Capitolo II
Suo padre lasciava che varcassero la soglia di casa assieme, mano nella mano, come se fossero uguali, come se fossero una cosa sola. Poi Lucio si lasciava superare senza timore: non riusciva ancora a tenere quel passo, ma non era un problema. Testa alta e sguardo fiero, camminava nell'ombra di suo padre e questo lo faceva sentire invincibile.
Tutte le mattine lo vedeva prepararsi ad affrontare la città: un servo lo aiutava a lavarsi, a radersi la barba e a vestire quella toga che, ai suoi occhi, pareva più un'armatura che semplice stoffa rossa.
Anche se Lucio non aveva ancora ben capito quale fosse il mestiere di suo padre, qualcosa gli suggeriva che fosse carico di responsabilità. Si accorgeva che lo salutavano con rispetto, che lo chiamavano senatore, ma lui non ci badava molto: gran parte della sua attenzione, all'alba, veniva catturata dal profumo del pane appena sfornato; poi venivano le urla dei pescatori che discutevano cercando di stabilire la migliore zona di pesca. Lucio sorrideva mentre li superava: litigavano e si spintonavano, ma nessuno aveva il coraggio di iniziare davvero una rissa. Nemmeno quando quella mattina uno di loro ruppe un'anfora urtandola col gomito. A quel punto, l'etrusco che affilava spade li zittì con un fischio: alto e muscoloso, di carnagione olivastra, aveva le spalle scottate dal sole.
Lucio rallentò il passo, quando lo raggiunse; e non perché avesse paura, tutt'altro: provava nei suoi confronti una sorta di ammirazione mista a curiosità. In cuor suo, coltivava la speranza che quell'uomo fosse il dio della guerra.
La donna che vendeva il vino, invece, lo intimidiva: portava dei nastri con i quali legava i suoi ricci biondi, vestiva abiti scollati che valorizzavano le sue forme e aveva una risata stridula, tremolante. Era sempre pronta nel fargli l'occhiolino, le volte che si ritrovava a incrociare i suoi occhi scuri. Per ragioni che non sapeva spiegare, lui abbassava lo sguardo e poi si affrettava nel cercare la mano di suo padre.
Proseguivano insieme fino a quando avvistavano le bianche scale della Curia e le guardie che la presidiavano. A quel punto, Lucio stringeva più forte, lo salutava con lo sguardo e poi raggiungeva i suoi amici, che già lo aspettavano all'ombra di una vecchia quercia.
Per lui, quel palazzo non era altro che un luogo polveroso dove gli adulti discutevano, alle volte alzando la voce e gesticolando molto quando avevano bisogno di convincere. Spesso sentiva la voce di suo padre tuonare indignata, per poi calmarsi e chiudere ridendo. Il suo gruppo era quello più rumoroso: tra loro c'era un uomo che aveva un cane che abbaiava ogni volta che battevano le mani o incitavano qualcuno.
Poi c'erano gli anziani. Quando questi prendevano la parola, gli altri smettevano di fare qualsiasi cosa stessero facendo: sia che si trattasse di un consiglio, sia che fosse una critica o un ammonimento, il silenzio era la puntuale premessa a ogni loro intervento. Lucio credeva che fosse così perché gli anziani parlavano sempre sottovoce e gli parevano tutti troppo vecchi e stanchi per lasciarsi coinvolgere dalle dispute.
Ma lui aveva visto uomini più bravi degli anziani, se si trattava di zittire le chiacchiere. Partecipavano di rado, ma li ricordava bene; a queste persone bastava semplicemente allungare tasche poco più grandi di un pugno, tasche che tintinnavano. Lucio ignorava il loro contenuto; per il momento, si accontentava di giocare a dadi con i suoi compagni.
«Aspettavamo solo te» gli disse Fabio, un bambino biondo di poco più grande di lui.
Non se lo fece ripetere due volte e, un secondo prima di controllare il suo punteggio, si mise la mano sulla fronte, perché il sole lo abbagliava e già picchiava forte.
La partita proseguì in modo sereno e veloce. A un tratto, però, Lucio incurvò le sopracciglia e si fece più attento: Sesto stava muovendo le pedine in modo pericoloso. Se davvero si apprestava a fare quella mossa, il turno successivo avrebbe pagato pegno, restando fermo un giro.
Noncurante delle conseguenze, Sesto confermò la mossa ipotizzata. Quando fu il suo momento, Lucio raccolse i dadi, sorrise vedendo che aveva fatto un numero doppio e poi scelse una mossa piuttosto banale.
Era un bambino pronto nell'iniziativa, attento nelle strategie e ambizioso, ma questa volta vincere la partita non era quello che voleva: aveva bisogno di fare chiarezza.
Concluse il turno passando i dadi alla sua sinistra. Si stiracchiò, portando le mani dietro la testa, e poi ritornò a studiare l'unico avversario che gli interessava.
Gli altri giocatori fecero le loro mosse e, quando toccò a Sesto, gli mostrarono i dadi come se avesse diritto a giocare quel turno. Era il momento che Lucio stava aspettando, era il momento di intervenire.
«No» disse, alzandosi e puntando il dito. «Devi pagare un turno: lo dicono le regole».
Un giocatore affiancò subito Lucio. Lui sorrise prima ancora di incrociare gli occhi dell'amico: era contento di aver trovato un alleato con cui combattere quella battaglia. Ma l'altro non era venuto per spalleggiarlo.
«Lascia stare, Lucio» disse. «Lui può».
Fu impreparato a quella risposta e si sentì confuso. La sua attenzione si spostò da Sesto ai suoi amici: in molti tenevano la testa bassa sulle pedine e si vergognavano di intervenire, altri facevano guizzare gli occhi in giro per non dover incrociare i suoi. Capì che chi aveva parlato aveva espresso il parere di tutti e lo aveva fatto in tono lento, stanco, con la voce di chi si è arreso da tempo a un'ingiustizia.
«Lui può?» ripeté Lucio.
D'un tratto gli parvero tutti così deboli, così passivi, così diversi da quello che era lui; così diversi da ciò che ogni giorno gli insegnava suo padre.
Scosse la testa amareggiato e decise di non provare nemmeno a convincere i suoi amici. Sentiva che non avrebbero capito. Abbandonò il gruppo, battendo in ritirata. Decise che avrebbe fatto il giro del palazzo e avrebbe aspettato suo padre nel piccolo giardino esterno: lì c'era una pozza d'acqua dolce che lo avrebbe rinfrescato.
Dopo alcuni passi, si accorse che qualcuno lo stava seguendo. La curiosità di sapere chi fosse era tanta, ma riuscì a resistere alla tentazione di scoprirlo. Lasciò il percorso di fango e ghiaia e, appena mise piede sull'erba, sentì una mano sulla spalla. Fu solo allora che si voltò.
«Perché lo hai fatto?».
Lucio ritrasse la testa e sul suo volto si formò un'espressione di sorpresa e di esitazione. L'altro proseguì prima che potesse dire qualcosa. «Loro mi fanno fare quello che voglio: posso cambiare le regole, posso interrompere il gioco e decidere di vincerlo. Perché tu oggi mi hai detto no? Non hai paura?» domandò Sesto, il nipote del re.
Fu la prima volta che Lucio lo vide per quello che realmente era: un principe in cerca di amicizia disinteressata e di qualcuno che lo accettasse a prescindere dal nome che portava.
«Sì» confessò sorridendo. «Avevo paura di offenderti»
«E allora perché l'hai fatto?».
«Perché era giusto così» disse lui. Poi concluse con una frase che suo padre ripeteva spesso: «Agli occhi della giustizia, siamo tutti uguali».
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