Capitolo XXVII
Ogni volta che tornava a Jelas le sembrava di respirare meglio, senza i fumi delle fabbriche che annerivano il cielo. Le montagne in lontananza apparivano azzurre, poco più scure del cielo; sui picchi più alti c'era rimasta ancora traccia della neve.
Un panorama del tutto diverso da Vexhaben, condividevano solo il passaggio dello Shellmagne.
Si fermò e si appoggiò con entrambe le mani alla ringhiera che si affacciava sul fiume: le acque chiare scorrevano placide e sul fondo si intravedevano i ciottoli, dai contorni distorti. I ponti che lo attraversavano erano brevi, poco più che passerelle – niente a che vedere con la parte di fiume che scorreva a Vexhaben, dove acquistavano un colore verdastro e si agitavano tra le tre o quattro campate dei ponti.
Un pesce nero guizzò nell'acqua e sparì sotto il ponte.
Reginald si sistemò sulla sua spalla e strusciò la testa contro la guancia.
Non era più il gattino che entrava nella tasca del cappotto e che poteva tenere con una mano, ma dormirle sulla spalla era rimasta la sua attività preferita. Così come miagolare finché non cedeva a dargli tutte le attenzioni possibili, incluso portaselo dietro nelle passeggiate.
La vetrina di una libreria sull'altra sponda aveva attirato l'occhio da diverso tempo. Forse avrebbe potuto trovare qualcosa di nuovo con cui trascorrere le vacanze e la madre non si lamentata che avesse passato tutto il tempo dietro a testi tecnici. E per fare posto nella camera, avrebbe potuto rifilare diversi volumi di favole a Miranda – le sarebbero piaciuti. Tastò la tasca esterna della borsa e quando le dita si strinsero sul portamonete sorrise: era ancora abbastanza pieno.
Per la prima volta, una parte di lei non vedeva l'ora di tornare a Vexhaben per iniziare l'accademia, anche se avrebbe significato lavorare per Selah. Ma nella Voragine era tutto risolto, il suo sbaglio non sarebbe pesato troppo.
Strine la ringhiera tra le dita.
Anche se aveva significato abbandonare Rachel, il futuro della famiglia era salvo.
Scosse la testa, poi si diresse verso il ponte più vicino.
Spinse la porta con una mano e mentre si infilava all'interno, un campanellino annunciò un nuovo ingresso, ma dietro al bancone non c'era nessuno.
Si grattò una guancia, iniziando a darsi un'occhiata in giro. Starnutì, quando la polvere si infilò nel naso e il gatto si agitò tra le sue braccia.
«Scusa.»
Si avvicinò allo scaffale alla parete, accovacciandosi nell'angolo per scorrere i titoli: finché qualcuno non sarebbe arrivato, avrebbe dovuto ingannare il tempo. E lasciare i soldi sul bancone le sembrava brutto.
Tra quelli che aveva letto non ce n'era uno che l'avesse ispirata troppo.
Si mise in piedi e sgranchì le gambe, rattrappite dallo stare accoccolata. Cambiò scaffale, con la speranza di avere più fortuna.
Quando anche l'ennesimo tentativo andò a vuoto, spostò lo sguardo sulla tenda che dava sul retro del locale. Si morse un labbro, indecisa se andare o meno a curiosare.
Prese un respiro profondo e poi oltrepassò il bancone, fermandosi con una mano sulla tenda. La scostò appena e avanzò di pochi passi nel buio.
Solo un angolo era illuminato e il riflesso sembrava spostarsi. Qualcuno doveva aver acceso una torcia.
«C'è... c'è qualcuno?» chiese al buio, con la voce che tremava per la paura di aver fatto qualcosa di sbagliato.
Qualcosa rovistò a terra, seguito da un'imprecazione e poco dopo la fiamma comparve vicino a lei, sostenuta non da una torcia, ma dalla mano di un uomo dal volto corrucciato.
