77. I PECCATI DEI PADRI PT.1

Un'ora e mezza prima

«Ehi, mollami! Sono in missione! Abbiamo smarrito un nanetto!» protesto, cercando di sottrarmi alla sua presa.

Mio padre –travestito da cameriere– continua a trascinarmi per il braccio lungo i margini della sala e si decide a darmi retta solo dopo che ci siamo imboscati dietro una colonna nell'angolo, al riparo da occhi indiscreti.

«Scusa, principessa, ma ho bisogno del tuo aiuto». Mi squadra dalla testa ai piedi, con un sorriso che gli increspa le labbra. «Wow, sei identica a tua madre con questo vestito».

Devo fare uno sforzo immane per nascondere quanto mi renda felice quel complimento, soprattutto da parte sua. «Sì, okay, grazie. Ora però mi spieghi che cavolo ci fai qui?»

Mi fa cenno di aspettare, prende il telefono e comincia a digitare sullo schermo. Infine lo ripone nella tasca dei pantaloni. «Bene. Non dovrebbe metterci troppo».

«Di che stai parlando?» obietto interdetta.

Mi ignora. «Tu sai dove si trova l'accesso alla torre est, giusto?»

La domanda mi coglie alla sprovvista, ma annuisco. «Io e il biondino abbiamo provato a entrarci. Il problema è che c'è un codice d'accesso e sparare a caso non si è rivelato un gran piano. Mea culpa».

«Non importa. Basta che mi ci porti».

«Vorrei ricordarti che sei ricercato per un numero non ben identificato di reati. Se ti beccano, le tue prossime vacanze saranno in un posticino con la doccia comune».

«Reati che non ho commesso» precisa, guardandosi attorno con frenesia. «E tranquilla, ho già preparato un diversivo».

Mi acciglio. «Papà, che diavolo hai combinato?»

«Io? Niente. Chiamalo karma, piuttosto».

Proprio in quel momento, vedo Klaus che sorpassa bruscamente Liam all'ingresso e marcia spedito attraverso la calca di coppie che danzano sulla pista. Sul volto ha uno sguardo così gelido da farmi paura e, seguendone la traiettoria, individuo Matt che sta chiacchierando con la sua sposa al buffet.

Un brivido d'orrore mi fa accapponare la pelle mentre capisco che cosa sta per succedere. Grido il nome di Klaus, che non sembra nemmeno accorgersene. Tento di raggiungerlo, ma mio padre mi acciuffa per il polso e mi sospinge in direzione dell'uscita più vicina. Mi ribello con tutte le mie forze, imprecando e arrivando persino a rifilargli delle gomitate agli stinchi. Invano.

«No, papà! Devo fermarlo! Io...»

Mi giro appena in tempo per scorgere Klaus che sferra un pugno in faccia a Matt, poi mio padre mi costringe ad abbandonare la sala. Sussulto quando la voce del ragazzo che amo comincia a rimbombare tra le pareti del corridoio.

Anche se da questa distanza le parole sono confuse, percepisco che non è soltanto arrabbiato. No, è furioso. Ferito. Deluso. Straziato dalla stessa verità da cui volevo proteggerlo, pur sapendo che conoscerla era un suo diritto. Così gli ho mentito, e lui lo sa benissimo.

"Mi odierà" penso tra me, smettendo di divincolarmi. All'improvviso mi sento prosciugata di ogni energia.

Mio padre si rende conto che mi sono calmata e allenta la stretta, man mano che ci allontaniamo. «Scusa, Key. Non potevo permetterti di intervenire».

«Stai zitto!» sbotto furibonda. «Era tutto calcolato, vero? Mi hai fatto promettere di non dirlo a Klaus solo perché volevi che lo scoprisse quando ti era più comodo, per indurlo a fare una scenata davanti alle telecamere. Non te ne fregava nulla di non farlo soffrire».

«Ti assicuro che provo una gran pena per quel ragazzino, ma gli Hallander sono dei maestri nell'arte di pararsi le chiappe. Stavolta neanche l'intero patrimonio sarà sufficiente a salvare la loro preziosa reputazione... e finalmente Mike potrà riposare in pace» aggiunge in un sussurro.

Non le condivido, ma non posso fare a meno di comprendere la ragione delle sue azioni. Forse, se la memoria del mio migliore amico fosse stata infangata per vent'anni, anch'io sarei disposta a fare qualsiasi cosa per rendergli giustizia.

