18. Improvvisata




18. Improvvisata

Dopo essermi svegliata e aver riferito tutto ad Anthony e Matt me n'ero andata a casa di Jason. Avevo bisogno di starmene per conto mio e rimpinzarmi di gelato e biscotti. La situazione ci stava sfuggendo di mano, la collaborazione tra Matt e Anthony era a dir poco difficile e sapevo che non si fidavano l'uno dell'altro perché avevano obiettivi diversi. Sapevo che Matt non era convinto, dovevamo sbrigarci, non c'era più tempo.

Mi ero infilata il pigiamone di pile rosa che mi faceva sentire sempre coccolata, avevo collegato l'inibitore di zanzare/Jason alla presa – ne serviva assolutamente uno portatile, Anthony avrebbe dovuto provvedere alla modifica- e agguantato un manuale di intermediazione finanziaria. Mi disgustava dover pensare allo studio in quel momento, sembrava talmente inutile, ma mi ero fatta una promessa e la avrei mantenuta. Mi accomodai sul divano arancione e iniziai a mangiare il gelato dal barattolo mentre cominciavo a leggere.

A quel punto niente avrebbe dovuto sorprendermi, ma l'improvviso formicolio del tatuaggio - che non sentivo più da mesi- mi fece schizzare in piedi sul divano, tenendo il barattolo in mano e guardandomi attorno sconcertata.

Silenzio. Uno strano silenzio denso. Lui era qui. Completamente inconsapevole e potenzialmente pericoloso.

Scesi in punta di piedi dal divano e, dimenticando che avevo in mano il gelato, me lo portai verso il disimpegno che conduceva alla zona notte. Il cuore rischiava di balzarmi fuori dal petto, ma il mio corpo sapeva benissimo dove andare, mi portava da lui a dispetto della poca sicurezza e del pericolo; nonostante tutto continuavamo a cercarci e alla fine a trovarci. Mi fermai davanti alla porta della camera ormai in penombra e lui era lì, accanto al letto. La sua testa scattò nella mia direzione e si ricoprì repentinamente di pelle, salvo scoprirsi immediatamente dopo avermi riconosciuta.

Sbattei le palpebre e sentii le lacrime salirmi agli occhi. Erano mesi che attendevo di riaverlo con me ed era terribilmente e crudelmente ironico che io adesso dovessi auspicare che se ne andasse in fretta. Il legame era completamente ricostituito e tutto ciò che mancava erano i suoi ricordi. E il suo amore? Quello c'era ancora? Quanto doveva essere strano per lui provare una certa attrazione per una persona di cui non sapeva assolutamente nulla e che gli dava segnali contrastanti? Ammesso che la provasse l'attrazione...

Mi osservò da capo a piedi con lentezza e immaginai quanto dovessi apparirgli ridicola con quel pigiama e il barattolo di gelato in mano.

Spostò circospetto lo sguardo sul resto della stanza, salvo poi riprendere a fissarmi con la stessa ostinazione di prima. "Non riesco a sentirti".

Annuii. "Che tu sia qui è un enorme problema".

Avanzò di qualche passo e io automaticamente arretrai, non potevo permettergli di avvicinarsi, non avevo paura di lui sia chiaro - ma di me - ero al limite del mio autocontrollo e mi mancava tanto così dal saltargli addosso. Ai suoi occhi sarei apparsa come una pazza.

"Mi hanno spiegato che noi siamo delle porte dimensionali".

Oh. Dunque questa era la loro riduttiva spiegazione. Non potei fare a meno di sorridere amaramente e annuire.

Inclinò appena il capo. "Cos'altro?".

Continuai ad arretrare, visto che lui non dava cenno di volersi fermare. Sapevo che nel mentre osservava e catalogava i vari ambienti. Il divano lo attirò particolarmente e non mi perse un attimo di vista mentre posavo l'inappropriato barattolo di gelato sul tavolo.

Incrociai le braccia e assunsi un'espressione ostinata. "Chiedilo ai superiori, adesso lavori per loro giusto? Io non sono autorizzata a dirti nulla".

Delusione, confusione e risolutezza. Ecco cosa stava provando. Jason non si arrendeva, lui valutava e soppesava.

Socchiuse gli occhi e scostò un lembo della maglietta mostrandomi la brutta cicatrice sul suo petto che aveva sostituito il segno che ci accomunava.

