22- 𝘽𝙞𝙜 𝙘𝙞𝙩𝙮 𝙢𝙖𝙯𝙚 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢
Da accordi con la Cameron avevo dovuto avvisare mia madre dei progressi fatti nel mio percorso al Fairwinds. Era l'unico familiare che mi era rimasto e l'unica che mi avrebbe riaccolta a casa dopo le dimissioni. Era importante che lei fosse a conoscenza delle mie scelte, poco importava se fosse d'accordo o meno. Dopo aver saputo del college, mia madre aveva fortemente voluto accompagnarmi al primo colloquio con il consulente scolastico.
La mattina dell'appuntamento si presentò come un orologio svizzero alle 9.30 precise. Non sembrava nemmeno che si fosse svegliata a orari indecenti per farsi quattro ore di auto, perché quando John della portineria la fece passare, arrivò all'ingresso perfetta come al solito: non un'ombra di occhiaia, una camicetta che non aveva la minima piega e una tazza di caffè che seccai a grandi sorsate non appena salii in auto, prima ancora di salutarla. Non era più fumante, ma era pur sempre un caffè.
«Sembri una tossica.» Iniziò guardandomi di sottecchi.
«Te ne sei bevuta almeno due venendo qui. E uno appena sveglia.» La conoscevo abbastanza bene da sapere di parlare con cognizione di causa.
«Tre.» Ammise quasi sotto voce.
«Chi è la tossica quindi?» Rigirai la sua frase, perché la mela non cade lontano dall'albero.
«Entrambe.» Severa ma giusta, le riservai una risatina. Ero emozionata quel giorno, mi attendeva un primo colloquio per iniziare una vita normale.
Con poca sorpresa notai che mia madre riusciva a muoversi per il labirinto di strade di Clearwater come se fosse una del posto: conoscendola, nei giorni precedenti all'incontro, si era studiata alla perfezione le vie che portavano al college. Lo capii quando imboccò la sessantaseiesima e proseguì dritta finché sulla sinistra trovammo la sede centrale del college, senza aver mai usato il navigatore.
Una volta scese dall'auto la vidi incamminarsi di buona lena verso l'entrata, arrovellandosi in cerca di qualcosa nella tote bag. Mi allungò una mentina, perché a suo dire una buona presentazione era tutto, in vista dell'ammissione. Avevo scelto di non rinunciare alla felpa ma Lisa, una volta scartata una sua camicetta troppo raffinata, mi aveva prestato un paio di jeans e i miei piedi si erano di nuovo ristretti nelle Converse di Elly. Non ero elegante ma nemmeno troppo sportiva.
Il mio ingresso al St. Petersurg college passò, per fortuna, nell'anonimato. Erano tutti indaffarati con fogli volanti, appunti, chiacchiere e c'erano studenti in ritardo che correvano per raggiungere in orario l'aula della lezione successiva. Ci addentrammo lungo il corridoio che portava allo studio del consulente, e subito saltarono all'occhio le cornici con il primo piano degli studenti degni di nota che negli anni avevano varcato le porte di quel college: vi distinsi il chitarrista dei Doors, Jim Morrison, e anche Nicole P.Stotts, l'astronauta NASA che qualche anno prima aveva annunciato il ritiro dalle missioni.
Continuai a guardare quelle foto fin che non vidi mia madre bussare alla porta in fondo al corridoio, e affrettai il passo per affiancarmi a lei. Mentre oltre la soglia sentivo avvicinarsi il suono delle scarpe su un pavimento in parquet, notai subito una targhetta semplice ed elegante, appesa ad una porta in legno finemente intagliata.
"Il futuro appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni"
Eleanor Roosevelt
Era una frase piena di significato e speranza, così tanto che la targhetta sottostante che riportava il nome del dott. Paul Gipson, il consulente scolastico, passava in secondo piano. La porta si spalancò, rivelando la figura dell'uomo più alto che avessi mai visto.
