Capitolo I
Quattro anni dopo
"Vendicaci, Rachel."
Senza la barriera dell'astalt, non c'erano filtri dai morti: le voci degli spiriti coprivano tutte le altre, era come se i soldati e gli altri flammas ferentes sugli spalti di legno non ci fossero.
Sentire di nuovo la magia significava avere di nuovo vita addosso – anche se serviva a portare morte. Se fosse stato buio, li avrebbe visti galleggiare in aria tutt'intorno a lei, allungare le braccia in una supplica che si faceva più insistente di giorno in giorno.
Rachel sollevò una mano, cercando riparo dal riverbero. Non poteva colpire alla cieca né distrarsi.
"È l'ora della vendet–." La voce sparì, coperta da un sibilo.
Rachel rotolò su un fianco. Sputò la sabbia che le era entrata in bocca e si rimise in piedi. La freccia scagliata dall'avversario le aveva sfiorato il fianco: aveva tranciato la stoffa e graffiato appena la pelle. Passò una mano a togliere il sangue fuoriuscito.
L'avversario aveva già incoccato un'altra freccia e seguiva ogni suo movimento con le braccia. Rachel dondolò a destra e sinistra: l'illusione era durata già fin troppo e il tempo iniziava a giocare a suo sfavore. Temporeggiare e limitarsi a incenerire le frecce prima che la raggiungessero era sempre stata una strategia vincente. Quella volta non avrebbe fatto eccezione.
Piegò le dita e il tepore familiare della magia sui polpastrelli andò a sommarsi alla calura estiva.
"Questa non è la nostra vendetta."
Tutt'intorno, i canti dalle gradinate si erano smorzati sempre di più per finire in un silenzio che le dava fastidio. Senza di quelli, non poteva ignorare le voci degli spiriti, i loro giudizi e le loro richieste.
Non poteva evitare la delusione che traspariva dalle parole: togliere di mezzo gli oppositori della corona non era ciò che avrebbero voluto vederla fare.
Strinse il pugno e il vapore si trasformò in fiamma.
"Devi vendicarci, Rachel."
"Non puoi continuare così."
"Abbiamo bisogno di te."
Serrò le labbra, cercando di ignorarli, ma le voci si accavallavano in testa senza pietà: un tempo le avrebbe distinte, ma più il tempo passava, più si amalgamavano.
L'avversario fece la mossa che aspettava, ma il braccio non gli reggeva più e la traiettoria della freccia morì in un arco troppo corto per raggiungerla. Rachel allargò il braccio, la sfera di fiamme incrociò la freccia prima che toccasse terra. La punta di metallo ricadde sulla sabbia prima della nuvola di cenere. Sorrise appena, quando le suppliche scomparvero, soppiantate dal canto del sangue e morte che caratterizzava ogni scontro.
Abbassò il braccio di scatto. L'altro si guardava intorno alla disperata ricerca di una freccia con cui potesse reagire, evitare ancora per un po' la morte.
Rachel scosse la testa e fece un passo avanti.
Quello scontro poteva finire lì e lo sapeva.
Serrò le labbra e sollevò entrambe le braccia nella sua direzione: aspettare ancora non aveva molto senso, dopo che l'aveva lasciato sperare fino all'ultimo e aveva permesso a chi aveva scommesso sulle frecce di illudersi di poter racimolare qualche soldo.
Non aveva idea se il biglietto fosse ancora nella tasca o meno, ma poco le importava del suo nome: sarebbe stato uno dei tanti morti sulla sabbia nell'arena, uno di coloro che la corona voleva sparisse da Vexhaben.
L'uomo lanciò l'arco a terra e iniziò a correre verso il muro.
Illuso.
"Non è lui a meritarsi le fiamme."
Una voce s'impose sulle altre e Rachel si fermò per un attimo e socchiuse gli occhi: doveva ignorare anche quella. Quando gli fu abbastanza vicino, l'uomo si gettò in ginocchio. Quel che chiedeva non era una decisione che spettava a lei.
Scosse appena la testa: guardare indietro e rivolgere una domanda muta a chi aveva quel potere avrebbe portato alla risposta che già sapeva.
Doveva morire.
Fletté entrambe le braccia verso il corpo e subito gli volse le spalle: non c'era niente di bello a rimanere a vedere la scena di una voce farsi sempre più debole in mezzo alle fiamme.
"Sai, dovresti far bruciare il regno allo stesso modo."
Vivian aveva ragione.
Un luccicare sul terreno attirò la sua attenzione: i bracciali che aveva appoggiati sul bordo prima dello scontro erano tornati a ricordarle che togliersi di dosso l'oppressione di Vexhaben era solo un'illusione.