Bastardi. Cercai di tenere a freno l'odio che provavo e l'enorme tristezza che mi aveva assalito. Seppure non era in grado di leggermi il pensiero, era ancora capace di sentire le mie emozioni. Mi ricomposi e feci spallucce. Jason mi si avvicinò, senza smettere di guardarmi negli occhi. Conoscevo quello sguardo: lo sguardo che pretendeva una risposta, lo sguardo di chi avrebbe ottenuto ciò che voleva. Sollevai una mano, un'intimazione a restare distante.

Era una lotta di emozioni. Non avevamo mai avuto bisogno di molte parole, né della lettura del pensiero per capirci. Lui sapeva cosa avrebbe trovato se mi avesse scostato lo scollo del pigiama, sapeva che al di sopra della mia clavicola ci sarebbe stato qualcosa, qualcosa che non poteva imprimersi nella memoria, qualcosa che se fosse stato esaminato e ripescato dai suoi ricordi ci avrebbe messo a rischio.

"Come sta Kore?", chiesi a bruciapelo distogliendo lo sguardo, prima che le nostre volontà venissero annullate dal battito sincronizzato dei nostri cuori.

Funzionò. Si immobilizzò e sbatté le palpebre. Era rimorso quello che sentivo? Lo stomaco mi si chiuse in un nodo e lottai ancora una volta per non mettermi a piangere. Non ero autorizzata a sentirmi tradita e ferita, non ne avevo alcun diritto. Ma quanto faceva male... La gelosia bruciava come acido nelle mie vene e io non potevo fare altro che andare a fuoco in silenzio.

"Immagino stia come il tuo compagno".

Riportai di scatto lo sguardo su di lui e vidi un lato delle sue labbra sollevarsi. Il sorriso non raggiunse i suoi occhi che restarono freddi e incatenati ai miei.

Sorrisi lentamente e annuii. Me lo meritavo. A quel punto Jason si guardò attorno ancora una volta e il suo sguardo si fermò sull'apparecchio attaccato alla corrente. Deglutii e cercai di assumere un'espressione casuale. Il suo sorriso si allargò e non ci mise che un attimo ad andare verso la parete. Lo precedetti e mi chinai piazzandomi davanti alla presa.

"E' indispensabile per tenere lontane le zanzare!", esclamai a voce alta, ma naturalmente fu inutile.

Si chinò a sua volta e mi spostò di lato e sarei caduta, ma lui mi prese per il polso tenendomi in equilibrio e contemporaneamente staccò il salvapensieri.

"Non ti azzardare a moltiplicare tra loro numeri elementari. Dammi un ricordo, uno solo!".

Non me lo aspettavo. Strinsi gli occhi e lottai contro la miriade di immagini che si erano affastellate istantaneamente nella mia mente al suono della parola ricordo. Me da piccola in vacanza dai nonni, un demone biondo con occhi diversi che quasi mi uccideva sul Golden Gate Bridge, una corsa in moto al tramonto, le scale di una cantina, un intreccio di gambe e braccia.

"Basta!". Urlai in affanno sottraendomi dalla sua presa e finendo a terra.

Riattaccò immediatamente l'apparecchio, senza smettere di guardarmi sbalordito.

"Avevo detto solo uno", bisbigliò stravolto.

Certo, come se fossi in grado come lui di controllare perfettamente i miei pensieri. Perché l'aveva fatto? "Voglio che tu te ne vada! Ti ho già detto che mi sono rifatta una vita, continua anche tu per la tua strada!". La mia naturalmente era una stupida messinscena a favore di un'eventuale esame dei suoi ricordi, anche se ormai il danno era fatto. Quanto meno avrebbero notato che il mio atteggiamento era stato irreprensibile e al massimo lo avrebbero resettato nuovamente. Ipotesi che stavano comunque già considerando. Per l'ennesima volta: non avevamo più tempo.

Ci guardammo per un tempo che parve infinito, dopodiché riprese la mia mano e mi aiutò a tirarmi su in piedi; La sottrassi immediatamente dalla sua. Mi sentivo in imbarazzo, non avrei dovuto lo so, ma continuavo a chiedermi quanto avesse recepito, se avesse capito quanto noi eravamo stati vicini. Fu un insistente bussare alla porta a toglierci di impiccio e a gettarci immediatamente in uno ancora più grande.