Miriam fece un passo indietro. Sollevò una mano, agitandola nella speranza che capisse che non era lì per Vexhaben. Forse avrebbe dovuto aspettare il padre prima di andare in giro. Le aveva detto che gente dalla Voragine era lì. Aveva vaghi ricordi di plichi di lettere sulla scrivania del padre, ma non aveva mai approfondito quando aveva risposto a monosillabi, lasciandole intendere che non fosse una questione per lei. Aveva avuto pezzi per sospettare davanti agli occhi per tutta la vita e forse era un bene che non avesse ancora creato un filo completo della verità. Che non si fosse mai lasciata sfuggire una parola di troppo a corte.
«No, no. Non sono una spia.»
L'uomo abbassò la fiamma, inclinando appena la testa. «No?»
Miriam scosse la testa e strinse Reginald al petto. Aveva miagolato così tanto che alla fine aveva ceduto sul portarselo con sé.
«Ma sei nuova. Non ti abbiamo mai vista in giro.»
Si guardò intorno, aggrottando la fronte. «Abbiamo?»
«Io e gli spiriti» rispose l'uomo, incrociando le braccia. «Quindi, chi sei, ragazzina, se non sei una spia di Vexhaben?»
Le venne quasi da sorridere: essere una spia di Vexhaben lei avrebbe mandato Selah su tutte le furie.
Infilò una mano nella tasca esterna della borsa, tirando fuori il medaglione. Lo strinse nel palmo, avvicinandosi di un passo all'uomo prima di mostrargli la faccia superiore.
«La figlia del conte di Jelas. Mi chiamo Miriam e questo...» Abbassò lo sguardo sul gatto, che si era addormentato di nuovo. «È Reginald.»
L'uomo si rigirò il medaglione tra le mani, poi glielo ripassò.
«E che ci fai ancora qui?»
«Io... umh...» Miriam si grattò una guancia, il battito del cuore che si era calmato. «Io volevo comprare un libro, ma di là non c'era nessuno.»
«Perché non l'hai detto subito?»
«Perché non mi aspettavo di essere attaccata.»
L'uomo scosse la testa, le passò vicino e le fece cenno di seguirla. «Avevi qualche idea?»
Il cambio di tono la fece rabbrividire. Non sembrava nemmeno la stessa persona che per poco l'aveva colpita. Per certi versi le ricordava Rachel, capace di passare dalle minacce alla paura con la stessa rapidità con cui faceva scomparire le fiamme.
«Mi basta che non sia un trattato tecnico. E nessuna storia d'amore. Ne ho già abbastanza.» Il gatto miagolò e Miriam gli grattò la testa. «Poi... non ho preferenze, a dir la verità.»
«Capisci la lingua di Ethor?»
«Abbastanza per leggere.» Ma a Vexhaben nessuno la parlava, non aveva nemmeno la possibilità di continuare a esercitarsi senza attirare a sé altre accuse di tradimento.
L'uomo annuì, prese tre libri da uno scaffale e glieli appoggiò sul bancone.
Miriam sistemò il gatto di fianco e alzò lo sguardo. Aggrottò la fronte: c'era qualcosa di familiare nei lineamenti dell'uomo e nel profilo del naso.
Appoggiò la mano sul terzo libro: il titolo, Stringa di eternità, era l'unico che l'aveva attirata. «Va bene questo.»
L'uomo annuì, tirando il volume verso di sé. «Sono otto kendril d'argento.»
«So che può sembrare una domanda strana, ma... mi ricordi una persona che ho conosciuto a Vexhaben.»
«Non ci sono mai stato» rispose l'uomo, sbattendo le palpebre. «Chi?»
Miriam sospirò. Non sapeva nemmeno se l'avrebbe messo in pericolo un'altra volta. «Rachel. Rachel Langdale.»
Lui serrò appena le dita sul libro. «Vieni un attimo con me, Miriam. Non voglio farti del male, devo solo parlarti.»
Miriam lo seguì, stringendo appena la presa sul gatto. Lanciò uno sguardo al libro: l'aveva pagato, poteva solo sperare che nessuno entrasse lì dentro e ne afferrasse uno, ma la libreria non sembrava troppo affollata.
