15- 𝙒𝙖𝙫𝙚𝙨 𝙖𝙣𝙙 𝙝𝙤𝙥𝙚 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢

Se io avevo scelto di vivere di soli pattini, per Ellison la vita era stata un continuo dentro e fuori dagli ospedali, costretta dalla sua malattia a vivere una vita non richiesta. Senza telefono, tornava ad essere privata di qualsiasi contatto con il mondo esterno, in particolare con Steven. Nonostante lui fosse all'oscuro della reale situazione di Ellison, tra i due c'era decisamente del tenero. La perquisizione e il conseguente ritiro del cellulare avevano sortito in lei lo stesso effetto che la congiunzione astrale aveva avuto su di me: la famosa molla, era scattata anche per lei, ed ora era più determinata che mai a guarire.

Felice per la mia prossima uscita sul lungomare di Clearwater, la mattina seguente Ellison mi aveva aiutato a cambiare le ruote dei pattini, sostituendo le ruote per il parquet della pista di Daytona con quelle giallo fluo adatte per pattinare sull'asfalto, con un diametro maggiore per dare più stabilità. Aveva un'organizzazione che solo una persona costretta dal fratello ad anni di pulizia dei cuscinetti e cambio ruote può avere: svitava il bullone, sostituiva la ruota e riavvitava in velocità il bullone, verificando ogni volta che fosse chiuso a sufficienza in modo che la ruota scorresse al massimo della velocità senza ballare sul perno. 

Dopo pranzo, perse nella nullafacenza nel salotto del Fairwinds, Lorelai invitò le ragazze a prepararsi per la piscina, e tutte si alzarono controvoglia, infastidite alla sola idea di trascorrere le prossime ore con Hailey.

«Tu non vieni?» mi chiese accigliata Emily.

«No, vado a pattinare sul lungomare oggi pomeriggio.» Spiegai senza dar peso alla sua domanda.

La vidi stringere le spalle irrigidendo le braccia, e chiuse le mani in un pugno stretto.«Ovvio. La principessina delle piste deve avere il trattamento di corte.» Mimò una riverenza.

«Scusami?» Non potevo aver sentito davvero quelle parole.

«Hai sentito benissimo. Siamo tutte qui rinchiuse da mesi, per noi nemmeno un'uscita premio. Chi ti credi di essere?» Che problemi aveva?

«Emily, smettila.» Provò a fermarla Lisa.

«Ma dai, vuoi dirmi che a te non da fastidio?» Si arrabbiò visibilmente. «Sappiamo tutte che è scappata con Elly e sono state beccate. Tu le hai anche prestato i tuoi vestiti firmati. I muri qui dentro sono di cartapesta, dovreste saperlo ormai.»

Ero basita. Tra tutte, Emily era sempre stata la ragazza più silenziosa. Con i suoi capelli corvini e i vestiti rigorosamente di due taglie più grandi per nascondere le curve abbondanti, avevo pensato che il suo silenzio fosse dovuto alla timidezza. Ma il tono che mi riservò quel giorno, mi fece capire di essermi sbagliata. Non era timida, le stavo decisamente antipatica.

«Non è giusto. Siete scappate di nascosto e tu vieni premiata così.» Riprese.

«Emily, parliamo del tuo primo e ultimo permesso?» Rientrò di foga Ellison in salotto. Doveva ancora finire di vestirsi, indossava il costume intero e cercava di raddrizzare la maglia che teneva in mano. Sicuramente aveva sentito tutto. «Sei stata riportata qui in clinica dopo che la Cameron in persona è venuta a prenderti in commissariato. Sei stata beccata dalle telecamere a rubare in un supermercato, e trovata poco dopo in un angolo della strada ricoperta dalle carte vuote di snack, dolcetti e patatine. Devo continuare a parlarti di quel giorno o la finisci qui? Perchè posso andare avanti a oltranza, come quando hai forzato la serratura della dispensa.» Se Emily era un fiume in piena, Ellison era un mitra che non perdeva un solo colpo. Si guardavano, con aria di sfida, come se quell'episodio fosse solo la conseguenza di una situazione protratta nel tempo.

«Andate a 'fanculo.» Emily se ne andò senza aggiungere altro, con il respiro in affanno, probabilmente umiliata dai ricordi che erano riaffiorati. Ci lasciò in balia dello sconcerto.

