Capitolo VI
Un altro anno era passato e a Katherine non sembrava possibile. Tra i preparativi da ultimare per la festa, quelli del matrimonio e il lavoro che George le aveva affidato – appioppato – Gabes era arrivata prima che se ne rendesse conto.
E forse era stato un bene.
Nessuno aveva riparlato del loro scontro verbale, si era limitata a presentarsi a ogni riunione, a farsi riempire la testa di discorsi che nemmeno le interessavano.
Fingi e vivrai.
Era l'unica cosa che continuava a ripetersi da quando si era svegliata e l'avrebbe fatto fino a sera, ammesso che non si fosse sciolta prima.
Il vestito iniziava già a pesare addosso, con il caldo che aveva già fatto appiccicare alla pelle la stoffa. Il cappello era appena sufficiente a togliere il riverbero dagli occhi e sotto la luce del giorno tutto sembrava sfuocato: ogni statua, ogni cespuglio aveva perso i propri contorni, così come i volti dei nobili fermi ai lati del vialetto.
Doveva continuare a guardare avanti, ma tutto ciò che era nel suo campo visivo erano George e Selah, intenti a parlare di chissà cosa tra loro, forse i modi migliori per togliere i nemici di torno.
Se non si fosse trattato di Gabes avrebbe fatto il possibile per togliersi da quell'impegno.
Abbassò lo sguardo sulle rose che avevano attratto un'ape che svolazzava tra le corolle, si posava per qualche istante e subito si allontanava.
Katherine aveva percorso quella distanza troppe volte, ma in quel momento le sembrava infinita.
Le celebrazioni di Gabes e i erano gesti sempre uguali, bloccati in un tempo passato. Gli stessi da quasi mille anni.
Cambiavano solo i partecipanti. E da quando la madre era morta sei anni prima, la frattura con George era solo aumentata. Quello era il primo anno che neanche il padre era presente. C'era solo il cognome a tenerli vicino.
E non erano più bambini, giustificati dal correre in giro. Quel ruolo le stava stretto quanto il corsetto, con i lacci troppo tirati.
Più i giorni passavano, peggio sarebbe stato perché presto sarebbe arrivato anche il momento in cui sarebbe stata Selah a diventare regina. L'aveva sempre saputo che il trono sarebbe toccato a George, che sarebbe stata sempre un passo indietro al fratello e non ricordava nemmeno quale fosse stato il giorno in cui avevano giocato per l'ultima volta, ma era lo stesso in cui le cose erano diventate serie, in cui la politica di Vexhaben aveva lasciato cadere il suo peso su di loro.
Serrò le labbra e trattenne le lacrime. Non voleva rovinarsi un'altra giornata per colpa loro, avrebbe trovato presto il modo di vendicarsi.
Il tetto bianco della piccola domus privata comparve tra gli alberi e arrivare all'ombra fu un sollievo.
Selah si staccò da George solo alla base delle scale; le medaglie e le spille sul petto brillarono quando si voltò verso di lei e Katherine le rivolse un sorriso. L'unica cosa a cui avrebbe potuto aggrapparsi dopo l'incoronazione era che non sarebbe mai stata di sangue reale: avrebbe spulciato ogni libro mai scritto sulla politica se le avrebbe permesso di renderle terribile la vita.
Sollevò il vestito e salì gli scalini.
George la aspettava sul gradino più alto, le braccia incrociate dietro la schiena. Indossava una giacca marrone, ma la loro differenza di ruoli era sottolineata dalla fascia rossa e oro che indossava sul petto.
Tese una mano verso Katherine non appena raggiunse l'ultimo scalino e appoggiò il palmo su quello del fratello.
L'interno della domus odorava di fumo. C'erano solo tre panche per lato, la statua di Kurais li guardava dal fondo del corridoio, dietro l'altare decorato con vasi di rose rosse.
«So che hai accettato l'invito di Datchery.»
Katherine sospirò. «Non mi pare di aver fatto nulla di male, visto che Arthur è anche amico mio.»