In silenzio accelero il passo e gli indico la strada per la torre. Grazie all'atmosfera concitata che ha pervaso la villa, riusciamo a muoverci senza che nessuno ci presti la minima attenzione. Lo scompiglio scoppiato nella sala da ballo ha mobilitato le guardie della sicurezza e lo scandalo della passionale relazione tra me e uno dei miei fratelli adottivi è già passato in secondo piano, quindi gli invitati hanno perso del tutto interesse nei miei confronti.

Per la seconda volta in questa giornata, mi ritrovo di fronte al portone di legno con un tastierino numerico al centro. Mio padre non esita un attimo e inserisce la sequenza "3107". Si sente un lieve trillo, accompagnato dallo sfarfallio di una lucina verde.

Spalanco la bocca, perplessa. «Il compleanno di Harry Potter? Non me l'aspettavo da Crudelia».

«O per quello, oppure perché è il giorno in cui il tuo fidanzatino è stato dato in adozione. Entrambe sono ipotesi valide» ridacchia, afferrando la maniglia. «A proposito, ora puoi tornare da lui».

Lancio un'occhiata alle mie spalle, ma lo stomaco mi si contorce alla sola idea di trovarmi faccia a faccia con Klaus. E se le mie bugie avessero distrutto quel sogno appena iniziato? Se non volesse più avere niente a che fare con me?

Mordicchiandomi il labbro, seguo mio padre oltre la porta. La richiude dietro di noi, attento a non fare rumore, e cominciamo a salire i gradini di marmo che si arrampicano a spirale su per i muri della torre.

«Come mai eri così certo che fosse quello il codice?» chiedo sospettosa.

«Alan è riuscito a intrufolarsi nell'ufficio di mamma Hallander. A quanto pare è un bravo hacker, o ha usato qualche metodo segreto da tartaruga ninja del FBI, ma è riuscito ad accedere ai file riservati nel suo portatile». Fa spallucce. «Me ne ha inviati alcuni, ma poi ha dato di matto per non ho capito cosa e ha riattaccato. Non so dove si sia cacciato, e nemmeno Peter... quindi eccomi».

Qualcosa non mi convince in questa storia e, a giudicare dalla sua espressione, anche papà sembra abbastanza irrequieto.

In cima alla scalinata c'è un pianerottolo, collegato attraverso un arco a un'ampia stanza circolare dall'aspetto lugubre e trascurato. Non ci sono finestre, soltanto delle sottili feritoie da cui filtra l'alone argenteo delle stelle; deve essere calata la sera, ormai. Vado a tastoni a caccia dell'interruttore e lo premo. La luce tenue del lampadario, coperto di ragnatele, si accende sfarfallando e ombre tremolanti prendono vita sulle pareti.

«Okaaay, facciamo finta che non sia inquietante» commenta mio padre, mettendosi a rovistare tra gli scaffali.

Io invece mi avvicino al pianoforte che giace in disparte. Un tempo era bianco, ma adesso è talmente incrostato di sporcizia da apparire grigio e i tasti sono velati di polvere. Mentre faccio scivolare un dito sulla cassa, avverto delle incisioni nel legno e mi chino per leggere incuriosita. "Mamma e Matt" recita la scritta un po' sbilenca.

«Incredibile». Il tono di mio padre è scioccato. «Quella donna ha ficcato in questo posto letteralmente tutto il suo passato».

Raggiungo una scrivania invasa di cianfrusaglie e passo in rassegna le foto sbiadite nelle cornici. Una ritrae una bellissima Alizée di massimo dodici anni che mangia un gelato, accanto a un ragazzino biondo poco più piccolo che le sta pulendo il viso con un tovagliolo. In un'altra c'è un neonato dai ciuffi color miele che sonnecchia nella culla mentre un bimbo dai chiarissimi capelli castani si tiene aggrappato alle sbarre per osservarlo estasiato.

«Non tutto» bisbiglio, guardando quel Klaus ancora in fasce. Quel minuscolo esserino innocente ignaro delle terribili sofferenze che avrebbe dovuto sopportare in futuro. «Solo quello che vuole dimenticare».

Apro uno dei cassetti e aggrotto la fronte. Vicino a una bottiglia di vino vuota etichettata "L'ultima", si trova una pila di fogli rilegati con una copertina bianca senza titolo. Mi basta una rapida sbirciata tra le pagine per intuire di cosa si tratta: un'autobiografia di Alizée.

