4. Addio Parte prima

Addio Parte prima.

Mi risvegliai nella mia stanza del campus a Berkeley. Osservai le pareti spoglie, che non avevo avuto il tempo di abbellire e che non avrei mai adornato. Jason avrebbe messo la sua vita in pausa per cui io avrei fatto altrettanto; Il mio unico obiettivo sarebbe stato la sua sicurezza e il suo ritorno. Il resto era di contorno e poteva aspettare.

Mi buttai giù dal letto e andai a darmi una sistemata per l'inizio delle lezioni. La mia vita sarebbe dovuta rimanere apparentemente quella di sempre e seguire una routine: lezioni, lavoro, famiglia in modo che - una volta che Jason fosse tornato - la nostra vera vita sarebbe potuta riprendere e Jason avrebbe avuto quel tipo di esperienze umane che per me erano scontate, ma che per lui avrebbero segnato l'inizio di un'esistenza degna di essere vissuta.

Sorrisi mentre mi legavo i capelli nel mio piccolo bagno; Jason era riuscito a farmi assegnare una stanza singola nonostante fossi una matricola. Non ho idea di quanti soldi fossero comparsi in aggiunta della retta. L'unica cosa certa è che non avrei mai potuto condividere la stanza con un'altra ragazza: spiegare ciò che mi capitava nel sonno sarebbe stato un tantino arduo.

La mattina passò tra una lezione e l'altra: marketing, diritto, contabilità.

All'esterno c'era un clima elettrico: i ragazzi cercavano corsi aggiuntivi e i banchetti che proponevano l'iscrizione ai vari sport non si contavano. Ripensai all'elenco che mi aveva dato Kore e riflettei con orrore che forse mi sarebbe toccato. Io che sceglievo volontariamente di fare sport. Poteva anche aprirsi il cielo a far discendere un angelo a darne l'annuncio; non sarebbe stato così improbabile a confronto.

Certo, avevo ripreso a danzare, ma quella era stata una necessità. I miei erano stati chiari sul fatto che avrei dovuto trovarmi un lavoretto e la scuola di danza di madame Henriette mi era sembrata la perfetta scappatoia: aiutando due volte la settimana con le bambine avrei raggiunto il doppio obiettivo di guadagnare qualcosa con poca fatica e di rendere mia madre estremamente felice, una volta tanto.

La avevo avvisata che quella sera saremmo andati a cena a casa; la scusa era che volevamo raccontare come stava andando l'inizio della nostra avventura universitaria, ma la realtà era un'altra: Jason voleva salutare Peter, il mio fratellino.

Era ormai sera quando venne a prendermi in moto e insieme compimmo il breve tragitto verso casa. Lo strinsi forte a me e nonostante tutte le mie buone intenzioni qualche lacrima solcò il mio viso; il casco era ben calato sulla testa, ma sentivo che Jason se n'era accorto. Come avrei fatto? Come avrei potuto nascondere, o meglio sopprimere del tutto l'angoscia?

Non ero ancora giunta a una soluzione quando arrivammo a casa. I miei, probabilmente sentendo il rombo della kawasaki, ci aspettavano sulla porta, sorridenti.

"Ragazzi!", esclamò mio padre entusiasta. "Che bella sorpresa ci avete fatto, non pensavamo di vedervi così presto!".

Mio padre mi strinse in un forte abbraccio e ne approfittai per nascondere il viso contro il suo petto e ricompormi.

"Al, Susan non vedevamo l'ora di raccontarvi una bella quanto inaspettata novità!".

I miei impietrirono e mia madre, rimasta silenziosa fino a quel momento, intervenne con voce tagliente: "Quale novità?".

Mia madre è un avvocato e nel suo mestiere quasi sempre le novità non sono viste di buon occhio, l'imprevedibilità non è la benvenuta.

Inspirai staccandomi da mio padre. "Mamma, papà, Jason voleva salutarvi. Ha ottenuto un'incredibile opportunità in Europa. Partirà tra pochi giorni".

I miei lo fissarono stupiti e ci invitarono a entrare.

La tavola era già pronta, ma non facemmo in tempo a sederci che dei passi frenetici ci fecero voltare verso le scale.

"Jason!", urlò Peter buttandosi tra le sue braccia.

"Peter!", esclamò Jason di rimando abbracciandolo e poi scostandolo da sé per osservarlo meglio.

"E' incredibile, sei cresciuto di almeno zero virgola due centimetri dall'ultima volta!".

Peter rise, mentre i miei lo guardarono perplessi, come sempre accadeva.

Una volta a tavola venimmo al punto: l'Europa. Mio fratello sgranò gli occhi; era troppo sveglio per non capire che un viaggio di studi fosse solo una scusa. Una mia occhiata e un cenno della testa servirono a confermargli ciò che temeva. Naturalmente il suo umore colò a picco e gli unici entusiasti furono i miei genitori, nello specifico mia madre che continuava ad avere una perspicace diffidenza nei confronti di Jason.

Ogni tanto beccavo mio padre a fissarmi con sguardo preoccupato, probabilmente si stava chiedendo che effetti avrebbe avuto la sua partenza su di me. Non ne aveva idea.

La cena fu poco briosa. Jason si era preparato come sempre un sacco di balle credibili e lo lasciai fare. Appariva disinvolto, quasi entusiasta, ma non poteva ingannare me.