«Buongiorno» Si presentò con una voce baritonale. «Signorina Reed e... la madre, suppongo?» La guardò in modo strano, come se fosse stupito nel vederla lì.
«Si, sono Catherine, tanto piacere.» Gli strinse la mano ed entrò nello studio con la sua solita sicurezza stampata in un sorriso brillante.
Attraversai la nube di dopobarba che il dottor Gipson irradiava, e mi accomodai in quell'ufficio dove il legno massello la faceva da padrone, senza l'ombra di qualsiasi effetto personale.
«Allora, Amelia.» Iniziò sistemandosi sulla grande sedia foderata in pelle dietro la scrivania. «Quando ci siamo sentiti al telefono mi hai presentato la tua situazione, è particolare. Sai già per quanto tempo resterai qui a Clearwater?»
«Qualche mese ancora.»
«Certo, non sei la prima che accogliamo dal Fairwinds. Vi diamo la possibilità di seguire le lezioni in presenza oppure online, ovviamente gli esami di fine semestre verranno fatti solo in presenza. Mi pare di aver capito che non starai qui per l'intera durata del corso, e ti rassicuro già sul fatto che quando sarà ora di tornare a casa ti aiuteremo con la parte burocratica del trasferimento. A quale corso saresti interessata?»
«Studi legali, sin da quando era bambina.» Rispose di getto mia madre. «Dopo il pattinaggio, è sempre stato questo il piano.»
Il consulente sembrò così infastidito dalla sua intrusione che non la guardò nemmeno. Continuò a fissarmi, aspettando che fossi io a parlare.
«Scienze dell'educazione.» Risposi con fermezza. Avevo scelto di non avvertire mia madre del mio cambio scelta, perché facendolo le avrei permesso di mettersi in mezzo. Lei ci era comunque riuscita, ma con la coda dell'occhio la vidi irrigidirsi e socchiudere le palpebre a contenere tutta l'irritazione che trasaliva in quel momento.
«Ci ho pensato molto, ultimamente.» Parlavo con lo sguardo rivolto al consulente, ma in realtà stavo spiegando a mia madre i motivi del mio cambio programma. «Non mi ci vedo a passare le giornate tra aula e ufficio. Preferisco l'idea di lavorare con i bambini. Voglio seguire scienze dell'educazione.»
«Ok.» Disse mia madre a denti stretti. In apparenza composta, sapevo che dentro di sé arginava con tutte le sue forze un fiume di nervoso ai limiti dell'esondazione.
«Bene, mi sembra decisa, signorina Reed. Il nuovo semestre inizia a gennaio, ma se volesse venire ad assistere a qualche lezione per ambientarsi e vedere come funziona la vita al college, sappia che le porte sono aperte, posso farle avere gli orari via mail. So che lei ha sempre studiato da casa con un tutor, corretto? Avrebbe qualche fascicolo attestante i programmi svolti?»
«Si certo, li ho qui» Mia madre gli allungò la cartellina ben organizzata in cui avevo inserito, in ordine cronologico, tutti gli esami dati nel corso degli anni in cui non avevo frequentato la classica scuola.
«Ottimo, davvero sorprendente.» Disse il dott. Gipson sfogliando il fascicolo. «Sono sicuro che il SAT andrà alla grande.»
«Il che?» Non ne avevo mai sentito parlare.
«Il SAT.» mi sorrise. «Un test attitudinale. Lettura critica, matematica e scrittura. Lo chiediamo di norma per l'ammissione ai corsi, in particolare agli studenti che hanno una formazione scolastica alternativa alla tradizionale, ma anche a quelli provenienti da stati esteri. Lo fisserei per il quindici dicembre, che ne dice, Amelia?» propose consultando il calendario.
