro l'orecchio a scoprire i piccoli punti luce che tanto amavo. Mi bruciava, con quella colata d'oro illuminata dagli ultimi raggi di sole di quel giorno.
«E io ti giuro che avremo del tempo solo per noi, prima o poi.»
Ciao a tutti!
Finalmente è arrivata l'ora del sì! 😂
Vi ricordo che mi trovate su instagram come amelieqbooks, seguitemi!
Più tardi ci sarà il box domande, dove possiamo commentare insieme il capitolo
e parlare di qualsiasi cosa vogliate! 💜
A dopo! 🦋
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