Anche se avrebbe dovuto dire la verità, prima o poi. Che il mese successivo sarebbe stato un anno che si vedevano di nascosto.
«No, anzi, sarebbe anche l'ora che tu ti prenda qualche...»
Iniziava in quel modo ogni conversazione dei nobili che la fermavano, con la curiosità addosso del perché ancora non avesse nessuno accanto. Perché sembrasse disinteressarsi del regno.
«Davvero? Davvero vuoi tirare fuori la storia delle mie responsabilità a Gabes? Pensavo fosse giorno di festa. Che fine ha fatto la nostra tregua?»
«Katherine» la riprese George. «Fin quando vuoi illuderti che niente sta cambiando?»
Lei aveva smesso di farlo sei anni prima, ma George non sembrava essersene reso conto: essere il principe reggente gli aveva occupato la mente se non aveva capito che la sua era solo opposizione. Se non poteva impedire loro di sedersi sul trono, era comunque il minimo che poteva fare.
Si fermò davanti all'altare e appoggiò il mazzo sul panno bianco che copriva la pietra scura e aggrottò la fronte.
«Non posso illudermi che non diventerai re tra poco più di un mese e che Selah sarà al tuo fianco. Non posso far finta di nulla. Lo so che il problema con Ethor è sulla costa, Lenville si è già lamentato delle navi affondate e dei commerci saltati. Che l'alleanza con Dotha negli ultimi dieci anni ha reso Ethor più potente degli ottocento prima. Ma i problemi sono anche qui, continuerò a pensare a chi ha bisogno.»
George si appoggiò con entrambe le mani all'altare. Scosse appena la testa e si guardò indietro. «Il problema adesso è la regione dell'Exval: Perch se ne sta già occupando. Come noi. I lavori sono fermi... ormai da un mesetto, motivo per cui avere qualcuno di importante potrebbe rallentare la decisione di dichiarare guerra. Non serve molto, giusto il tempo di far insediare il nuovo governo.»
«Perché non anticipare i tempi? Avreste evitato anche la mia... presenza.»
«Ethor avrebbe potuto insospettirsi.»
Katherine aggrottò la fronte: quelli non erano discorsi da fare nella domus, se li sarebbe aspettati a pranzo. Si voltò indietro, accertandosi che fossero da soli. Doveva riguardare solo una cosa che il fratello aveva preso alla larga.
«Vuoi arrivare a dirmi che in programma c'è un matrimonio combinato con il loro erede? Taglia corto allora.»
«Oh, no, no.» George si voltò verso di lei, un piccolo sorriso sulle labbra. «Tutto il contrario. Se trovi il modo di evitarlo, toglierai un bel pezzo d'imbarazzi diplomatici in futuro.»
«Non capisco.» Perché quell'improvvisa premura, perché entrare nel discorso quando avrebbero solo dovuto appoggiare nel vaso vuoto l'ultimo mazzo di rose. Ne sfilò una dal mazzo e accarezzò i petali. «Prima la Redgold, ora questo. Non mi pare una coincidenza.»
«Sono arrivate voci. Sul fatto che non eri abbastanza presente nella gestione del regno, che nessun matrimonio è programmato. Vista da fuori, sembri...»
Katherine serrò le labbra e annuì prima che George finisse la frase. Sembrava aspettare solo qualcuno che la tirasse via da un regno che mal sopportava. Una macchia che la famiglia non si sarebbe mai tolta di dosso se fosse arrivata una proposta da Ethor. E a quel punto, il proprio volere non avrebbe contato nulla rispetto alla diplomazia.
«Capisco che non approvi molte cose.»
Katherine raccolse il mazzo e lo sistemò nel vaso. «Cos'è che vuoi sentire? Che Arthur non è solo un amico?»
«Qualsiasi cosa pensi sia giusta.»
