8. Sorrisi
8. Sorrisi.
Durante il viaggio in macchina che mi riportava al campus ripensai a tutto ciò che avevo dovuto necessariamente raccontare ad Anthony. Non avevo potuto evitare di riferire che Eleonor fosse presente e cosa avesse detto. Lui aveva cercato di rimanere impassibile, ma il tormento era ben evidente dalla mascella contratta e dal suo sguardo. Non sapeva che nel frattempo fosse diventata un superiore, anche se lo sospettava. Gli era capitato – nelle sporadiche volte in cui gli era necessario tornare in Inverso- di trovarsi vicino al quartier generale dei pazzoidi, quindi aveva fatto due più due. Ci eravamo lasciati con la promessa di tenerci aggiornati, o meglio: io gli avevo chiesto di farmi sapere i progressi del suo lavoro, ma avevo ottenuto un mugugno incomprensibile da parte sua; l'avevo preso ottimisticamente per un sì.
Non sapevo come rapportarmi ad Anthony, mi metteva a disagio. Non solo perché in teoria poteva essere anagraficamente mio padre pur non dandone l'idea, ma soprattutto perché in realtà non lo conoscevo affatto e probabilmente in circostanze normali sarebbe stata una persona da cui mi sarei tenuta alla larga. Pensai vagamente a come avrebbe reagito mia madre se avesse saputo qualcosa delle mie recenti frequentazioni: se Jason non le era andato bene, cosa avrebbe pensato del padre? Scacciai immediatamente il pensiero, ora come non mai era necessario che la mia famiglia ne restasse fuori.
Jason. Il suo nome tornava alla mia mente, insieme al suo volto ogni manciata di secondi. E se tutto ciò gli stesse provocando un qualche cambiamento? Se lui avesse potuto sentire la mia angoscia? La mia solitudine? Finché non avessimo capito come agiva il reset avrei avuto perennemente il dubbio di stargli provocando una qualche reazione. Panico.
Parcheggiai e mi avviai agitata lungo i campi di atletica che costeggiavano la strada per i dormitori. La pista era illuminata dai fari notturni e non c'era nessuno in giro.
Sport, ci eravamo detti. Non avevo mai corso, perché mai avrei dovuto? Varcai il cancello metallico che rimaneva aperto fino a tardi, buttai a terra la borsa e mi misi a correre, inizialmente in maniera esitante, testando i miei stessi piedi, ma prendendo progressivamente velocità, rendendomi conto che non avevo perso la mia forza e che soprattutto non fosse così male!
Inspirai l'aria fresca della sera e mi concentrai sulla sensazione del vento contrario, che mi sferzava il viso e mi schiacciava i capelli. Non avevo idea della velocità che avevo, ero solo vagamente consapevole di star seguendo la corsia esterna, un passo dopo l'altro, leggero, ritmato, per niente faticoso.
Chiusi persino gli occhi - lo so non fu molto saggio- ma era estremamente rilassante.
Fui riportata di botto alla realtà al suono burbero di una voce.
"Si può sapere chi diavolo sei e perché corri in jeans?".
Mi arrestai sul posto aprendo di scatto gli occhi. A parlare era stato un uomo sulla cinquantina, dalla pelle ambrata con una pancia prominente e una sacca di attrezzatura sotto braccio che mi guardava sconvolto.
Sbattei le palpebre cercando una risposta sensata. "Mi andava una corsetta". Molto sensata...
"Lo vedo!", esclamò il tizio che mi squadrava come se avessi tre teste. Ormai la sensazione che facessi ribrezzo in ogni dimensione possibile era sempre più dirompente.
"La pista a quest'ora è riservata agli atleti professionisti".
"Ah, non lo sapevo". La sola verità.
Mi guardò perplesso. "Tu non fai parte della squadra di atletica".
"No".
"E perché mai!", esclamò spazientito. "Sei un fulmine! Non ho mai visto una cosa del genere!".
Deglutii, conscia di aver destato qualche sospetto. Annaspai, cercando una giustificazione. "Oggi ho bevuto troppo caffè".
Rise, come se avessi fatto una battuta. "Ti voglio qui domani alle ore sedici in punto. Ti farò qualche test".
Che tipo di test? "No guardi, io sono una matricola, ho troppo da fare", la mia voce tremò verso la fine.
"Sciocchezze. Avrai dei crediti extra e noi qualche possibilità in più. Cosa c'è di meglio?". Mi fissò con insistenza.
Ecco. Mi ero messa in una brutta situazione. I ragazzi sgomitavano per i posti nelle squadre universitarie, come avrei potuto giustificare un rifiuto?