I momenti di libertà che le erano concessi sarebbero finiti ben presto e il coro di voci degli spiriti l'avrebbe lasciata a crogiolarsi nel desiderio di vendetta che non si sarebbe mai sviluppato: l'aveva capito subito che quel metallo, l'astalt, bloccava la magia come la nobiltà impediva le rivolte. I segni dei bracciali sui polsi erano il prezzo che aveva pagato ogni volta che aveva tentato di ribellarsi: le cicatrici avevano scavato la pelle, ai lati si allargavano a sembrare dei lampi.
Il pizzicare della magia scomparve dalla mano destra non appena chiuse il primo bracciale. Le voci degli spiriti si fecero più deboli per poi lasciarla nel silenzio. Erano freddi, un'ironia che fossero piacevoli nella calura estiva.
Abbassò lo sguardo: anche per quel giorno aveva fatto il suo.
L'ombra era un sollievo. Appoggiò una mano sul petto e reclinò la testa. I capelli si erano attaccati alla fronte, le dita ancora pizzicavano per la magia, ma le voci e gli applausi non la toccavano più.
Un altro corpo bruciacchiato sarebbe finito in una fossa comune e lì dimenticato dopo una morte immeritata. Eppure, c'era un senso di gratitudine che non riusciva a scrollarsi di dosso: se erano condannati, lei otteneva qualche ora di libertà e una cena più corposa. Qualunque cosa facesse, però, non sembrava mai abbastanza per avere un garante.
Infilò entrambe le mani in tasca, il mignolo della destra finì in un buco e l'unghia s'impigliò in un filo; l'altra andò a stringersi sul foglietto che aveva ricevuto prima degli scontri. Lo tirò fuori e lo aprì. Il nome scritto sopra non le diceva nulla: era stato uno degli avversari politici che avevano oltrepassato il limite. Lo accartocciò e lo lasciò cadere nel canale centrale: l'acqua di ristagno lo avvolse in un attimo e la carta si scurì.
La puzza proveniente dai bagni la raggiunse prima che ci arrivasse. Storse il naso e si portò una mano sulla bocca per trattenere il conato di vomito, ma il sapore amaro si era già sparso nella bocca.
Si infilò nell'apertura e si appoggiò al lavandino accanto all'ingresso.
Lo specchio era sporco, rigato di nero ai bordi e graffiato in più punti, nell'angolo in basso era incrinato. Sciolse la treccia: i capelli avevano preso una forma ondulata, ma lo sporco continuava a tenere le ciocche separate; lo scalpo pizzicava e a grattare non otteneva alcun sollievo. Lo fece comunque, concentrandosi dietro l'orecchio.
Girò la manopola e il rubinetto gorgogliò per un attimo, poi lasciò uscire fuori un getto scuro; quando perse un po' del suo colore, si sciacquò la faccia, poi si asciugò alla bene e meglio con la manica della camicia.
Passato lo scontro, era arrivata la fame.
Strinse la mano sulla stoffa all'altezza dello stomaco, ma doveva aspettare la cena.
Si fermò sullo stipite, inspirò a fondo, poi colpì la pietra con il pugno. Quell'atmosfera di morte che la circondava ogni volta che metteva piede sulla sabbia era diventata abituale. Tutto l'opposto di quello che si era promessa dopo l'attacco alla Voragine.
Non c'erano più i dubbi che la attanagliavano se era la cosa giusta da fare o meno. Era solo il modo per guadagnarsi da vivere un altro giorno.
Alzò la testa quando sentì un leggero applauso. Serrò le labbra e lasciò cadere le braccia lungo il corpo.
«Ottimo lavoro, mia cara.»
Piegò appena la testa in un cenno di saluto, senza rispondere. Le era bastato vedere per un attimo il sorriso soddisfatto impresso sul volto di Selah e le mani congiunte all'altezza del petto per sapere che quella volta se la sarebbe cavata e che nessuna frusta le avrebbe ferito la schiena.
Erano quattro anni che la stessa persona che le aveva strappato Vivian le gravitava intorno e mai si sarebbe mai tolta di dosso la sensazione di sporco di servire proprio lei: non riusciva a vedere il lato positivo di avere la protezione ufficiosa della futura regina. Se non le avesse mai fatto da garante, non avrebbe mai avuto la certezza di essere al sicuro.
La fame che l'aveva presa dopo la fine dello scontro scomparve nello stesso attimo in cui le nocche fredde le sfiorarono la guancia. Ogni volta che la toccava in quel modo aveva l'idea che fosse la morte in persona a starle davanti.