«È solo un amico» gli mentì di nuovo. Non si voltò a guardare George, non voleva che le leggesse in faccia la verità. «Ma se pensi che lui abbia secondi fini nella nostra relazione, gli posso parlare. Anche stasera.»
La scusa perfetta per vedersi da soli, l'argomento perfetto su cui ridere insieme davanti agli ennesimi bicchieri di vino di Gabes.
Non era una risposta che avrebbe potuto dare a George senza parlarne ad Arthur. Non avevano mai parlato di un futuro insieme: c'erano sempre stati solo loro e il momento, ma finché non avesse capito le vere intenzioni di George, non avrebbe fatto la sua mossa.
«E comunque sarebbe meglio andare a pranzo, non vorrai fare tardi» disse a George prima di allontanarsi di scatto dall'altare e avviarsi verso l'ingresso perché a quel punto non vedeva l'ora che arrivasse il ballo, i bicchieri di vino erano il modo migliore di sopportare Gabes.
Si fermò a metà del corridoio.
Guardò oltre la spalla, pronta a dirgli altro, ma il fratello si era chinato sull'altare a pregare. Si voltò verso di lui e incrociò le mani davanti al petto, aspettandolo in silenzio con gli occhi fissi sulla statua.
I lineamenti del volto di Kurais erano delicati, scolpiti con tanta destrezza nel marmo che il gioco di ombre prodotto dalle torce alla parete faceva sembrare il naso rivolto all'insù; da sotto, però, era tozzo. L'ennesima finzione che si poteva trovare a corte.
George si rialzò, lisciò la giacca e non appena la raggiunse le mise una mano sulla spalla; Katherine seguì quel muto invito e procedette fino all'ingresso con lo sguardo fisso a terra.
Quell'anno avrebbero davvero avuto bisogno di una grossa dose di buon giudizio.
*
Il caldo era peggiorato dopo pranzo.
Il lastricato bianco della piazza antistante al palazzo brillava, almeno nel pezzo lasciato libero dalla folla, dietro due cordoni di soldati. Le grida della folla si perdevano nell'afa, arrivavano a Katherine come suoni incongruenti che si mescolavano al rimbombo ritmico dei tamburi.
Ripetersi i gesti da fare, dove guardare e imprecare contro il clima era abbastanza da tenerla occupata.
La strada da percorrere non era molta e a ogni passo la domus di Kurais si faceva più vicina e con lei l'ombra che offriva.
Non vedeva l'ora di posare la corona di rose sull'altare, mettere fine anche a quella cerimonia e godersi in privato le ore che mancavano alla sera.
Lanciò un'occhiata a George senza voltarsi del tutto: fissava davanti a sé e procedeva a testa alta. Doveva esserne felice che dall'anno successivo non avrebbe avuto più il peso di portare la corona di rose all'altare.
Spostò appena le dita: il braccio sinistro iniziava a farle male, costretto a reggere la stessa posizione da quando erano partiti.
Il sollievo dell'ombra era l'unica cosa da ringraziare. Non le divinità.
Il rumore ritmico dei tamburi si era fermato all'esterno e si faceva sempre più debole: il silenzio della domus era spezzato dal canto in lingua antica del coro disposto alla parete e dal fruscio degli abiti. Dai bracieri appesi al soffitto fuoriusciva fumo biancastro dell'incenso, creando girigogoli nell'aria, e l'odore pungente riempiva l'aria, rendendola quasi irrespirabile.
Avrebbe voluto essere da tutt'altra parte, ma il dovere di mantenersi alle tradizioni era sempre forte, quasi la teneva incatenata al suo posto, a una corona di rose di distanza da George, per l'ultima volta, con la sua salita al trono così imminente – se gliel'avessero detto solo due anni prima avrebbe riso.
Si sforzò di mantenere il sorriso sulle labbra, di non lasciarsi andare allo sconforto: in un anno avrebbero potuto cambiare tante cose e forse in peggio, visto quel che George le aveva lasciato intendere.
