75. RICORDARE: PUREZZA

Nell'istante in cui sono entrata in sala da ballo, l'ho riconosciuta dalle foto viste nell'album di famiglia: è la stessa in cui i miei genitori hanno danzato, circa vent'anni fa.

Lungo le pareti ci sono ancora gli angeli dorati che sorreggono i candelabri e dal soffitto pendono ancora i lampadari a gocce di cristallo. Non è cambiata neanche la fontana bianca posta al centro: rivoli d'acqua sgorgano dalle fauci di un mastodontico leone di pietra mentre una grossa aquila dalle ali divaricate gli sta appollaiata sulla schiena. Entrambi sembrano giudicare i presenti con il loro sguardo severo.

Quando ho chiesto a Kal come fosse possibile che non sono mai capitata qui gironzolando per la villa, mi ha spiegato che quella sala viene aperta dalla madre soltanto in occasione di eventi molto importanti. Probabilmente perché è l'unica abbastanza spaziosa da poter contenere fino a un numero esorbitante di persone; ad esempio i fatidici ottocento invitati del ricevimento, che si sono rivelati persino di più tra accompagnatori e imbucati.

«Okay, qualcuno deve dirlo». Eileen sbuffa, seduta a braccia conserte sulla sedia. «Questo matrimonio è una noia mortale».

«Già, per noi sfigati senza dame e cavalieri» sospira Kal tetro, spaparanzato accanto a me sul divanetto. Solleva la gamba a mezz'aria e rimane qualche secondo a fissarsi la punta della scarpa. «Questo smalto mi dona proprio, sì».

Alaric si getta in bocca un altro acino d'uva, preso dal grappolo nel cesto di frutta. Ce n'è uno su ogni tavolino, o in alternativa un posacenere. «Hai davvero lo smalto?»

«Certo».

«E che senso ha?»

«Una rivalsa contro la società o roba del genere. Non ho capito». Kal scrolla le spalle. «Chiedilo a Keel. È stata una sua idea. Keeley?»

Rispondo con un mugolio distratto, senza distogliere gli occhi da Klaus.

Si trova nell'ala opposta della sala e sta chiacchierando con una donna sulla sessantina, bionda e dall'aspetto gentile. Il mio cuore si arresta quando una ragazza gli si avvicina e li vedo scambiarsi alcune battute, ma riprende a battere appena si allontana con la stessa espressione abbattuta delle altre prima di lei.

È già la quarta o quinta che tenta di approcciarlo, forse per invitarlo a ballare, e nessuna ha ottenuto nemmeno una stretta di mano. E ogni volta mi sento morire dalla gelosia e risorgere dalla gioia; l'unica costante è la voglia di ucciderlo. O di baciarlo.

«Eccoti, finalmente!» esclama Alaric all'improvviso. «Iniziavo a pensare che Rose ti avesse rapito».

Edric ci raggiunge tenendo nella mano sana un cupcake al pistacchio. «In realtà mi ha scaricato per ballare con Simon già da un po'».

Eileen si acciglia. «Non mi piace. Lo sta facendo solo per ripicca».

«Non credo, non prenderebbe mai in giro la gente. Per questo è così arrabbiata con me».

Alaric mette il broncio e bofonchia piano: «Devi per forza fare i complimenti alla tua ex?»

«Non stavamo insieme. Se bastasse un bacio per farne la mia ex, tu dovresti averne tipo un esercito». Edric gli porge il dolcetto, mettendosi sul bracciolo della sua poltrona. «Per te».

Lui sorride, lo divide in due e gli consegna l'altra metà. «Assaggia, cucciolo. Scommetto che il pistacchio ti conquisterà».

«Ehi, avevamo un patto!»

«Vi odio» commento guardandoli. «Siete adorabili, ma vi odio».

Kal batte il pugno contro il mio. «Siamo in due, sorella».

«Posso offrirti da bere, bellissima signorina?» si intromette un cameriere dai folti capelli corvini.

Appena le sfiora la spalla, Eileen si gira in un baleno e gli rifila una violenta gomitata nelle parti basse. «Ma chi caaaa... Ops, scusa».

«Santo cielo» geme Jonas. Nonostante sia piegato in due dal dolore, per miracolo è riuscito a non far rovesciare i calici sul vassoio. «Ricordami di non farti mai più una sorpresa».

«Beh, non danneggiare la merce è anche nei suoi interessi» obietto, mentre Kal finisce sul pavimento rotolandosi dalle risate.

«O magari evita le entrate in scena da pervertito!» Eileen gli rivolge uno sguardo mortificato. «Tutto bene?»

