11- 𝘼𝙛𝙛𝙞𝙣𝙞𝙩à 𝙚𝙡𝙚𝙩𝙩𝙞𝙫𝙚 - 𝘑𝘰𝘳𝘥𝘢𝘯
«Ultima ripetizione e poi puoi fare gli esercizi di scarico.» Dissi a Steven appuntando gli ultimi tempi nella sua scheda.
«Mi stai ammazzando oggi, Jordan.» Rispose ansante, in un lago di sudore.
«Te la devi sudare l'NHL!» Ribadii. Steven era un giocatore di Hockey che aveva le possibilità di entrare a far parte di una squadra di prim'ordine, e da qualche tempo a questa parte veniva all'Arhena per degli allenamenti extra. Si impegnava fino allo sfinimento durante la settimana, e i risultati erano tangibili. Discorso diverso per i weekend in cui, se non aveva partite, si trasformava in un animale da festa. Lo sapevamo bene io e Mark, che assistevamo ai suoi numeri da circo al Wave.
«Finito.» disse fermandosi a riprendere fiato dopo gli ultimi balzi sul box pliometrico. «Dammi del sano gossip adesso.» Chiese impaziente, lasciandosi cadere a terra per gli esercizi di stretching. «E' vero che Amelia Reed è al Fairwinds?»
«Perchè me lo chiedi?» Domandai in risposta. Cosa gli interessa?
«Dai, li ho letti i giornali. E' con tua sorella, no?» Insistette.
«A quanto pare, sì.» Ammisi. La notizia doveva ormai essere sulle bocche di tutti, se era arrivata anche ai giocatori di hockey. Non aveva senso negare.
«Che figa spaziale.» Disse alzando gli occhi al cielo, in un sospiro sognante.
«Lascia stare mia sorella, Miller.» Lo avvertii.
«Infatti, io mi riferivo alla Reed.» Si corresse immediatamente.
«Non rompere il cazzo neanche a lei.» Non gli dovevo alcun tipo di spiegazioni. Amelia aveva tutta l'apparenza di essere un'anima tanto pura quanto rotta. Miller e la sua esuberanza dovevano starle alla larga.
«Non dirmelo, è a due passi da qui. Le hai già messo gli occhi addosso?» Mi punzecchiò.
«No, Steven. Non penso sia interessata a nessuno, in questo momento. Il Fairwinds è più un carcere di lusso, che una confraternita.» Ammisi sincero. Le ragazze se ne stavano rinchiuse lì tutto il giorno per settimane, alcune addirittura mesi, prima di poter respirare l'aria al di là dell'ingresso.
Fummo interrotti dal ronzio delle notifiche del mio cellulare, e mi appartai, lasciando Steven agli ultimi esercizi.
E: Ciao fratellone gentilone! Ho bisogno di un piacere.
J: Maledetta la volta che ti ho dato quel telefono.
E: Invece lo hai fatto, e ne subisci le conseguenze. Vado al sodo: hai presente il libro che hai intagliato per nascondere il mio telefono? Me ne porteresti uno uguale, ma in inglese?
J: Perchè?
E: Vorrei regalarlo ad Amelia. Le ho parlato di me.
J: Tu? Davvero?
E: Sì. Per piacere Jo! Va benissimo domenica, grazie!
In anni di ricovero, con un numero indefinito di ragazze incontrate, Ellison non aveva mai stretto un'amicizia sincera con qualcuno, niente che andasse oltre i convenevoli. Sapeva chiacchierare del più e del meno, era aggiornata sulla musica e sulle serie tv del momento, ma mai una volta che si fosse aperta con una persona in carne ed ossa. Eravamo davvero in pochi, a sapere del suo disturbo bipolare. Il voler regalare ad una compagna un libro a lei tanto caro, era un evento più unico che raro.
Chi sei, Amelia Reed? Come hai fatto ad ottenere la fiducia di mia sorella in così poco? Questo la rendeva ancor più intrigante ai miei occhi. E quel libro, fatto di poesie che la nonna ci aveva letto spesso nelle nostre vacanze italiane, glie lo avrei portato quello stesso giorno.
«Quand'è che tua sorella torna al Wave?» Interruppe curioso Steven. Aveva conosciuto mia sorella in una delle notti in cui era riuscita ad evadere di nascosto dal Fairwinds, e tra i due era nata una certa complicità che non era andata oltre il divertimento. Avevano la stessa indole gaudente che li aveva portati a mettere in atto una serie di scherzi nei locali, senza mai essere colti in flagrante.