«Niente, stiamo perdendo tempo. È evidente che non è...» Mio padre si zittisce di colpo.

Faccio per parlare, ma nel silenzio riecheggia il tonfo del portone che viene sbattuto con irruenza. Poi dei passi che si affrettano su per le scale.

Il cuore mi schizza in gola e d'istinto porto una mano alla tasca per impugnare il coltellino... peccato che il vestito non ne abbia una. Mio padre scavalca con un balzo il baule nel quale stava frugando, si precipita da me ed entrambi ci infiliamo sotto la scrivania.

«Ahia, mi hai dato una ginocchiata!» farfuglio, accorgendomi con disappunto della paura che trapela dalla mia voce.

Il rumore dei passi è arrivato sul pianerottolo. Trattengo il fiato mentre li sento spostarsi lentamente sul parquet della stanza e giurerei di aver colto anche un sibilo metallico simile a quello di un grilletto.

«So che ci sei, Storm. Ti ho visto girovagare per la villa».

Rimango pietrificata dallo stupore: che diavolo c'entra lui, adesso?

Sul volto di mio padre balena un lampo confuso, solo per un attimo. Mi guarda, mi ficca in mano qualcosa di duro, si posa l'indice sulle labbra a mo' di ammonimento ed esce allo scoperto.

«Quarterback! Tu sì che mi sei mancato!» esclama con allegria. «Ti stai divertendo? Complimenti per il bellissimo matrimonio. Movimentato al punto giusto, in perfetto stile Hallander».

«Dov'è? Dov'è il registratore?» chiede l'uomo nervoso.

«Che? Io sto lavorando. Non dirmi che la tua mogliettina non ti ha avvisato di avermi assunto per il catering!»

«Sono stanco dei tuoi giochetti, Storm! Dove cazzo è quel registratore? Rispondi!»

«La vera domanda è perché lo cerchi tu». Mio padre aggira la scrivania, sparendo dal mio campo visivo. «Cosa c'è in quel registratore che Chris Ivory vuole usare contro la tua famigliola pazzoide? Eh?»

Un formicolio improvviso mi si propaga fino alla spalla e soffoco a stento un gemito di dolore. Mi accorgo che sto stringendo il bizzarro oggetto che mi ha dato papà, una sorta di dischetto cilindrico con un pulsante al centro e un gancio nella parte superiore. Credo che sia un mini-taser, di quelli che si posizionano sul palmo per dare una scherzosa scossa a chi ti prende la mano, ma con la differenza che questo ha una carica regolabile che lo rende molto più potente.

«Non voglio farti del male, Storm. Non ho mai voluto farne a nessuno. Devi solo darmi quel maledetto registratore».

«Oh, risparmiati la tiritera. Non mi fiderei di te nemmeno se facessimo giurin giurello con i mignolini». Mio padre esplode in una risata acida, quasi tagliente. «Toglimi una curiosità: in una scala da uno a dieci, quanto bisogna essere viscidi per prendere le difese dello stupratore della propria moglie?»

Segue una lunga pausa carica di tensione, poi Ian comincia a balbettare: «N-non ho avuto scelta. Matt è mio fratello e io ho promesso che lo avrei protetto sempre e comunque. È quello che ho fatto».

«Anch'io avevo un fratello da proteggere» sbotta mio padre. «Non di sangue, certo, ma è meglio non scomodare la genetica o potresti ricordarti che anche Mike era un Hallander. Chissà perché, però, lui era escluso dal vostro giuramento malato, no?»

«Non volevo che Michael morisse. Jonathan mi aveva assicurato che non sarebbe rimasto per molto in prigione. Credevo che intendesse che l'avrebbe fatto uscire in anticipo, non avrei mai immaginato che avesse intenzione di... di ammazzarlo». Il tono di Ian suona sempre più disperato. «Maxwell, cercavo solo di proteggere mio fratello. Non volevo nulla di tutto questo».

«Ed Elaine, da brava giornalista, aveva scoperto la verità. Non è così?»

Appena viene pronunciato il nome di mia madre, mi irrigidisco e rizzo le orecchie per accertarmi di non perdere nemmeno una parola.

«Al vostro matrimonio» spiega Ian, puntandogli la pistola al petto. «Non so come, ma aveva scoperto che il test di paternità presentato al processo era fasullo. Aveva anche convinto Céline a confessarle che era stata pagata per mentire riguardo alla sua testimonianza».