Privazioni ed eccessi, controllo e ingordigia, penuria e abbondanza, anoressia e binge eating. Elementi contrastanti costretti alla convivenza nella gabbia dei disturbi alimentari. 

«Lasciala stare, Amy.» Si avvicinò Lisa. «E' invidiosa. Tu hai fatto grossi passi avanti in così poco tempo, mentre lei continua a sfogare la mancanza di controllo che ha su se stessa cercando di dominare qualsiasi cosa non la riguardi.» Mi diede un buffetto sulla guancia. «Non farti travolgere dalle sue parole. Pattina, e stasera voglio sapere com'è stato.»

«La tua strada, Amy.» Disse mettendosi la maglietta Ellison. «Continua per la tua strada, non farti mettere i bastoni tra le ruote. Ci avranno anche beccato a zonzo, ma nulla toglie all'impegno che noi tutte vediamo in te. Te li meriti, i pattini.»

Quel pomeriggio non rividi più Emily. Mentre Lorelai accompagnava le ragazze in piscina, andai a prendere gli amici di una vita. Non volevo perdere un solo secondo del mio tempo libero, e decisi che sarei salita in macchina con i pattini già indossati. Nel silenzio rimasto al Fairwinds, presi i miei stivaletti candidi, un po' logori in punta ma sempre profumati di disinfettante, e feci scorrere qualche ruota solo per sentirne quel tipico suono bianco capace di infondermi la calma più estrema. Quando li indossai, mi sentii a casa. L' imbottitura interna dello stivaletto, ormai sagomata sul mio piede dalle ore di allenamento, mi riaccolse come quando due metà, destinate a stare insieme, tornano a combaciare alla perfezione. Strinsi i lacci lungo il collo del piede, intrecciandoli ai ganci sulla caviglia. Erano gesti ormai automatici che mi erano mancati come l'aria, e una volta fatto il doppio nodo, ero pronta.

Pattinai lungo il corridoio e uscii dalla porta principale saltellando sul tappeto d'ingresso, che faceva troppo attrito per permettere alle ruote di scorrere. Lorelai, che mi stava aspettando al posto di guida, mi guardò salire dal lato passeggero con un sorriso empatico. Probabilmente non servì chiedermi come stessi, perché il mio volto parlava da solo. Poco importava dell'invidia di Emily, dell'articolo nel giornale o del leone da tastiera che aveva inviato le foto della nostra nottata alla Cameron. Poco importava addirittura di mia madre, che non mi aveva più richiamata. Anche se, a dire il vero, un pizzico di nostalgia aveva fatto la sua breve comparsa, perchè con lei ero solita condividere qualsiasi cosa riguardasse il mio mondo a rotelle. Quel giorno ero raggiante, e non avrei permesso a niente e nessuno di rovinarmi l'umore. 

Credevo che sarei andata lungo una delle innumerevoli ciclabili di Clearwater, e rimasi incredula quando scoprii che la Cameron aveva dato disposizioni ben precise per quel pomeriggio: vidi Lorelai seguire la Causeway Boulevard lungo una immensa strada sopraelevata al blu del mare. Un maestoso ponte che collegava la terraferma a all'isoletta di Clearwater Beach. 

Quando Lorelai parcheggiò l'auto, ero in estasi perchè davanti a me avevo l'insegna del Pier60, un molo immenso che finiva dritto sul mare. Mi consegnò un cellulare a conchiglia che proveniva direttamente dall'anteguerra, e con la promessa di chiamarla per qualsiasi emergenza scesi dalla macchina per le mie due ore d'aria.

La sabbia bianca, le urla dei più piccoli che si rincorrevano impacciati e le risate dei bambini che giocavano a fare i castelli di sabbia. Il chiacchiericcio dei genitori che parlavano tra loro, i ragazzi che prendevano il sole. Musica per le mie orecchie. La Cameron sapeva che mi sarebbe piaciuto: lungo il molo era stato gettato un cemento ruvido, ma abbastanza levigato. Anche la scelta delle ruote si era rivelata appropriata. Sfrecciai libera tra la gente del molo, passando tra pescatori e turisti, e sentii la salsedine appropriarsi sempre più del mio olfatto man mano che seguivo il molo. 