Jonas annuisce, ma ha ancora una smorfia sofferente sul volto. «Per fortuna non ti ho dato la mia opinione su come stai con quel vestito, altrimenti mi avresti spedito direttamente in ospedale».

«Ti ho detto che mi dispiace! E poi che ci fai qui? Perché stai fingendo di far parte del catering?»

«Non sto fingendo. Tua madre mi ha mandato una mail qualche giorno fa per assumermi e ho accettato... avrà tutti i difetti del mondo, ma paga bene. Magari potrò smettere di fare due lavori per il resto dell'anno scolastico e avrò più tempo per studiare».

Eileen lo guarda scioccata. «Mia madre ti ha assunto?»

Kal scuote la testa. «L'incidente deve averla ridotta peggio di quanto ci aspettassimo».

«Oppure voleva ringraziarlo perché ha saputo della storia del drink drogato e che si è fatto pestare per te» suggerisco.

«Non mi sono fatto pestare» protesta Jonas indignato. Si volta verso Eileen, aggrottando la fronte. «Non capisco. È un problema se lavoro per tua madre?»

«No, certo che no». Il suo tono però non è affatto convincente. «Insomma, il personale è esclusivamente femminile e compreso in una fascia di età tra i venti e i venticinque anni. Ma non è un problema».

Alaric controlla il telefono, impreca sottovoce e lo ripone in tasca. «Vorrei rimanere per assistere a questa scenetta melensa, ma mio padre si è appena unito alla festa. A detta di mia madre, ho l'obbligo morale di andare a salutarlo». Lancia un'occhiata incerta a Edric. «Non è che avresti voglia di, ehm, accompagnarmi?»

Anche se ha cercato di apparire indifferente, dalla sua espressione tesa capisco che lo innervosisce l'idea di rivedere il padre da solo.

Anche Edric lo intuisce al volo. «Certo, figurati!» Ci salutano e si incamminano in direzione della porta.

«I membri del catering non possono ballare, vero?» chiede Eileen delusa.

«No, se non vogliono essere licenziati». Jonas le allunga il vassoio con i calici di champagne. «Ma posso darti da bere quanto vuoi».

Lei ne prende uno, sorridendo. «Wow, tu sì che sei un esperto nell'arte della seduzione».

«Dato che non voglio essere qui quando pomicerai con mia sorella, io vado a rimorchiare. O a provarci». Kal si alza, afferra uno dei bicchieri sul vassoio e lo vuota in un solo sorso. «Klaus ha seminato una scia di cuori infranti che sono pronto a guarire».

«Vai convinto, don Giovanni» gli urlo dietro.

Rimasti noi tre, Jonas posa il vassoio sul tavolino e si siede sulla poltroncina prima occupata da Alaric. «Davvero sei gelosa?»

«Un pochino». Eileen fa vorticare il liquido ambrato nel calice. «Finora ci siamo baciati solo una volta e tu eri ubriaco. Anzi, eri pure mezzo morto. Per esperienza so che i baci da ubriachi non contano nulla, figurati se la prima cosa che fai dopo è svenire».

Jonas scoppia a ridere. «Ma dai, a questo si rimedia facilmente». Si protende in avanti e le schiocca un bacio sulle labbra, poi le scosta un boccolo ramato dal viso. «Sono sobrio, tra parentesi».

«Scusate il disturbo, ragazzi» si intromette Stefan imbarazzato, prima che lei possa reagire in qualsiasi modo. «Keeley, non è che potremmo parlare? Sarà una cosa veloce».

Mi stiracchio sul divanetto. «Okay, ma mi servirà questo» e porto via con me l'ultimo calice di champagne.

Cominciamo a passeggiare lungo il bordo esterno della sala da ballo, tenendoci ben lontani dalla folla. La musica suonata dall'orchestra spazia da celebri brani del passato a canzoni più moderne rielaborate in chiave classica; in questo momento è il turno di una sorta di valzer lento.

«Mio padre ti ha mandato per proteggermi, vero?» chiedo rassegnata.

«No, tuo padre ha mandato Alan. Ma non aveva l'invito, quindi siamo venuti insieme». Stefan coglie la mia occhiata maliziosa e arrossisce. È peggio di uno scolaretto per queste cose. «Che c'è? Siamo amici, più o meno».

«Vi conoscevate già?»

«Sì, da bambini. Suo padre mi ha ospitato per un po', prima che tua nonna mi adottasse. Era l'agente di polizia che indagava sul crollo del supermercato in cui sono morti i miei genitori, poi il caso è stato archiviato e lui è morto in servizio. Alan è convinto che il mandante del suo omicidio fosse Jonathan». Il professore si stringe nelle spalle. «Comunque, sono qui per un'altra questione...»