«Certo, perché l'uomo che aveva visto fuggire dalla villa quella notte era Matt. Non Mike». Sporgendomi da sopra la scrivania, scorgo mio padre che avanza con cautela. «Ma non è soltanto questo che c'è nel registratore, giusto?»

Ian si scompiglia i capelli con un gesto esasperato. Sembra troppo tormentato dai suoi pensieri, dai suoi rimorsi, per rendersi conto che la distanza tra di loro si sta riducendo centimetro dopo centimetro. «Non credevo che stesse registrando. È venuta a parlarmi, dicendo che sapeva ogni cosa e che era il momento che Matt si assumesse le sue responsabilità. Ho provato a spiegarle che non potevo, che avrebbe distrutto la mia famiglia. Michael era morto ormai, non aveva senso che mio fratello si rovinasse la vita facendosi sbattere in prigione».

Un brivido gli scuote la mano e rinsalda la presa sull'arma. «Non volevo farle del male. Volevo solo fermarla, ma lei si è spaventata ed è... caduta. Sono andato nel panico, non sapevo che fare. Ho visto che tu stavi arrivando ed era ovvio che cosa avresti pensato». Deglutisce, tremando più forte. «Quindi sono scappato».

Muovendomi come un automa, mi alzo di scatto. Ho la sensazione di avere dei frammenti di vetro che mi scorrono nelle vene. «Hai ucciso mia madre?» chiedo in tono stranamente apatico.

Ian mi rivolge un'espressione inorridita. «È stato un incidente, Keeley. Tua madre era mia amica, non...»

«Ed era la donna che amavo» sibila mio padre, prima di scagliarsi su di lui.

Lo spinge contro la libreria, disarmandolo, e poi lo butta a terra con un gancio destro così brutale da spaccargli il naso. Gli si mette a cavalcioni sopra, lo immobilizza con le ginocchia e comincia a tempestarlo di pugni mentre Ian si agita per scrollarselo di dosso.

Io rimango a osservarli imbambolata, incapace di reagire. I miei pensieri sono tutti per lei, la mamma che non ho mai conosciuto. Morta soltanto perché voleva fare la cosa giusta. E l'uomo che ne è il responsabile è lo stesso che mi ha evitata per settimane al mio arrivo alla villa e che mi ha riempita di regali, forse credendo che bastassero a rimediare alla sua colpa.

Alizée lo sa?

No, certo che no. Non glielo avrebbe mai perdonato.

Una consapevolezza affiora nella mia mente: questo significa che mia madre aveva con sé il registratore, nei suoi ultimi istanti. È logico che fosse nascosto, ma dubito che avesse una borsa al suo matrimonio e l'abito da sposa di solito non possiede tasche.

Forse aveva portato il suo scrigno per aggiungerci qualcosa; dopotutto, il giorno delle proprie nozze merita di essere ricordato. Allora perché non l'ho trovato? A meno che...

«Papino?»

Mio padre e Ian si paralizzano all'istante, ancora uno sopra all'altro. Quest'ultimo gira la testa verso le scale e grida ansimante: «Toby, non ora. Vattene. Papà ti raggiunge dopo, okay?»

«Ma il tuo amico vuole parlarti!»

Sul pianerottolo compare una figura imponente, avvolta da un impeccabile completo scuro. Ha dei folti capelli biondi che gli ricadono sulla fronte, un sorrisetto sinistro che gli increspa le labbra e sta sorreggendo Toby con un braccio. Il bambino, già di suo piuttosto minuto, appare terribilmente esile nella presa di quell'ammasso di muscoli.

«Ancora vi picchiate voi due? Proprio vero che certe cose non cambiano mai!» ridacchia il nuovo arrivato.

La sua voce mi fa mancare il respiro. Per un secondo vengo catapultata nel passato, all'interno di una macchina fumante e risento l'eco dello sparo che mi trafigge le orecchie. L'attimo seguente sono stesa nella neve in un circo abbandonato, con la caviglia pulsante e il cuore martellante in gola, intenta a capire se potesse davvero essere la voce di Alaric.

Invece no. Era la sua, praticamente identica a quella del figlio.

«Oh, che bello! Inizia ad assomigliare a una rimpatriata» commenta mio padre con una smorfia.

«Papino, stai bene?» domanda Toby confuso, indicando il volto pesto e insanguinato di Ian. «Ti sei fatto la bua?»