Raccolsi la mia borsa e annuii. "Ci penserò su", promisi, e con un cenno della mano mi dileguai in direzione del dormitorio.
Mi rinchiusi con sollievo nella mia stanza. Odiavo il mondo, odiavo tutti, punto. Era solo il primo giorno senza Jason e già mi chiedevo come avrei fatto a sopravvivere senza di lui. Sembrava che sbagliassi qualsiasi cosa facessi, ero diventata una strana via di mezzo: poco adatta ad entrambi i nostri mondi, troppo poco per il suo, decisamente troppo per il mio. Sentii le lacrime salire ai miei occhi contro la mia volontà; mi guardai attorno frenetica in cerca di una soluzione al mio stato d'animo e gli occhi mi si posarono sugli auricolari poggiati sul comodino.
"Ti ho preparato una compilation per quando ne avrai bisogno", mi aveva detto Jason qualche giorno prima.
Cercai con curiosità nel telefono e dopo aver frugato nelle varie cartelle, finalmente la trovai e infilai gli auricolari. Qualsiasi ragazza in circostanze simili gradirebbe ascoltare canzoni strappalacrime per potersi struggere con soddisfazione, ma non ebbi quella fortuna - no- perché Jason aveva deciso di riempire la cartella di ridicole canzoni tratte dai cartoni animati dagli anni '80 in poi.
Con le lacrime agli occhi scoppiai a ridere, fu una risata un po' isterica, ma sortì il suo effetto: le mie pulsazioni si acquietarono, la mia angoscia per un po' svanì e Jason sarebbe stato al sicuro da me per un'altra notte. Ingoiai con ribrezzo il coadiuvante e mi addormentai ascoltando la sigla di Doraemon.
Il giorno dopo mi svegliai con la consapevolezza che avrei accettato l'offerta del coach. Bisognava essere pratici e io non avevo nessuna intenzione di perdere più tempo del necessario dietro ai libri. Avrei corso quando sarebbe stato necessario, cercando di non farmi incastrare in eccessivi allenamenti. Massimo risultato con minimo sforzo. Sarebbe stato perfetto.
Mi mossi come un automa tra le aule delle varie lezioni, sempre facendo molta attenzione a essere puntuale e con un bel sorriso stampato sulla faccia. Può sembrare strano, ma è vero che se sorridi il tuo cervello finisce col credere che tu sia felice. Non potevo ambire a un simile traguardo, ma potevo provare a ingannare gli altri e il mio organismo. A un osservatore esterno sarei apparsa una ragazza come tante, con un'aria un po' distratta. In realtà mi districavo tra quella fiumana di gente, che a stento percepivo come una massa informe che mi rotolava attorno, che non faceva presa. Badavo solo al fatto che la mia messinscena funzionasse. Se avessi dovuto ricordare un singolo volto dei miei compagni di corso, non ne sarei stata capace. Forse qualcuno mi parlò e quasi sicuramente risposi, ma non potrei giurarlo.
Arrivai puntualissima al campo di atletica, indossando un leggings al ginocchio e canotta. Una felpa e le mie scarpe da ginnastica completavano quella che reputavo essere una mise adatta alla corsa.
Un gruppo di ragazze stava facendo esercizi di riscaldamento alla base delle gradinate e per un istante pensai di darmela a gambe.
"Eccoti qui, bene sei puntuale".
Il coach mi venne incontro e mi indicò il gruppo poco distante. "Vieni, ti presento le ragazze così potrai iniziare il riscaldamento".
Lo seguii svogliatamente, pentendomi e maledicendomi per la mia idea. Non ero brava nei gruppi, non lo ero mai stata. Sistemai sulla faccia un sorriso che reputavo cordiale e sollevai una mano in segno di saluto.
"Ragazze lei è...", mi guardò perplesso probabilmente rendendosi conto che non sapeva neanche il mio nome.
Intervenni, togliendolo d'impiccio. "June, June Roth".
Mi osservarono comprensibilmente curiose. Alcune mi dissero il loro nome, altre semplicemente si limitarono a osservarmi con il tipico sguardo di chi si sente ingiustamente minacciato. Ma sinceramente, perché le ragazze a volte devono comportarsi così?
Il coach interruppe i miei ragionamenti. "Rachel, falle fare un po' di riscaldamento e... Roth...Tu hai mai fatto un qualche tipo di sport?".
Certo che no. Continuai a osservare le ragazze mentre risposi. "No, io ho fatto danza".
Un risolino si diffuse tra il mio pubblico e a quel punto sorrisi anch'io, voltandomi verso il mister. "Possiamo cominciare?", chiesi senza smettere di sorridere, solo che dovevo apparire leggermente inquietante a pensarci bene.