«Credo a breve, Steven. Ti avviso, così vi ritrovate per giocare alla scuola materna!» Dissi ridendo.
«Infilarsi dietro al bancone per nascondere le bottiglie di alcolici ai baristi non è scuola materna, Jordan. E' arte e maestria.» Specificò con saccenza.
«Miller, levati dalle palle, ti prego.» Mi divertiva ancora pensare a quella notte, quando Ellison e Steven ridevano a crepapelle nel vedere i baristi cercare spaesati le bottiglie usate poco prima. Erano stati crudeli: non avevano nascosto le bottiglie di nicchia, ma quelle usate per preparare i cocktail che andavano per la maggiore. I baristi senza Absolut in una serata piena di ragazzi si ritrovavano in un limbo di perdizione senza via d'uscita.
Quando quel pomeriggio arrivai al Fairwinds per consegnare in portineria il libro richiesto da Elly, non mi aspettai di vedere le ragazze di rientro dalla lezione in piscina. I miei occhi vennero attratti immediatamente da una felpa azzurra troppo grande per l'esile corpo che copriva. La riconobbi subito, quella era la mia felpa. Addosso niente di meno che ad Amelia Reed, intenta a tirarla in lungo e in largo per nascondere più porzioni di pelle possibile, anche se da nascondere non aveva proprio niente.
Ma fu quando la vidi venirmi incontro, con le sue gambe toniche ad affusolate, che semplicemente non capii più niente. Un passo determinato e uno sguardo glaciale, che ebbero a malapena il tempo di avvicinarmisi. Voleva parlarmi, Amelia Reed voleva parlarmi. Ma il Fairwinds era rinomato anche per la rigidità delle regole, oltre che per il metodo di cura innovativo. Non le avrei permesso di sentirsi ramanzine per me.
La raggiunsi, mentre teneva ancora gli occhi chiusi, giusto il tempo di imprimere nella mia mente il suo profumo, per poi andarmene, portando via con me solo il ricordo delle note al profumo di vaniglia nascoste dal cloro. Fui costretto a rinsavire, promettendole però che la domenica avrebbe potuto dirmi qualsiasi cosa.
Di cosa vuoi parlarmi, Reed? Il solo pensiero torturò la mia mente nei giorni a seguire, annebbiandomi il cervello.
Quel giorno tanto atteso la intravidi appena entrai, ma salì rapida con sua madre verso lo studio della Cameron dopo un semplice saluto. La guardai salire le scale, stretta nei jeans che le fasciavano il culo alto e marmoreo, fino a che non scomparve per proseguire con la seconda rampa. Stava iniziando a capire la regola base del Fairwinds: chiedi il permesso per fare qualsiasi cosa, o falla di nascosto. Astuta, la piccola Reed.
Andai da mia sorella, che mi stava aspettando nel solito salotto beige, ormai riservato a noi Davis durante le visite domenicali. Con il passare delle settimane la trovavo sempre più raggiante.
«Ciao Elly.» La salutai abbracciandola.
«Ciao fratellone. Sei uscito ieri sera?» Chiese senza perdere tempo.
«La mamma era ancora in pista e sono andato fuori a cena con papà, nessuno aveva voglia di cucinare. Indovina?»
«Ti ha chiesto di nuovo di tornare a pattinare con Chloe?» chiese apprensiva, intuendo di aver indovinato la domanda.
«Un'altro anno di gare assieme e avrebbe anche organizzato le nozze.» Dissi ironico, facendola sorridere. Mio padre era il mio maggior sostenitore, ma avrebbe fatto di tutto per vedermi appagato anche nella vita sentimentale. Non capiva che non volevo relazioni di nessun tipo. Avevo le mie motivazioni per volere accanto a me solo poche persone fidate, ma c'erano volte in cui sembrava aver rimosso quanto successo in passato. Chloe si era rivelata una buona partner in pista, ma nulla più di qualche scopata al di fuori dello sport. Nessun coinvolgimento emotivo.
«Fortuna che te la sei levata di torno. Chissà con chi se la fa ora, non aggiorna più nemmeno Instagram.» Sentenziò pensierosa Ellison.
«Con tutti quelli di prima, tranne me.»
«Taci, che te la sei ripassata solo una settimana fa.» Mi ammonì.