«Lo so. E ti do anche la risposta: ti perdonerò quando, e se, lo farà Elizabeth».

Un lampo di delusione gli balena sulla faccia. «Lo capisco. Tu e lei vi state sentendo?»

Annuisco. «Oh sì. Papà ha anche creato un gruppo WhatsApp e ci tartassa di video sui pinguini».

«Perché pinguini?»

«Hai qualcosa contro i pinguini?»

«No no» ridacchia Stefan. Fa una breve pausa e riprende: «Se vent'anni fa mi avessero detto che Maxwell sarebbe diventato il genere di padre che manda video di pinguini alle figlie, non ci avrei mai creduto. Lo hai reso un uomo totalmente diverso».

«Non poteva essere così orribile, altrimenti mia madre non se ne sarebbe innamorata» ribatto, provando un moto di fastidio. «Tu, piuttosto, che ci hai visto in Vincent?»

Lo sento espirare profondamente. «Un ragazzo problematico con una famiglia disastrata che speravo di poter aiutare. Invece è stato lui che ha quasi distrutto me. Per questo ho avuto paura, quando mia sorella ha provato a fare lo stesso con Maxwell».

«Non osare paragonarlo a quel mostro!»

«Keeley, voglio solo farti capire. Non riuscivo a credere che l'amore potesse cambiare una persona, perché io non c'ero riuscito con Vincent. Poi Michael è morto, Elaine è morta e ho avuto il terrore di ciò che Maxwell avrebbe potuto diventare senza loro a guidarlo». Stefan si passa una mano nei capelli scuri. «Oggi mi rendo conto che era un ragionamento sbagliato in partenza. Vincent non è mai stato innamorato di me, forse non lo era nemmeno di sua moglie. Gli piaceva solo il potere che il nostro sentimento gli dava su di noi».

D'istinto i miei occhi vagano alla ricerca di Klaus. Lo individuo vicino al buffet, con Matt che gli dà un buffetto affettuoso per qualcosa che si sono appena detti. C'è anche Elise, accoccolata tra le braccia del marito mentre li osserva sorridente. La vista di quel terzetto ha un che di tragicomico.

«Non ci posso credere» esclama perplesso Stefan.

«Eh?»

Mi indica un punto poco distante, dove Jacqueline sta confabulando in un angolo con un ragazzino dall'aria corrucciata. Avrà al massimo sedici anni e, con i suoi riccioli dorati e gli occhi azzurri, è decisamente molto bello. Anche l'anziana deve averlo notato, a giudicare dal modo disgustoso in cui gli si struscia addosso.

«Impossibile. Non sta davvero...»

«... provando a sedurre un minorenne dell'età dei suoi nipoti? Sì». Consegno il calice al professore e bofonchio: «Quella vecchiaccia pervertita è da galera, maledizione».

Vedendomi arrivare, Jacqueline mi rivolge uno sguardo torvo. La ignoro, acciuffo il ragazzo per il polso e lo trascino sulla pista senza tanti complimenti.

«Ehi, che fai?» obietta quest'ultimo.

«Il tuo nome?»

«Axel».

«Beh, Axel, ti ho appena salvato dalle grinfie della nonnina, perciò ora puoi ringraziarmi con un ballo».

Il ragazzo si libera dalla mia presa. «Sei molto carina, ma non mi interessi. E neanche l'ultraottantenne, tranquilla».

«Neanche tu mi interessi!» Lo agguanto di nuovo e gli metto le braccia attorno alla mia vita. «Puoi essere più collaborativo?»

Un ghigno gli compare sul viso. «Chi vuoi far ingelosire?»

«Nessuno. Voglio solo... dargli una spintarella».

Axel ridacchia e mi stringe con più sicurezza, pur stando attento a non scendere troppo in basso. Lascio che sia lui a condurre, così da essere libera di guardarmi intorno per cercarlo. Al buffet sono rimasti solo Matt e la sua sposa intenti a scambiarsi stucchevoli effusioni da innamorati. Liam è davanti a una delle grandi finestre ad arco e sembra discutere di un argomento serio con la signora bionda che ho visto prima.

All'improvviso Axel mi fa fare una giravolta e rischio di inciampare, ma delle mani mi aiutano a recuperare l'equilibrio. Il mio corpo riconosce subito quel tocco delicato e quel profumo inconfondibile, ancora prima che Klaus mi attiri contro il suo petto tenendomi per un fianco.