Lui abbozza un sorriso forzato. «No, piccolino. È tutto okay. È solo un gioco, tranquillo».

«Oh sì». Jason Hunter si china e raccoglie la pistola scivolata ai suoi piedi, stringendo meglio il bambino –che si divincolava un po'– con l'altra mano. «Che ne dite di andare a giocare tutti insieme da un'altra parte?»

Mezz'ora dopo, siamo a bordo di una Audi nera dai vetri oscurati che sfreccia silenziosa sulla strada innevata. Ian è alla guida e sta seguendo le indicazioni dettate dal navigatore per una destinazione preimpostata. Mio padre, seduto accanto con le mani legate dietro la schiena, fischietta annoiato un motivetto.

Io e Jason siamo sui sedili posteriori, separati dallo spazio vuoto nel mezzo; Toby, infatti, è stato costretto a sistemarsi sulle gambe dell'uomo, che gli tiene la pistola vicina al faccino inondato dalle lacrime.

Tra di me continuo a maledire le manette che mi scavano la carne, anche se a preoccuparmi è soprattutto il mini-taser che sono riuscita a nascondere nel reggiseno e che a ogni dosso e a ogni buca rischia di sgusciare via.

Quando Toby tira su con il naso per l'ennesima volta, Jason bofonchia: «Puoi smettere di frignare? Se i grandi si comportano bene, non ti sfiorerò nemmeno. Andiamo, non dovresti essere un leone?»

«Sei cattivo» piagnucola il bambino, strofinandosi gli occhioni arrossati.

«Anche la tua famiglia lo è, eppure le vuoi bene, no?» Senza attendere una risposta, abbassa il finestrino, getta via i telefoni che ci ha sequestrato e lo risolleva.

Prendo un respiro profondo per incoraggiarmi. «Non ho ancora capito il tuo piano» obietto, voltandomi a fronteggiarlo. «Anche ammesso che nessuno ci abbia visti andarcene, prima o poi noteranno che il testimone è stato rapito».

«Non ne dubito, ragazzina. Ma non sapranno comunque dove cercare e io ho già pronto un alibi di ferro per qualsiasi evenienza». Jason fa spallucce. «Se sei abbastanza ricco, puoi plasmare la verità a tuo piacimento. Gli Hallander ne sono la prova».

Esito un istante. «Tu sei Chris Ivory?»

«No, sarebbe impossibile. Chris Ivory non esiste».

«Ovvio» interviene mio padre sarcastico. «Dimenticavo che negli ultimi sette anni sono scappato dalla fatina dei denti».

Jason scoppia a ridere. «Chris Ivory è una falsa identità, un simbolo più che una persona. Insomma, uno specchietto per le allodole come il Grande Fratello di George Orwell. Gli affari della Walker Agency sono gestiti da quei potenti che adorano fare quello che vogliono, fra cui dei passatempi non molto approvati dalla legge».

«E tu che c'entri?»

«Io mi assicuro che questi affari non abbiano intoppi di natura... legale, e garantisco ai vertici la massima discrezione. Con qualche danno collaterale, è inevitabile».

«In breve, sei un tirapiedi» mi lascio sfuggire.

Ero convinta che si sarebbe infuriato, invece Jason sghignazza divertito. «Nah! Considerami un libero professionista, o un uccellino».

Ian prende una curva sulla sinistra e accosta nei pressi di un viottolo che si insinua nel fitto di una boscaglia ammantata di bianco. Sotto un albero incappucciato di neve ci sono degli uomini dall'aria minacciosa, anch'essi armati, che ci stanno aspettando a braccia conserte. Uno dei due sta fumando.

«Scendete» ordina Jason.

Obbediamo subito, tranne mio padre che fatica ad aprire lo sportello. Lo faccio al suo posto e lo aiuto ad alzarsi. «Lo hai ancora?» mi bisbiglia.

Annuisco.

«Okay, ci hai in pugno. Puoi lasciare andare mio figlio adesso?» chiede Ian, fissando con apprensione Toby in braccio a Jason.

«Quanto sei monotematico! Ti pare che smollerei un moccioso qui, al freddo, da solo?»

«Per favore, ti prego. È solo un bambino».

«Un bambino molto fragile, a quanto mi risulta. Quindi non mettere alla prova la mia pazienza, Ian».