Sinistra, destra, sinistra e ancora destra, un alternarsi di spinte che mi fece acquisire una velocità tale che ad un certo punto smisi di spingere e proseguii di inerzia, a piedi pari, seguendo solo il suono delle rotelle che passavano sulle fughe dei lastroni in cemento e chiusi gli occhi lasciandomi coccolare dal vento che scompigliava i pochi ciuffi rimasti liberi dalla coda. 

Quanto avevo sognato quel momento, quanto ne avevo parlato, con la Cameron, del mio posto felice. Finalmente, ero lì.

Rallentai solo in prossimità della fine del molo, per voltarmi a guardare lo skyline frastagliato dei grattacieli di Clearwater. Osservai tutto, immagazzinando più ricordi possibili per il futuro: dagli anziani in passeggiata, alla coppia di ragazzi alle prime uscite. Erano più giovani di me, si tenevano per mano e ridevano sguaiati. Fu quando i ragazzi passarono accanto ad una delle panchine che la notai. Una ragazza, della mia età circa, con una crocchia scura in testa e le cuffiette, intenta a studiare sotto il sole di metà ottobre. Evidenziava, leggeva in silenzio, e si soffermava con gli occhi fissi nel vuoto, probabilmente a ripetere quanto letto.

Mi voltai, appoggiando gli avambracci alla ringhiera del molo, a guardare le onde silenziose del mare e beandomi dei raggi del sole che mi scaldavano la pelle. Come sarebbe stato, se avessi smesso con l'istruzione parentale e avessi iniziato ad andare al college come i miei coetanei? Sarei riuscita a conciliare lo sport con lo studio, senza gli aiuti dei tutor del Daytona Skating Center? Erano tante le cose su cui riflettere, e le avrei sicuramente portate nella stanza delle parole. La Cameron non mi avrebbe mai detto cosa fare, ma avrebbe sicuramente supportato le mie scelte, di qualsiasi natura si rivelassero.

«Galeotta, sei scappata un'altra volta?» Disse una voce inconfondibile alle mie spalle.

«Libertà vigilata.» Risposi di getto, scatenando il lui una risata sincera. Quando mi voltai a guardarlo, mi ritrovai di fronte a quel corpo che avevo sempre visto sempre nascosto dai costumi di gara. I muscoli perfettamente definiti erano messi in risalto dalle goccioline di sudore che imperlavano la sua pelle abbronzata, e i raggi di sole illuminavano i riflessi biondi dei suoi capelli rischiarando il miele nei suoi occhi. Aveva i pattini ai piedi, anche lui. Stesso telaio, stesse ruote e stesso modello dei miei, ma con lo stivaletto nero.

Mi persi a guardare il suo torace nei movimenti del respiro tranquillo, e mi accigliai quando mi accorsi che tra i tatuaggi sul costato nascondeva costellazioni di piccole cicatrici argentee. Probabilmente i miei occhi lo fissarono un po' troppo, perché quando se ne accorse non perse tempo a sfilare la t-shirt dalla tasca per mettersela di fretta. Quando mi diede le spalle per infilarsi la maglietta, tra i suoi dorsali contratti intravidi altri segni. Era deciso a nasconderli, ad ogni costo.

Una volta coperto, visibilmente imbarazzato, si sistemò nella mia stessa posizione, avambracci alla ringhiera e sguardo perso oltre l'orizzonte.

«Hai fatto a botte con una tigre?» Azzardai curiosa. 

«Non ti riguarda.» Mi liquidò. Nelle poche volte in cui ci avevo parlato, non mi aveva mai riservato quel tono seccato. Mi ero addentrata in un campo minato senza permesso, il tutto perché non ero riuscita a tenere a freno la lingua. Passarono minuti di silenzio, in cui si poteva solo sentire la tensione che c'era tra noi. Mi ero un po' sciolta con lui al Wave, ma ora sembravo aver fatto tre passi indietro.

«Scusami.» Disse ravvivando il ciuffo castano che gli ricadeva sulla fronte. «Sei nel mio posto preferito, sai?» Sembrava essere tornato di buon umore.

«Non sapevo nemmeno che esistesse, il Pier60. Mi ci ha spedita la Cameron, nonostante la nostra bravata.»

«Vi hanno scoperte?» La sua espressione rivelò che non ne era al corrente, e decisi di raccontargli parte della verità.

«Qualcuno ha inviato le nostre foto alla segreteria con un indirizzo mail inventato. Ci siamo tu ed io, io ed Elly, Elly e Steven. Tutti, nessuno escluso.» 