Tornati nel buio del retro, l'uomo richiamò un'altra fiamma, poi si avvicinò alla parete, lasciando che il fuoco attecchisse sopra sfere di roccia sostenute da infissi nel muro. Sfumature azzurrastre guizzarono verso la fiamma.
«Ostril, mh?»
«Sembri saperne abbastanza.»
«Il minimo.» Miriam scrollò le spalle.
«Quanto ho letto negli appunti di mio nonno... e quel poco che ho visto alla Voragine.» Si fermò sotto una palla, allungò una mano, ma il calore la fece desistere dal toccare la fiamma.
«Ah, il buon vecchio Simeon.»
Miriam serrò le labbra, tornando a guardarlo: ora che la luce aveva invaso una parte del retro, le faceva meno paura. Altri scaffali, altri libri accatastati contro le pareti. Lo stesso odore di polvere del negozio: alla luce delle fiamme il pulviscolo brillava, sospeso a mezz'aria. Ancora non sapeva il cambio di tono che aveva avuto la rassicurasse o no.
«Posso almeno sapere con chi sto parlando?»
«Mi chiamo Eliah» rispose voltandosi verso di lei. Le tese una mano che Miriam strinse con poca convinzione. «Rachel...» Sospirò, si avvicinò a uno scaffale e strinse tra le dita una vecchia bambola. «È mia figlia. Sta bene?»
Miriam tentennò. Non aveva la certezza che fosse morta, nessuno era tornato alla Voragine per controllare, ma a logica non poteva essere sopravvissuta. Aveva pensato di scappare e andare a controllare, ma sarebbe stata l'idea più stupida che potesse trovare.
Era una zona grigia in cui speranza e logica combattevano.
«Sì» gli mentì.
«Nessuno ha notizie da quella notte. Solo voci, niente lettere. E come fa a stare bene, quando si dice che nessuno sia sopravvissuto?»
«Si è arresa a Selah. È stata sua prigioniera.»
Spostò lo sguardo da Eliah alla fila di fiamme: sembravano ondeggiare tutte insieme, come se fossero controllate dalla stessa forza.
«Almeno è viva.»
Avrebbe dovuto fare di più nella Voragine. Forse era stato un errore impuntarsi sull'accademia, cercare di incastrarsi davvero nella nobiltà di Vexhaben. Forse avrebbe dovuto rimanere nel suo mondo, battersi per ideali per cui non avrebbe ottenuto nulla di buono in cambio.
«Puoi... puoi parlarmi di lei?» le chiese dopo qualche attimo di silenzio.
«Non l'ho conosciuta a fondo.»
«Mi basta qualcosa. I dettagli non importano. I soldi non erano abbastanza per portarla con noi, ci eravamo promessi di aspettare di esserci sistemati qua, ma con la Notte dei Morti...»
Miriam annuì con un cenno della testa, poi si sedette sullo sgabello che le indicava.
Aveva idea che sarebbe stato facile raccontare a qualcuno quel che era successo dalla Notte dei Morti, dei quattro anni della calma sconvolta a Gabes, al loro andare alla Voragine, alla morte di Rachel e al piano di Selah.
Accarezzò la testa al gatto e fece un respiro profondo.
Era solo una storia da raccontare con un finale che non le piaceva affatto. Per quanto fosse sbagliato, l'avrebbe lasciato fuori. Voleva dare una possibilità alla speranza.
Eppure la promessa che le aveva fatto pesava sulle spalle.
Eliah la ascoltò in silenzio, lo sguardo che si faceva più cupo ogni volta che aggiungeva qualcosa. Nessuno sarebbe stato rassicurato dall'idea che la regina avesse preso una parte così grande nella vita di un familiare.
E visto quanto Katherine si preoccupava così tanto del fatto che sarebbe finita a lavorare per Selah, non osava pensare come avrebbe potuto essere per lei.
Non sapeva nemmeno se chiedergli scusa: se non avesse trovato quei nomi per sbaglio quella parte della famiglia le sarebbe ancora rimasto nascosto. Non si era nemmeno arrabbiata con il padre quando le aveva detto di quel collegamento tra Jelas e la Voragine che aveva funzionato finché le cose non erano diventate troppo pericolose, per una parte e per l'altra.