Ian ammutolisce e andiamo incontro ai tizi inquietanti. Uno è alto e dinoccolato con una barbetta sul mento, l'altro grosso come un armadio e senza un pelo in testa. «Abbiamo preparato tutto, capo» gracchia il secondo.

«Bene. Sarà uno spasso».

Entrambi si piazzano ai lati e, sotto il tiro delle pistole, ci incamminiamo lungo il sentiero rischiarato dai faretti piantati nel terreno.

Jason, che chiude il corteo, mi si avvicina. Mio padre si blocca e gli scocca un'occhiata diffidente, ignorando gli spintoni dello scagnozzo calvo. Gli faccio un cenno per tranquillizzarlo e solo allora prosegue, ma scommetto che ci sta spiando di sbieco per accertarsi che non mi faccia del male.

«Ti ho cercata parecchio, sai?» esordisce Jason. «Alla Walker Agency ti ritengono un potenziale pericolo per gli affari. In questo lavoro è fondamentale mantenere un profilo basso e se tu pianti un casino con questa faccenda della titolarità... bah, chissà quante rogne ne verrebbero fuori. I problemi non piacciono a chi vuole spassarsela, capisci?»

Serro i pugni nel tentativo di nascondere il tremore, che preferisco attribuire al gelo pungente piuttosto che alla paura. La presenza del mini-taser che intanto balla la lap dance tra i miei seni mi innervosisce. «E per uccidermi ti serve tutto questo teatrino?» bofonchio con ostentata noncuranza.

«Ho forse menzionato di ucciderti?»

Mi acciglio. «Beh, non sono interessata a diventare tua socia, perciò non rimangono molte altre alternative. E poi non penso che ti dispiacerebbe».

«Ci siamo appena conosciuti e hai già dei pregiudizi su di me. Non è molto carino».

Ma è serio?

«Basta, voglio camminare da solo!» protesta Toby, scalciando. L'effetto è quello di un topolino che si dibatte nelle grinfie di un enorme gatto.

Jason sogghigna e accetta di metterlo giù, ma l'uomo con la barbetta afferra subito il bambino per il polso. «Dove eravamo?» riprende, scrutandomi con le sue iridi scure. «Ah sì! Mi avevi accusato di essere uno spietato e folle assassino».

Un impeto di collera mi travolge. «Hai ucciso mia zia».

«La tua finta zia, intendi?» Jason sfodera un sorriso ironico. «Céline non era certo una santa, ragazzina. E, per quel che vale, sbarazzarsi di lei è stata una scelta necessaria. Era un conto in sospeso che avevamo da quando ho tentato di tagliarle la gola, da ragazzo... un gesto avventato, lo riconosco. Ma ero giovane e innamorato».

Impiego qualche secondo a capire.

Dopo la presunta caduta dalle scale di mia madre, so che Céline era stata assalita dai sensi di colpa e aveva cercato di raccontare la verità sullo stupro. Qualcuno però aveva attentato alla sua vita prima che potesse farlo, mio padre l'aveva salvata e da allora si era data alla macchia.

È stato Jason a procurarle quella cicatrice sul collo. Voleva zittirla per proteggere Ian, dato che la scoperta della colpevolezza di Matt avrebbe di sicuro portato a galla anche tutto quello che il suo fratello maggiore aveva fatto per coprirlo. Compreso lasciar morire una donna incinta.

«Che mi venga un colpo» esclama mio padre all'improvviso, stupefatto.

Siamo giunti al termine del vialetto, di fronte a un mastodontico cancello in ferro ornato di rampicanti oltre il quale si erge una splendida villa. È su due piani, realizzata con mattoni di cotto grezzi disposti a riquadri in modo da consentire all'erba di crescere naturalmente fra di essi. Al contrario di quella degli Hallander, si sviluppa in larghezza più che in altezza, ottenendo il risultato di farla apparire un conglomerato di blocchi incastrati l'uno con l'altro.

Ian scuote il capo. «Questa è casa mia. Ci sono cresciuto» mormora allibito. «Come... È stata demolita da quasi venticinque anni!»

«L'ho fatta ricostruire, tempo fa. Per te». Jason ordina a uno dei suoi compagni di aprire il cancello. «Doveva essere un regalo, ma poi hai deciso che i miei sentimenti erano di ostacolo alla nostra amicizia e ho rinunciato».