Lui si schiarì la voce, distogliendo velocemente lo sguardo. "Certo! Avanti continuate!".
Il capitano della squadra, la ragazza che si chiamava Rachel, mi mostrò alcuni esercizi, sembrava simpatica, doveva essere almeno al terzo anno. La guardai il meno possibile, non volevo metterla a disagio ed eseguimmo tutte gli esercizi proposti in silenzio; immaginai di essere stata io a portare quello strano clima nel gruppo. Mi studiavano e la cosa sembrava talmente sciocca che provai un briciolo di fastidio.
Finalmente fu il momento di correre: Una corsa di riscaldamento, non dovevo strafare, quindi. Mi tenni in coda al gruppo, per evitare occhiatine, ma a un certo punto le ragazze come dietro a un comando silenzioso intercorso tra loro, aumentarono l'andatura senza avvertirmi. Che simpatiche... Sollevai gli occhi al cielo e in poche falcate mi ritrovai nella stessa posizione di prima. Pat, pat, un, due, un, due. Continuammo così per qualche giro, non so quanti, ero troppo concentrata a non superarle e la cosa non fu facile, ve l'assicuro. Quando il coach fischiò ci fermammo a riprendere fiato, mi guardai attorno e cercai di imitare i gesti, i movimenti tipici di una stanchezza che non provavo, mi detersi persino il sudore che non avevo dalla fronte. Stavo andando alla grande.
"Roth, sei andata bene, hai una buona resistenza. Ora testiamo la tua velocità", tuonò come se non fossimo lì tutte a pochi metri da lui. "Campbell ho bisogno di te, vieni anche tu".
La ragazza in questione mi guardò in cagnesco, come se le stessi facendo perdere del tempo prezioso; continuai a sorridere – l'ultima cosa che mi serviva era una compagna di squadra che mi ritenesse realmente una minaccia- e mi posizionai nella corsia assegnatami.
Il coach si parò di fronte a me con le mani sui fianchi. "Al fischio partite e tu Campbell fai da traino senza tirare troppo, vediamo come se la cava Roth". E così dicendo si incamminò verso la fine del percorso.
La ragazza si voltò lentamente verso di me. "Preparati a mangiare la polvere".
Il mio sorriso si allargò, ma non risposi. Ne avevo abbastanza, era tutto talmente ridicolo che mi sentii quasi in colpa per ciò che oramai avevo deciso di fare, quasi in colpa...
Al fischio del mister la mia compagna di squadra partì a quella che ritenevo essere la sua massima velocità. Io sinceramente avevo ancora qualche difficoltà a dosare la mia, per cui rimasi indietro per i primi venti metri, dopodiché non riuscii a resistere e fu bello non trattenermi e lasciarla dietro di me in pochi secondi. Registrai con la coda dell'occhio che era rimasta a bocca aperta e con un risolino che non riuscii a trattenere arrivai dall'allenatore, ricomponendomi immediatamente. Il coach premette il cronometro e mi guardò corrugando la fronte, la bocca leggermente aperta.
"Benvenuta in squadra Roth".
Sentivo alcune delle ragazze applaudire e urlare, mentre Campbell riprendeva fiato e mi inceneriva con lo sguardo.
Non avrei dovuto strafare, ma ehi, ogni tanto ci vuole pure una soddisfazione.
Guardai il mister e buttai lì la mia proposta. "Mi allenerò per conto mio, fatemi sapere quando devo partecipare a qualche gara, o cose del genere".
Scosse la testa, con il volto livido per l'offesa. "Non è così che funzionano le cose...".
Lo interruppi "Prendere o lasciare", conclusi sollevando le spalle. Lo ammetto: era stato divertente, ma non mi sarei lasciata incastrare dagli inutili giochetti di potere della squadra. Massimo risultato col minimo sforzo e che la regina del team tenesse pure lo scettro, per quel che mi importava.
Il coach ci pensò qualche istante e alla fine annuì controvoglia.
Sorrisi trionfante e feci un cenno di saluto alla ragazza che avevo battuto in maniera ingannevole. Il suo odio nei miei confronti era sicuramente più che meritato... Adesso.
Uscii dalla pista e il finto sorriso che avevo trattenuto così a lungo mi morì sulle labbra. Anche questa era fatta.
Ecco June che cerca di barcamenarsi nella sua nuova vita senza Jason. :) Quanti disastri combinerà?
Questo capitolo è un po' più lungo, mi scuso... ed è anche l'ultimo che ho scritto con anticipo. Da adesso in poi dovrò scrivere e aggiornare per cui siate clementi ahaha e se noterete qualcosa che non va o non torna, fatemelo pure notare! ;)
Grazie per essere ancora qui! A martedì!
B.
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