«Comunque ha iniziato a non scrivermi più, finalmente.» Dissi in un sospiro di sollievo.
«Sta tramando qualcosa. Sono anni che ti tartassa, non può sparire così, di punto in bianco.» Era dubbiosa.
«Papà dice che è solo super innamorata.» Conclusi il discorso. Era bello vedere Ellison così, sapevo che era nuovamente vicina alle dimissioni. Mi chiese di raccontarle tutto ciò che succedeva al di fuori del Fairwinds: il lavoro, gli amici, la nostra famiglia. Lei ascoltava, ascoltava e ascoltava ancora con aria sognante. Aveva fame di vita.
«Mi presti il caricatore del telefono? Mi sono dimenticato di collegarlo, questa notte.» Non rispose alla mia domanda, ma indicò con il dito il corridoio che portava alle camere, invitandomi ad arrangiarmi.
Ero quasi arrivato alla porta della stanza cinque quando venni travolto da un tornado alla vaniglia e lacrime che non feci nemmeno in tempo a fermare. Accadde tutto molto velocemente: Amelia dopo essersi scontrata con me entrò nella camera sua e di Ellison, seguita a ruota da quella che intuii essere sua madre. Una signora con passo sicuro che sprigionava rabbia ad ogni falcata, vestita con una giacca sgargiante appena uscita dalla tintoria e un rumore fastidioso che distinsi come il cozzare continuo dei ciondoli che scintillavano al suo polso. Sorpassandomi non mi degnò di uno sguardo, ed entrò di prepotenza nella camera in cui Amelia si era rifugiata.
Rinunciai al caricatore, e venni subito raggiunto da mia sorella, attirata dalle urla provenienti dalla sua stanza.
«Non dirmi che è la madre di Amy.» Disse preoccupata.
«Temo di si, ragazzi.» disse la Cameron sbucando alle nostre spalle. «E' meglio se le lasciamo stare, e andiamo in salotto. Come stai Jordan? Non ti vedo da un pezzo.»
«Bene, grazie, doc. Faccio l'atleta in pensione, adesso.» Dissi cercando di spezzare la tensione seguendole piano verso il grande salone.
«Hai fatto tanto, vacanze meritate direi!» Si sedette sul divano vicino ad Ellison, mentre le grida provenienti dalla stanza delle ragazze continuavano a sovrastare qualsiasi altro rumore. La Cameron aveva appena iniziato a pulire nervosamente i suoi occhiali usando il tessuto della sua camicetta, quando vedemmo la madre di Amelia uscire in fretta e furia dalla stanza cinque per oltrepassare le porte principali del Fairwinds e andarsene senza salutare nessuno. Subito la psichiatra, senza dirci niente, si alzò per andare preoccupata verso la camera di Amelia.
«Cazzo.» Mi disse Elly. «Dev'essere successo qualcosa di grave, per far scattare Amelia in quel modo. E' la tranquillità fatta a persona.»
Non sapevo nemmeno cosa risponderle. Amelia aveva una voce armonica, ma quel pomeriggio la sua rabbia aveva riempito ogni ambiente della clinica. Come se avesse superato il limite. Restammo lì, fermi immobili, scossi dalla scenata, per non so nemmeno quanto tempo.
All'improvviso rivedemmo la furia in giacca verde sbucare dalle porte del Fairwinds per lanciare con cattiveria un borsone blu che volò ai piedi della segreteria e scomparire di nuovo senza guardare in faccia nessuno. Mi avvicinai a raccoglierlo, per liberare il passaggio, quando sentii lo stridio delle gomme di un'auto in partenza. Sua madre se n'era ufficialmente andata, come le grida della figlia avevano implorato.
Quando raccolsi il borsone mi girai trovandomi di fronte alla Cameron e ad Amelia. Aveva gli occhi così gonfi e arrossati che era indubbio avesse appena finito di piangere. La guardai, con le corde vocali paralizzate, temendo una sua reazione. La psichiatra doveva sapere qualcosa che io ignoravo, perchè rivolse un'occhiata complice ad Amelia e ci liquidò, lasciandoci soli.