«Pagherei per avere la nostra.» 

«Chiama la Cameron.» 

«Puoi starne certa.» Mi guardò di nuovo. Mi piaceva sfidarlo e a quanto volevasi dimostrare, a lui, le sfide, andavano a genio. La vena competitiva tipica di noi atleti agonisti non sfilava più di fronte ai giudici, ma duellava in nuovi contesti. «Posso offrirti qualcosa al bar?» Chiese cauto.

«Non voglio stare seduta ad un tavolo la prima volta che rimetto i pattini.» Risposi di getto, e i suoi occhi si spensero un poco. «Ma possiamo prendere qualcosa da bere, e andare su e giù per il molo» Proposi continuando a muovere un pattino, facendone scorrere le rotelle.

«Astinenza da caffeina?» intuì subito.

«Non immagini quanto.» Mi voltai dando le spalle al mare, poggiando di nuovo i gomiti alla balaustra. 

«E caffè sia, piccola Reed. Ci saranno trenta gradi all'ombra, ma un bel caffè bollente mentre pattiniamo sembra davvero l'ideale.» Lo seguii pattinando verso una delle casette lungo il molo, e quando mi allungò il mio bicchierone di liquido scuro fui travolta dall'odore di tostatura fresca. Non persi tempo ad abbandonarmi ai sensi e quasi gemetti, quando gustai quel sapore amaro che da qualche settimana non era più parte della mia quotidianità.

«Si chiama orgasmo del palato.» E sollevò il bicchiere in segno di brindisi. Aveva un sorriso furbo che trasformò in una risata quando il caffè mi andò quasi di traverso. 

«Amen.» Risposta intelligente, Amelia. Non avevo mai conosciuto nessuno capace di mettermi in imbarazzo con poche parole. Jordan ne aveva il primato. Come se l'avesse capito, sembrava prenderci sempre più gusto. 

Iniziammo a pattinare e chiacchierare lungo il molo, e a caffè finito, persi il conto delle volte in cui l'avevamo percorso in tutta la sua lunghezza. Era facile, parlare con lui. Gli chiesi di tutti i campionati del mondo in cui io, eterna seconda, non avevo mai partecipato. Mi intrigava sapere l'aria che si respirava ad una competizione del genere, conoscere atleti di diverse lingue e culture, la preparazione che necessitava una gara così, sogno di tutti e realtà di pochi. Fosse capitato nella carriera mia e di Kevin, Audrey ci avrebbe sicuramente annullato il giorno libero, aumentando le ore settimanali di allenamento e compensando lo sforzo fisico con più sedute di massaggi de-faticanti.

«Non deve essere per forza così, sai?» Provò a darmi contro.

«Così come?»

«Totalizzante. C'è vita al di fuori del palazzetto, Amelia.» Non abbiamo tutti il tuo talento, Mr Davis.

«Ho sempre dato il 100% al pattinaggio. Impegno, tempo, soldi, energie. Tutto.» Riuscii a dire, invece. Non volevo passare per invidiosa.

«Non sarà per sempre. Invecchieremo. Cosa farai dopo? Te lo sei mai chiesta?»

«Ho sempre voluto solo il mondiale, senza mai andare oltre.» Ed era vero. Al resto della vita ci avrei pensato poi.

«Ti manca andare in pista, adesso che sei al Fairwinds?» Psicanalizzi, Davis?

«Mi manca allenarmi. Non mi mancano Kevin e Audrey.» E psicanalisi sia.

Si fece pensieroso, e dopo un attimo di riflessione prese un respiro di coraggio e si fermò per guardarmi dritta negli occhi. «Abbiamo bisogno di aiuto allenatori, alla Skating Academy. Se ne parlassi con la Cameron, dici che ti lascerebbe? A te piacerebbe aiutare i bambini del corso di avviamento?» 

Non avevo mai allenato dei bambini, e non sapevo nemmeno se ne sarei stata in grado. Ma si trattava solo di un periodo, dato che presto sarei tornata a Daytona, e qualche soldo in più vista l'assenza di mia madre mi avrebbe fatto comodo per altre eventuali congiunzioni astrali. La risposta venne quasi spontanea: «Credo di sì. Chi sarebbe l'allenatrice che andrei ad aiutare? Tua madre?»

«No.» e si aprì nel più bello dei sorrisi. «Sono io l'allenatore.»

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