«È vero quello che hai detto? La promessa?»
Miriam annuì. «È stata una mossa stupida, non ho bisogno di sentirmelo dire ancora.»
Gliel'aveva ribadito chiunque avesse incontrato nei giorni successivi al ritorno dalla Voragine: era stata stupida per essere andata contro la regina. E per poco non aveva peggiorato la situazione a parlare con lei alla fabbrica. Ciò che lì per lì erano parsi inviti, diventavano ordini più ci rimuginava sopra.
«Io lo considero un bel gesto. Non sono molti a Vexhaben...»
«Lo so» sospirò. «Ma mio nonno mi ha cresciuto così, l'ha fatto con tutti – tranne che con Miranda. Probabilmente l'avrebbe annoiata.»
Eliah si chinò appena in avanti, appoggiandole una mano sul ginocchio. «Non ho mai voluto lasciare Rachel indietro e da quel che dici non mi sembra nemmeno abbia avuto una vita facile, ma sono felice che abbia trovato qualcuno come te.»
Miriam sorrise. Doveva ammettere che se non fosse stato per Selah non sarebbe mai arrivata a quel punto. Se anche solo un dettaglio fosse stato diverso, la vita di tutti non sarebbe stata la stessa.
«Perché non... non portare tutti?»
«I costi. I costi dei biglietti, della vita qui. E la paura. Se la corona sospettasse qualcosa...»
Nemmeno Jelas alla fine era il posto perfetto che aveva immaginato e se lo fossero venuti a sapere a corte, la contea sarebbe passata a qualcuno di più vicino a George e l'intera famiglia condannata come traditori.
«Da quando non ho più lettere di mio fratello, tutto ciò che è rimasto è la bambola che mi ha dato quando siamo partiti.» Se la rigirò tra le mani. «Vivian ne aveva una uguale. Lei come sta?»
Miriam strinse appena le mani sullo scialle. Il gatto non si era mosso, ma continuava a fare leggere fusa.
Non era la prima volta che sentiva quel nome, anche Rachel l'aveva ripetuto alcune volte. Ma mai che una volta fosse accompagna dal sorriso: le sembrava che dovesse sempre trattenere le lacrime. Aveva paura di approfondire la questione, venire a sapere quante altre famiglie erano state distrutte in una manciata d'ore. E a Vexhaben erano tutti bravi a far finta che quel problema non esistesse: contava solo che il pericolo della magia fosse stato ridimensionato. Che la Voragine non facesse più paura. E se anche ne avesse parlato a corte nessuno l'avrebbe creduta.
«Vivian...» La voce le morì in gola. Non sapeva nemmeno come dirglielo, ma girarci intorno era inutile. «Vivian ha scelto di saltare. Mi dispiace.» Abbassò la testa, stringendo a sé il gatto. Eliah raddrizzò la schiena, tenendo la bambola piegata verso di lei. I due piccoli bottoni neri sembravano fissarla.
«Cosa?»
«Rachel non ha mai specificato... mi ha detto solo che ha scelto di saltare.» Che aveva preferito la certezza dell'abisso all'incertezza del futuro a Vexhaben.
Eliah scosse appena la testa, mormorando qualcosa che Miriam non capì. Un nuovo trillo della porta lo fece alzare in piedi. Appoggiò la bambola sullo sgabello e si avviò verso la porta, ma si fermò sulla soglia e tornò indietro.
«Se un giorno rivedrai Rachel, consegnala a lei. È l'unica cosa con cui posso assicurarle che non l'ho dimenticata, per quanto possa pensare il contrario.»
Miriam la prese con riluttanza: la stoffa grigiastra sembrava indicare che erano anni che nessuno l'aveva lavata. Si era riempita della polvere della libreria, continuando ad aspettare invano che qualcuno tornasse a giocarci insieme. O forse era nella Voragine che si era sporcata ed Eliah non aveva voluto perdere anche quella parte dei ricordi.
«Lo farò.»
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