«Ti hanno mangiato la lingua? Sei più silenziosa del solito» continuò Selah, costringendola ad alzare lo sguardo verso di sé. La spilla a forma di falena che chiudeva il bavero della giacca brillava sotto le torce alla parete e la loro luce rossastra dava ai suoi capelli biondi una sfumatura più scura.
«No» sbottò Rachel.
Ormai aveva finito gli insulti ed era sicura che qualsiasi parola potesse tirare fuori l'avrebbe solo fatta ridere e che se la sarebbe scossa di dosso, dicendo che non era niente di nuovo, che aveva sentito di peggio.
Le spostò una ciocca di capelli sfuggita alla treccia dietro l'orecchio. «Sembra tu stia imparando. Meglio così.»
Tanto valeva aspettare che arrivasse il momento in cui le dicesse cosa voleva davvero da lei: tutte le volte che aveva provato a chiedere non aveva ricevuto risposta.
Rachel fece un passo indietro, come se mettere distanza fra loro la potesse aiutare.
Selah tirò fuori dalla tasca un fazzoletto ricamato avvolto intorno a qualcosa, ma la curiosità di vedere quel che c'era dentro le faceva tenere gli occhi incollati alla sua mano. Quando aprì gli angoli e scoprì i due biscotti al suo interno, strinse una mano all'altezza dello stomaco.
Una magra consolazione per tutto, anche se doveva ammettere che quelle poche volte che non glieli portava la giornata era strana.
Il braccio teso verso di lei le faceva intendere che glieli stava offrendo, ma ogni volta poteva sempre essere l'ultima.
Alzò lo sguardo verso Selah che annuì con un cenno della testa e solo a quel punto Rachel ne strinse uno con riluttanza tra le dita.
«Non sono avvelenati.» Il sorriso che accompagnò quella rassicurazione ebbe solo l'effetto di farla rabbrividire. «Anche perché non ho affatto intenzione di sprecare veleno con feccia come te.»
«Lo so» le disse prima di staccare la punta con un morso. Quando prese il secondo biscotto, Selah scosse il fazzoletto e lo rimise in tasca.
«C'è altro?» Di tutte le domande che avrebbe voluto farle, solo quella sembrava essere l'unica adatta: ormai aveva capito com'era, come si comportava. Sembrava aspettare il momento opportuno per tirare fuori il nocciolo della questione.
«Sì.» Selah fece un passo avanti. Il sorriso, però, era sparito.
Rachel ingoiò anche l'ultimo pezzo di biscotto. «Quel che posso fare.»
«Si tratta di Gabes.»
«Come?»
«Hai l'ordine di essere presente a corte per il ballo.»
«No, non verrò» rispose Rachel.
Strinse i pugni: non avrebbe visto da vicino i festeggiamenti della festa più amata dal regno, non quando era così vicina all'anniversario della Notte dei Morti. Avrebbe evitato volentieri di presentarsi ed era certa che anche la corte sarebbe stata felice di non avere tra i piedi una presenza non gradita.
Selah le tirò uno schiaffo sulla guancia. «Forse non mi hai sentito bene. Non è un invito il tuo. È un ordine.»
Rachel rimase con la testa piegata a fissare il pavimento sudicio, mentre il dolore si irradiava dal punto colpito.
«Perché devo?»
«Perché sei l'unico simbolo che ho della vittoria.» Selah le strinse il volto con entrambe le mani. «E non ti permetterò di macchiare la festa.»
Non le avrebbe chiesto cosa sarebbe successo se non si fosse presentata: tutto ciò a cui poteva pensare non si sarebbe nemmeno avvicinato a quel che le avrebbe fatto Selah, ma sarebbe stata in grado di reggere le ferite fisiche: il dolore sarebbe passato e alle cicatrici ci si sarebbe abituata e avrebbe anche potuto far finta che non esistessero, che il sangue non fosse mai scorso.
Quell'anniversario era una lesione che non sarebbe mai guarita.
Avrebbe dovuto prendere parte ai loro festeggiamenti.
Avrebbe dovuto sopportare ogni brindisi. Ogni acclamazione che, per lei, non era altro che un pugno nello stomaco.
Non avrebbe avuto tempo di piangere i propri morti.
E gli spiriti avevano ragione. Non erano quei disperati che si trovava davanti nell'arena a dover perdere la vita, era Vexhaben che doveva bruciare nelle fiamme e con lei la famiglia reale.
Se non avesse avuto l'astalt ai polsi avrebbe potuto attaccare alla festa, lasciare che il palazzo bruciasse: senza la magia era inerme, costretta a piegarsi agli ordini di Selah.
Ingoiò a vuoto, poi annuì con un cenno della testa.
Vivian aveva ragione.
Flammas ferentes: portatori di fiamma
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