Se speravo che l'ammissione al college fosse una passeggiata, mi sbagliavo di grosso. Ero sempre andata bene nel mio programma scolastico, ma ero terrorizzata all'idea di prendere una penna in mano per essere valutata da professori sicuramente più esigenti di quelli di Daytona. Stavo entrando al college, mica all'asilo. In qualche modo, sapevo che mi sarei preparata.
«Vada per il quindici.» Cercai di mostrarmi sicura di me, anche se stavo già pensando a prepararmi un programma di studio per arrivare pronta al test.
Il dottor Gibson finì di appuntare alcune cose nella sua agenda e si alzò per riaccompagnarci alla porta, segno che il breve colloquio era giunto a termine. «Sarà un piacere averla tra gli studenti per il tempo necessario, signorina Reed. Sono qui per qualsiasi cosa.» Era stato gentile. Ci salutò con una stretta di mano e ci lasciò andare lungo il corridoio.
Mia madre prese a camminare nervosa, al punto che faticavo a starle dietro nonostante l'atleta, tra le due, fossi io. Non appena salimmo in auto ero convinta che di lì a poco iniziasse a urlarmi contro per quel cambio programma di cui non era a conoscenza, ma se ne stette zitta, concentrata alla guida senza mai distogliere lo sguardo dalla strada. Il suo silenzio non mi fu affatto scomodo, perché se quel fiume di nervoso fosse esondato sarebbe iniziata l'ennesima litigata. E non avevo voglia di tirare di nuovo fuori le unghie con lei.
«Potevi dirmelo.» Disse a pochi metri dal Fairwinds.
«Ti saresti arrabbiata.»
«Non sono arrabbiata.» Lo aveva detto davvero. Ma poi aveva preso a ticchettare ritmicamente con l'indice sul volante, come a seguire una base musicale inesistente.
«A parole dici così, ma il tuo silenzio dice tutt'altro.»
«Mi sono ripromessa di lasciarti fare, di lasciarti decidere il tuo futuro. Non è così facile come sembra. Ma se pensi che fare la maestra ti renda felice, hai scelto il corso giusto.»
Avrei potuto dirle un mare di cose: che quel tono era poco convincente, che sembrava stesse usando le parole della sua terapeuta per convincere se stessa più che essere un reale supporto per me. Ma ero così orgogliosa di aver superato una delle mie paure, esponendo quello che era diventato un mio desiderio, che mi limitai ad un «Grazie» detto con un tono impavido quando ormai avevamo superato l'ingresso al Fairwinds.
Prima di andarsene mi fece promettere che l'avrei chiamata per qualsiasi cosa di cui avessi bisogno, ma in realtà promisi a me stessa che le avrei chiesto aiuto solo in caso di estrema necessità. Mi sarei arrangiata il più possibile.
Quel pomeriggio fu Lorelai a portarmi al campo sportivo per l'allenamento dei piccoli, e quando arrivammo allo spiazzo più distante dalla pista, trovai in fermata un SUV nero dall'aria familiare: già da qualche lezione, Jordan aveva preso l'abitudine di farsi trovare pronto nel parcheggio esterno al campo sportivo, in modo da non farmi fare a piedi tutta la strada che portava alla pista. Mi accertai che fosse lui, e riconosciuto quel ciuffo castano caricai il borsone in spalla e andai dritta a sedermi al lato passeggero.
«Ciao, galeotta.»
«Ciao, complice della galeotta.» Nelle ultime due settimane, in quei brevi tragitti in macchina, avevamo preso il via a parlare sempre di più. Non avevamo mai toccato tasti dolenti nei discorsi, non era mai stato troppo invasivo con le domande, e si stava rivelando una persona talmente buona che avevo accantonato l'idea che fosse stato lui a commissionare quell'orribile articolo. Dopo il vaffanculo scritto su Whatsapp, avevamo anche preso a scambiarci qualche breve messaggio la sera. Mi raccontava del suo lavoro, degli atleti con cui collaborava e si interessava a film, giochi e libri letti in clinica.