Al cenno di Amelia la seguii per aiutarla a portare il borsone in camera sua, e lo posai vicino al suo armadio. Con un gesto delicato, portò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, scoprendo una fila di piccoli punti luce disposti lungo l'elice destro. Quei piccoli piercing illuminavano il suo sguardo spento, mettendo ancor più in risalto il colore delle sue iridi. Vi era una strana tensione nell'aria, che si spezzò definitivamente quando l'acquamarina dei suoi occhi volse sui miei a incendiarmi, come un utopico fenomeno fisico, e dalle sue labbra uscì una domanda inaspettata:
«Hai spifferato tu alla stampa quello che mi è successo?»
Fu un po' come cadere nel vuoto. Come poteva pensare che quell'articolo fosse stato a causa mia? Cresciuta nella tana del lupo, Amelia non si rendeva conto che al Daytona Skating Center sbranarsi l'un l'altro era all'ordine del giorno. Audrey Clark accompagnava in pista degli atleti che erano delle macchine da guerra, preparati con ripetizioni allo stremo delle forze e con metodi contestabili.
I suoi atleti erano tutt'altro che longevi, atleticamente parlando. Venivano preparati con un'ammontare di ore di allenamento disumane, e nessuno sopravviveva mai a lungo. Chi per infortunio, chi per crollo mentale, nessuno tra i suoi atleti era mai arrivato a pattinare oltre la soglia dei vent'anni. Riempiva la testa dei suoi atleti di obiettivi fatti di sogni di cristallo e di medaglie pregiate per spronarli a impegnarsi, e quando questi non si realizzavano il loro mondo si frantumava in mille pezzi.
Tantissimi, in America, provavano ad entrare in quella scuola accecati dalla luce che emanavano gli atleti che ne facevano parte. Salti di difficoltà estrema presenti nel bagaglio tecnico degli atleti già dalla più tenera età, programmi di studio personalizzati, allenatori preparati nelle discipline complementari al pattinaggio.
Se i maschi nel mondo rotellistico erano i più coccolati data la loro scarsità numerica, tra le ragazze questo sport spopolava, attirate dai mille lustrini sui vestiti e dai sorrisi dalla parvenza naturale. Quei sorrisi rivolti a pubblico e giudici nascondevano, in realtà, l'immensa fatica che quotidianamente facevano, caduta dopo caduta, errore dopo errore. Quando tante ragazze erano iscritte nella stessa società e nella stessa categoria davano il via ad una danza fatta di concorrenza spietata, senza lasciar spazio ai valori umani. La Clark non era preparata a gestire le invidie: mirava solo al risultato.
I genitori poi, croce e delizia degli sportivi, consegnavano i loro figli alle porte del Daytona Skating Center carichi di aspettative e ottime speranze. Ma il primo posto sul podio è sempre stato solo uno, e solo uno di loro riprendeva il proprio figlio a quelle stesse porte pienamente soddisfatto.
Gli sponsor piovevano su quella società, invogliati dal vedere i loro nomi tra i ringraziamenti sui social delle piccole stelle che dominavano le categorie giovanili. Le variabili in una competizione sono sempre state tante, influenzate da uno stato di preparazione non perennemente costante, dal carattere dell'atleta e dalla sua determinazione. Non sempre il pattinatore riesce a dimostrare il proprio valore nei quattro minuti di durata della prova. Le voci tra gli spogliatoi dicevano che chi non riusciva a portare a termine un programma di gara fatto a regola d'arte, se la sarebbe vista direttamente con Audrey. Nessuno scendeva mai nei dettagli specifici di quelle conseguenze.
Amelia era un'anima fragile, una piccola farfalla dalle ali calpestate dai lupi, ed era lì, davanti a me, credendo che il predatore fossi io. Non era nemmeno a conoscenza del fatto che non ero più un suo rivale. Sapevo che per quanto avessi provato a convincerla del contrario mai si sarebbe fidata di me, perchè era nata e cresciuta nella competizione estrema, perdendo il lato buono e passionale dello sport, fatto sì di duro lavoro, ma anche di comprensione e rispetto per l'avversario.
In quel momento, al cospetto della sua freddezza, mentre mi sfidava assottigliando lo sguardo in un'espressione sensuale da morire, capii che mai sarei riuscito a convincerla della mia innocenza. Avrei però potuto dimostrargliela, un po' per volta, provando a farmi conoscere e farle capire che quel tipo di cattiverie non erano parte della mia persona. Sapevo che l'occasione perfetta sarebbe capitata a breve, così colsi la palla al balzo, placando la sua sete di sfida.
«Nella notte della congiunzione astrale, Amelia. In quella notte.» L'avrei presto portata via con me.
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