Ogni volta che i nostri sguardi si incrociavano una fitta si propagava nel mio petto. Dovetti lottare per non scoppiare a piangere nel bel mezzo della cena, ma ce la feci. Resistetti e lasciai che l'amore, quel sentimento che oramai era diventato il fulcro del mio essere lo raggiungesse e lo avvolgesse. Sperai che potesse essere forte come un'armatura, che lo difendesse dalla crudeltà del suo mondo.

Si voltò a guardarmi con uno dei suoi sguardi: uno di quelli che scavavano a fondo, che mi entravano dentro e mi leggevano l'anima. Mi sorrise e non mi servì altro. Lo avrei aspettato per il resto dei miei giorni se fosse stato necessario.

Finalmente l'interminabile cena finì.

Mio padre salutò Jason raccomandandosi di farsi vivo. Mia madre gli strinse la mano con aria sollevata ed infine rimase Peter, fuori con noi sul vialetto.

Jason si chinò di fronte a lui e lo guardò con sguardo contrito.

Vedevo che mio fratello faticava a trattenere le lacrime, Jason lo abbracciò stretto e lo vidi accostarsi al suo orecchio e bisbigliargli qualcosa.

Tutto ciò che riuscii a capire fu lui che gli diceva: "Puoi farlo per me?".

Peter sollevò lo sguardo su di me, gli occhi sbarrati,riportandoli subito in quelli di Jason. Annuì e Jason gli sorrise in risposta sollevandolo con sé da terra e stringendolo al petto. L'affetto che provavano l'uno per l'altro era difficile da spiegare: Jason vedeva in Peter tutto ciò che non ricordava, un'infanzia di cui era completamente all'oscuro sino a quando mio fratello non era entrato nella sua vita pochi mesi prima.

Lo rimise a terra e dopo avergli scompigliato i capelli mi raggiunse conducendomi verso la moto.

Salutammo Peter che ci osservava in silenzio - ora con un'espressione più preoccupata che triste - sotto la luce del portone.

Vedere mio fratello così sconvolto rendeva il tutto ancora più reale. C'eravamo quasi. Ma prima di restare finalmente soli avevamo un altro saluto da fare.

Non dovemmo neanche bussare, Anthony ci aspettava seduto sui gradini del portico. Nel momento in cui fermammo la moto sul vialetto, il padre di Jason si sollevò portando impacciato le mani in tasca.

Rimasi accanto alla moto, non sapendo bene come comportarmi. Jason si avvicinò ad Anthony e gli porse le chiavi della kawasaki.

Anthony annuì e si guardarono con sguardo serio.

"Ti riporterò qui, non sbaglierò anche con te".

Jason sorrise. "Non essere troppo severo con te stesso, ti è spettata la parte più difficile, la stessa che ora toccherà a June. So che farai tutto il possibile".

Anthony, preda di una visibile emozione, deglutì e inaspettatamente abbracciò il figlio, lasciandoci entrambi di stucco.

Lo scostò da sé rapidamente e lo guardò fiero, lo sguardo intenso e glaciale.

Tirai su col naso, al che guardò nella mia direzione e mi fece un cenno di saluto.

Risposi allo stesso modo e tra noi il messaggio passò silenzioso, ma chiarissimo: toccava a noi adesso. Il successo della missione dipendeva da noi, dalla parte debole delle nostre dimensioni.

Nonostante sembrasse che gli addii non avessero mai fine, il tempo ci sfuggì dalle mani: non potevamo fermarlo, non potevamo rallentarlo, potevamo solo viverlo.

Non appena arrivammo a casa di Jason, ci buttammo l'uno tra le braccia dell'altra, senza esitazione, senza pensare, semplicemente consci che il nostro addio non potesse essere affidato a delle semplici parole, troppo riduttive, troppo limitanti. Noi eravamo ciò che c'è di più simile a una sola e unica entità. Il suo respiro era il mio, il suo battito era il mio battito e l'amore che provavamo l'uno per l'altra crebbe e aumentò come una sfera di energia che ci travolse in un modo che non avremmo mai ritenuto possibile.

Non ricordo neanche come arrivammo al letto, ma per fortuna ricordo ciò che accadde dopo e mentirei se dicessi che fu romantico. O meglio: lo fu, ma non nel modo in cui si tende a idealizzare una prima volta. La passione e il bisogno reciproco ci guidarono in maniera naturale l'uno verso l'altra, la sua bocca su di me, le mie braccia, le mie gambe attorno a lui e se solo avessi lontanamente immaginato come sarebbe stato, neanche la più spaventosa paura di Jason avrebbe potuto fermarmi dal volerlo sempre, ogni notte, o giorno. Avrei accettato anche che mi comparisse un terzo occhio o i piedi palmati.

Ci guardammo sbalorditi e sopraffatti, le nostre fronti vicine, ancora avvinghiati e mi fu chiaro come il sole che Jason non la pensasse tanto diversamente da me, anzi forse era addirittura troppo chiaro ciò che pensava. Fu solo un momento, un momento in cui osservai me stessa attraverso i suoi occhi e non solo mi vedeva bellissima, ma lui mi reputava forte, coraggiosa e buona. Io?

"Certo che lo sei", sussurrò Jason con una punta di panico nella voce a un centimetro dalle mie labbra.

Aveva risposto al mio pensiero. Ecco i miei piedi palmati.


Eccomi qui! Sta per giungere il momento che June e Jason temono: stanno per dirsi addio, anche se loro sperano sarà un arrivederci. Ho pensato, visto che arriveranno tempi duri, di concedergli un minimo di gioia :D ma non abituatevi ! :D 

B.

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