"Ti ho sentita parlare, apri subito questa porta".

Mia madre. Che teoricamente non sapeva nulla dell'esistenza di quell'appartamento. Osservai con sgomento la porta e Jason accanto a me si ricoprì istantaneamente.

Mi voltai verso di lui. "Scopriti. Qui la pelle non esiste. Non c'è nessun pericolo!", bisbigliai con urgenza.

Scoprì la testa. "Sento il tuo terrore".

Non avevo tempo per spiegargli che il mio era un tipo diverso di paura, una tipologia atavica, ma non per questo meno spaventosa.

Fissai sconvolta la porta. "Mamma, apro subito!".

Jason mi osservò in silenzio mentre allungavo esitante una mano verso la maniglia. Avrei dovuto dirgli di nascondersi nell'armadio, ma sapevo che non lo avrebbe fatto.

Sorrisi e aprii entusiasticamente la porta, ma non riuscii a concentrarmi sull'espressione accigliata di mia madre perché Peter - che non sapevo essere con lei- nel momento in cui vide Jason alle mie spalle spalancò gli occhi e urlò: "Jason sei tornato!". Si lanciò verso lui e lo abbracciò stretto alla vita e percepii chiaramente lo sforzo immane che Jason stava facendo per non ricoprirsi e scagliare via mio fratello con forza. Ci pensai io: afferrai mio fratello per il colletto e lo tirai indietro.

"Peter non fare l'appiccicoso ti prego! Jason è ancora scombussolato dal viaggio!".

Mio fratello – confuso- spostò lo sguardo da Jason a me che gli feci i miei migliori occhi da pazza facendo segno di no.

In quel momento intervenne mia madre. "Jason, non sapevamo che fossi tornato".

Jason, immobile accanto a me, sorrise in maniera tirata. "E' stata una sorpresa, in effetti".

Era meglio chiarire subito. "Partirà oggi stesso, sono solo passata a salutarlo".

L'avvocato Roth accolse le mie parole dando una lunga occhiata al mio pigiama, segno inequivocabile che stavo mentendo. Non aggiunse altro, ma seppi con assoluta certezza che avrebbe indagato; mia madre non lasciava correre nulla.

Staccò con ostentata lentezza gli occhi da me e li riportò su Jason. "E' un peccato che tu debba partire così presto, a me e Al avrebbe fatto piacere invitarti a cena per sapere come vanno le cose in Europa".

Nel silenzio che seguì, mia madre aggrottò le sopracciglia. "Cos'è questo rumore?".

Rispose Jason. "Tiene lontane le zanzare".

Mia madre si sorprese. "Non ho mai visto zanzare a dicembre".

"Qui è proprio una brutta zona mamma, arriva ogni tipo di animale infestante, veramente fastidioso!". E non potei fare a meno di gettare un'occhiata in tralice a Jason.

"Mamma, faccio a tardi a basket!", si lamentò molto prontamente mio fratello tirandola per la borsa. I suoi occhi però brillavano. Come lo capivo... Avrei dovuto spiegargli la situazione.

Mia madre si riscosse sospirando. "Certo, hai ragione. Andiamo. Jason fai buon viaggio e quando tornerai devi assolutamente venire a trovarci".

Jason sorrise e annuì, poi guardò Peter con un interesse che ben conoscevo e rividi scattare in lui lo stesso meccanismo che la prima volta li aveva portati a essere amici, fratelli.

Peter gli sorrise, mantenendo le distanze. "E' stato bello rivederti Jason. Torna presto".

Jason sbatté le palpebre dinnanzi alla sincerità e al tono speranzoso di mio fratello e stavolta il suo sorriso fu sincero e spontaneo.

Chiusi la porta e mi poggiai su di essa chiudendo gli occhi per riprendermi e tirare un sospiro di sollievo.

Jason allungò una mano e la poggiò delicatamente sui capelli al lato del mio viso, mi sfiorò appena con i polpastrelli. Spalancai gli occhi, sorpresa. "Non ti metterò in pericolo". Pronunciò le parole come se le stesse dicendo a sé stesso. Fece un passo indietro e si svegliò. 




Finalmente Jason è tornato da June! Le cose però non sono andate benissimo... Come sempre d'altronde :D

Quanto avrà capito della situazione?

A martedì prossimo!

B.











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