Abbassò lo sguardo sul tappeto rosso, la cui uniformità era rotta a distanze regolari da falene ricamate in oro, senza essere in grado di reggere quello della statua di Kurais.
Da quando la madre era morta, le sembrava di aver perso tutta la fede, ma ricordava ancora le parole in lingua antica delle preghiere che far finta di pregare ormai non era più così difficile e il senso di colpa non pesava più sulle spalle: era inutile sprecare la voce per divinità che nemmeno sembravano in grado di ascoltare.
Si fermò a un passo dall'altare e si voltò verso George.
Un cerchio d'oro con otto diametri era lo scheletro della corona: agli opposti di quello orizzontale, nel mucchio di rose rosse, ne spiccavano due bianche.
Katherine si portò una mano sul petto e si inchinò; quando alzò la testa, dall'altra parte la statua di Kurais sembrava fissarla, quasi giudicarla per essere lì.
Il braccio destro si allungava verso l'esterno, il palmo della mano reggeva una falena dorata.
Tenne gli occhi fissi lì sopra, finché non arrivò a pochi passi dall'altare. Dietro di loro, il ticchettio del bastone del padre si fermò.
George aveva appoggiato una mano sul bordo, teneva il capo abbassato e mormorava una preghiera.
Katherine imitò il gesto e socchiuse gli occhi, ma a differenza sua non riusciva a trovare le parole giuste per la preghiera.
Non sapeva nemmeno per cosa pregare: la supplica di una persona non sarebbe mai stata abbastanza da cambiare le cose.
E da Gabes arrivare al giorno del matrimonio sarebbe stato un attimo. Piegò appena d'istinto le dita: la stretta allo stomaco sembrava essere più forte ogni volta che ci pensava.
Le parole mormorato da George erano quasi un fastidio: non funzionano, avrebbe voluto dirgli.
Da una parte, avrebbe voluto ritrovare la fede.
Dall'altra, qualcosa continuava a ripeterle che le statue non avevano niente di divino, erano solo facce immobili che fissavano dall'alto dei loro piedistalli, sorde a ogni parola nelle loro orecchie di marmo.
Quando la preghiera finì, George si chinò in avanti, sfilando una delle due rose bianche della corona.
Katherine lo imitò ancora e strinse le dita su un pezzo del gambo libero da spine. Sull'altare rimasero solo rose rosse. Sembravano quasi un cerchio di sangue che circondavano la falena ricamata.
«Optimum iudicium tibi hodierna benedictio det» mormorò George prima di sistemarle la rosa nell'occhiello di un bottone lasciato aperto.
Erano finite le giornate in cui quell'abbraccio avrebbe portato con sé un affetto reale, che non fosse solo un dovere.
Ma delle parole di qualche giorno prima non gli avrebbe mai chiesto scusa: sapevano entrambi che era la verità e che George non avrebbe potuto ignorarla per sempre.
E se non fosse stato per cerimonia, nemmeno quell'augurio le avrebbe rivolto.
«Tibi etiam» gli rispose, sistemando a sua volta la rosa.
George le strinse il volto tra le mani e le diede un bacio sulla fronte.
Per un altro anno, Gabes stava passando nel solito identico modo.
Un tempo George l'avrebbe anche abbracciata, le avrebbe rivolto un sorriso e fatto un buffetto sulla guancia, a raccomandazione di non giocare con la rosa.
Il ticchettio del bastone riempì di nuovo l'aria e Katherine si voltò verso il padre.
Era l'unico che sorrideva davvero, che ancora si illudeva di avere davanti i figli ancora bambini.
Lo appoggiò sulla seduta di una panca allungando le mani verso di loro. Gliene strinsero una ciascuno, piegando appena la testa in un gesto di saluto.
Mancava solo il ballo quella sera e poi Gabes sarebbe trascorsa nello stessa tranquillità di tutti gli anni passati.
Optimum iudicium tibi hodierna benedictio det: Che la benedizione di oggi possa darti il buon giudizio
Tibi etiam: Anche a te
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