Una dozzina di guardie, munite di fucili, sono sparpagliate per il cortile invaso dalla neve. File parallele di siepi imbiancate tracciano una biforcazione attorno a uno spiazzo circolare e si ricongiungono all'imbocco del portico che sovrasta l'ingresso. Sulla sinistra c'è un laghetto ghiacciato situato alle pendici di una collina e, più avanti, è parcheggiato un ammaccato furgone grigio.

«L'incidente» sussurro. «Lo hai provocato tu».

«Non proprio. È stato Gregor» lo corregge Jason, accennando all'omone calvo. «Ma gliel'ho detto io».

Ian scatta in avanti e lo afferra per la giacca. «C'era mio figlio in quella macchina! Poteva morire!»

«A mia discolpa non lo sapevo, ma sono felice che stia bene. Edric è l'unico della tua famiglia per cui provo una certa simpatia... apprezzo troppo il karma». Guardandolo malinconico, Jason scosta una ciocca nera dal volto di Ian e lo respinge all'indietro senza tanti complimenti. «Ero stufo che quella strega di tua moglie indagasse su di me, la morte di Céline, la Walker Agency e tutto il resto. Far venire qui Vincent non era bastato a distrarla, quindi sono dovuto passare a qualcosa di più estremo. Era prevedibile che non sarebbe bastato un banale incidente per liberarsi di una cazzo di Blackwood».

«Non parlare così della mia mammina!» obietta Toby, nonostante la sua vocetta acuta sia venata dal terrore. «Tanto lei verrà a prendermi, oppure lo farà Liam, e si arrabbieranno tantissimo con te!»

L'uomo che lo tiene per il polso fa per schiaffeggiarlo, ma Jason lo ferma con un movimento secco. «Lucas, rinchiudi il marmocchio nel furgone. Con delicatezza, mi raccomando».

«No no, resto con papà! Papino, aiutami! Non voglio!»

Ian si inginocchia davanti al bambino in lacrime e lo abbraccia, dandogli un bacio sulla nuca. «Vai pure, piccolo. Non ti faranno nulla. Prometto che ci rivedremo prestissimo, d'accordo?»

«Anche Keeley?»

Faccio il miglior finto sorriso di cui sono capace. «Non preoccuparti, fratellino» gli ammicco.

Non molto convinto, Toby si lascia condurre verso il furgone. Ian lo segue con lo sguardo e assume un cipiglio confuso. «Quella cosa che hai detto su Edric. In che senso "apprezzi troppo il karma"?»

«Non sei a conoscenza della tresca tra i nostri figli?» replica Jason, esplodendo in una fragorosa risata. «Ammetto che non mi sorprende. Forza, bimbi, è il momento di andare a giocare».

«Fantastico» sospira mio padre. «Siamo nei casini perché un Hallander deficiente ha messo in friendzone uno psicopatico».

All'interno la villa è piena di computer e macchinari. Ovunque uomini e donne, perlopiù armati, si stanno indaffarando per smontare e ripulire tutto o trasportano fuori pesanti casse contenenti chissà cosa. Non ci vuole un genio per capire che sono dipendenti della Walker Agency e che questo deve essere stato finora il loro quartier generale a Sunset Hills.

Ne conto almeno una trentina. Se avevo pensato che avessimo una chance di tentare la fuga, non ne è rimasta più neanche l'ombra.

Siamo spacciati.

«Risolte le ultime questioni, ci defiliamo» commenta Jason, affiancandomi. «Se ci rifletti, avrei potuto sguinzagliarteli contro. Ma sarebbe stato difficile farlo senza attirare l'attenzione, con Alizée sempre in mezzo. Per non parlare di quel poliziotto e del tuo paparino. Inoltre, speravo che mi portassi al registratore».

Aggrotto la fronte. «Lo vuoi per vendicarti di Ian, o per accertarti che mia madre non avesse scovato delle prove anche su quello che faceva l'agenzia?»

«Un po' e un po'».

Scortati da Lucas e Gregor, percorriamo un largo corridoio arredato in perfetto stile medievale con armature e spade incrociate. In fondo è chiuso da un portone a doppia anta e, quando viene spalancato, entriamo in un salone di pietra quasi completamente spoglio. Sul pavimento sono disegnati tre piccoli cerchi con una vernice bianca, distanti un paio di metri l'uno dall'altro. Al centro della stanza ce n'è uno più grande, in rosso, che racchiude un robusto scranno di legno con le gambe inchiodate e delle corde ai braccioli.

All'improvviso un sapore acre mi pervade la bocca. «Klaus!»

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