«Sono stata al college stamattina, avevo l'incontro con il consulente. Devo fare il SAT, tra un mese.»
«Non è così difficile.» Fece spallucce. «Dovrei avere ancora gli schemi che avevo fatto per prepararmi, quando è stato il mio turno per accedere al college. Te li presto, se vuoi.»
«Non lo chiedono solo se fai percorsi scolastici diversi dal normale?»
«Non sei l'unica a non essere andata tra i banchi di scuola, Amelia.» Parcheggiò l'auto e scese, come ad aver fretta. C'era qualcosa sotto.
«Perché non sei andato a scuola?»
«Non è il momento di parlarne.» Mi liquidò. «Vieni, ci stanno aspettando i bambini.»
Più lo conoscevo, più scoprivo che anche lui aveva degli scheletri nell'armadio di cui non parlava. Misi un freno alla curiosità e lo seguii a bordo pista. Arrivati agli spalti infilammo velocemente i pattini, perché i bambini erano già pronti, con i lacci dei pattini ben stretti e decisamente scalpitanti.
Ad ogni lezione, qualche bambino aveva iniziato a portarmi disegni dai colori vivaci e pattini sproporzionati, riempiti da cuoricini che incorniciavano il mio nome. Erano bravi, ascoltavano tutto e si impegnavano davvero tanto. Martina mi aveva spiegato che la regola data loro era sempre quella di divertirsi, e ogni volta me lo dimostravano. La parte migliore della lezione, a loro dire, era la fine: supplicavano me e Jordan di mostrargli ogni volta qualcosa di diverso, perché volevano vedere "cosa si può fare quando si diventa grandi e bravi come voi."
Jordan accontentava di buona lena le loro richieste, e delle volte sembrava non aspettasse altro. Mi prendeva per mano, facevamo qualche giro di pattinata in sincrono e poi ci divertivamo tra le varie spirali e le trottole di insieme. Lì, ci separavamo per disegnare sulla pista due cerchi che si riunivano nel punto di separazione. In quel punto, con le braccia ancorata alle sue spalle, iniziavamo a volteggiare intorno a un asse di rotazione comune.
«Qualcosa di diverso, oggi.» Propose con aria furba.
«Cosa vorresti? Sentiamo.»
«Un sollevamento facile. Un finto laccio.» Fattibile.
«D'accordo. Quello che fanno i ragazzini, però. Sollevami finché arrivo alle tue spalle, non mandarmi alla massima altezza.» Non gli avrei concesso nulla di più.
«Che palle, Reed.»
«Così o niente.» Incrociai le braccia al petto con espressione seria.
Sbuffò prendendomi la mano per aumentare la velocità. Non avevo paura di essere alzata da Jordan, sapevo che il mio peso per lui non era un problema. Avevo letto un sacco di romance in cui le pattinatrici andavano lamentandosi del loro peso prima di essere alzate dai nuovi partner.
Ma a me il pattinaggio piaceva studiarlo, senza limitarmi al lato pratico. Per quanto non riuscissi a vedermi per come ero realmente, sapevo di essere nella parte bassa del range del normopeso, e sapevo perfettamente che per la buona riuscita di un sollevamento la leggiadria della dama incideva, ma fino a un certo punto.
Dopo che Kevin si era lamentato del fatto che fosse lui a dovermi alzare e non la nutrizionista, avevo chiesto spiegazioni al nostro tutor, perché non mi vedevo poi così grossa in quel periodo. La sua frase era stata una cattiveria. Ignorante, per giunta. Il docente mi aveva spiegato i sollevamenti da un punto di vista fisico: a meno che la dama non fosse visibilmente in sovrappeso, la riuscita di un sollevamento dipendeva molto dalla spinta che lei riusciva a darsi salendo in posizione. Una volta in aria, la velocità e l'insieme di forze vettoriali che agivano sul corpo in movimento sarebbero stati di aiuto al partner.
Forte delle spiegazioni rassicuranti del tutor, mi preparai afferrando le mani di Jordan nella presa corretta, e al suo via mi diedi una piccola spinta, quel che bastava per portare il bacino al livello delle sue spalle.
Dovevo immaginarlo però, che Jordan avrebbe fatto di testa sua. Il mio bacino sfiorò appena le sue spalle, perché nonostante non mi fossi data la massima spinta, Jordan tese al massimo le braccia in alto sollevandomi sopra la sua testa in un nanosecondo, e prese a girare su se stesso mentre percorreva il lato lungo della pista.
«Sei un deficien-» Urlai.
«I bambini, Reed. Ti faccio licenziare se dici le parolacce.» Era incredibile come riuscisse a parlare durante un sollevamento. In una situazione che avrebbe dovuto mettermi paura, io ero a mio agio. Ne approfittai così per mettermi nella giusta posizione: con la schiena eretta e le braccia in tensione a reggere il peso del mio corpo, aprii le gambe in spaccata frontale, suscitando gli ennesimi cori di stupore dei bambini.
Il finto laccio era uno dei sollevamenti più semplici, portava pochi punti nel punteggio tecnico e quasi nessuno tra le coppie senior lo portava in gara. Per lo meno, non quelli che volevano stare nella parte alta della classifica. Puntavamo tutti a sollevamenti più spettacolari, in combinazione tra loro, magari con qualche posizione particolare in aria, per racimolare punti in più.
Quattro giri su se stesso e Jordan mi riportò con le ruote a terra. Ridevamo, a più non posso. Era stata l'ennesima dimostrazione che con lui le cose erano semplici. Di solito i sollevamenti venivano prima collaudati con le scarpe, magari vicino a qualche materasso per attutire eventuali cadute, o con un allenatore vicino che potesse intervenire in caso di bisogno. Non ci era servito nulla di tutto ciò, nonostante avesse deciso di rendere più difficile il sollevamento in ultimo, senza avvisarmi e senza darmi la possibilità di aiutarlo di più nella fase di spinta.
Aveva preso il vizio di trattenermi sempre oltre la figura eseguita per sussurrarmi ogni volta qualcosa di diverso, prima di lasciarmi andare. Si trattava sempre di un attimo in grado di accendere una piccola scintilla capace di dar vita ad un esplosione, perché ogni volta mi ritrovavo il cuore in gola.
"Lo ripeterei all'infinito", "Sei più bella ancora, quando ridi."
Erano sempre state cose carine, ma quel giorno prese la strada della spavalderia: «Non chiedermi mai più cose troppo semplici. Le categorie giovanili le ho finite una vita fa, piccola Reed.»
Non gli risposi, perché preferii superarlo e distanziarmi un poco in modo che potesse vedere il dito medio che sfoderai alle mie spalle, senza che i bambini lo vedessero. E in risposta, lui rideva ancora di più.
C'era sempre un clima allegro all'Academy, così tanto che se me lo avessero raccontato senza avermi dato modo di toccarlo con l'anima non ci avrei mai creduto.
Alla fine della lezione, tolti i pattini e salutati i bambini, tornai in macchina con lui, in modo che mi lasciasse al parcheggio dove Lorelai mi aspettava. A differenza dei tragitti percorsi nelle settimane precedenti, era stranamente silenzioso. Non progettammo la lezione successiva. Non parlammo affatto, non mi rivolse nessuna occhiata e non avvicinò nemmeno la mano alla mia coscia per sfiorarmi con la scusa di dover afferrare la leva del cambio. Aveva un'espressione seriosa dai tratti preoccupati, accentuata da un respiro più pesante del solito. Non era il Jordan cui mi stavo abituando. Si sbottonò solo alla fine, quando accostò accanto all'auto del Fairwinds.
«Amelia, io...ti devo parlare.»
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