«Mi concedi questo ballo?» mormora, sfiorandomi la guancia con la punta del naso.

Avverto il mio cuore che si gonfia come un palloncino. Sta martellando talmente forte che non mi sorprenderebbe se mi fracassasse qualche costola. «Dovresti accontentarti che ti consenta di rivolgermi la parola. Mi sono agghindata da principessina Disney e tu non ti sei nemmeno disturbato a dirmi quanto sono stupenda».

«Sei stupenda, ma mi sembrava inutile dirtelo». Klaus sfodera un sorriso dolce, facendomi volteggiare con maestria. È un ballerino provetto, facilitato da quell'innata eleganza felina che traspare da ogni suo movimento. «I miei occhi devono avertelo urlato per tutto il giorno».

Ora sì che vorrei mollargli un pugno. «Scordatelo, oggi ti è proibito fare il cascamorto! Non te lo meriti, anzi non ti meriteresti neppure questo ballo».

«Lo considererò il tuo regalo di Natale».

«A proposito». Gli mostro il polso attorno a cui porto il braccialetto che mi ha regalato. «Come sapevi quale fosse la costellazione segreta?»

«La notte in cui siamo andati nell'appartamento di Gladys». Mi accarezza la schiena lasciata scoperta dal vestito. «Quando parlavi al telefono con tuo padre, hai nominato il lupo bianco» conclude, percorrendo la colonna vertebrale con il pollice.

Incespico e devo aggrapparmi alle sue spalle per non scivolare. Concentrarsi sui passi ormai è un'impresa titanica. «Oh, te lo ricordi...»

Klaus mi fa fare una mezza piroetta, per poi abbracciarmi da dietro. Rabbrividisco nel sentire il suo respiro caldo bruciarmi sul collo. «Ricordo tutto» sibila, e mi gira per riportarci uno di fronte all'altro.

«Già, però questo non ti impedisce di andartene» replico con una punta di amarezza.

Si irrigidisce, ma le sue iridi rimangono conficcate nelle mie. «Stanotte non mi hai permesso di spiegarmi...»

«Te ne vai! Non servono spiegazioni!» sbotto irritata, staccandomi da lui. «Potevi essere più chiaro di così solo sbattendomi la valigia sulla testa».

«Se tu non fossi scappata via...»

«Sì, beh, scappare via è una cosa che abbiamo in comune! Ciao, goditi la serata con la tua Sonia!»

«Chi?»

Lo sorpasso con una spallata e mi affretto a uscire dalla sala. Klaus mi raggiunge di corsa a metà del corridoio, chiamandomi per nome. Accelero l'andatura, ma riesce comunque ad affiancarmi.

«Keeley, quella con Sophia era solo una copertura! Non ci ho neanche ballato! Ian voleva che per il matrimonio...»

«... noi giocassimo a fratello e sorella» completo. «Sì, lo so».

Gli invitati attorno a noi si voltano al nostro passaggio, alcuni ridono, altri ci additano e bisbigliano tra di loro. Entrambi li ignoriamo.

«Allora perché ce l'hai con me?»

Lo fulmino con un'espressione omicida, senza smettere di camminare a passo di marcia. «Non saprei. Forse –ma è solo un'ipotesi, eh– perché hai deciso di fuggire alle Hawaii, tra l'altro dopo avermi promesso che ci saresti sempre stato per me, pur di non prendere una maledetta decisione sui tuoi sen...»

Succede in un battito di ciglia.

Klaus mi spinge contro il muro con tale veemenza da mozzarmi il fiato, appoggiandomi una mano sulla nuca per evitare di farmi male, e mi zittisce con un bacio impetuoso, pieno di parole inespresse. Una scarica di emozioni mi annebbia la mente e, per un istante, il mondo intero per me si riduce al sapore delle sue labbra morbide sulle mie.

«Ti ho scelta, Keeley. Ti ho scelta nell'istante stesso in cui abbiamo lasciato il Saint Mary. Ci sei solo tu per me, devi credermi» sussurra, con il volto a pochi centimetri dal mio. «Non sto fuggendo».

«Io...»

Lo scatto di una macchina fotografica mi riporta alla realtà. Di colpo mi accorgo che tutti i presenti ci stanno osservando, tra cui anche giornalisti impegnati a immortalare la scena. Già immagino il titolo dell'articolo: "Notizia shock, l'ultima aggiunta della famiglia Hallander se la fa con uno dei figli dei genitori adottivi. Che scandalo!"

«Ehi, non siamo una cavolo di soap opera!» urlo indignata, facendo cenno a Klaus di seguirmi.

Proseguiamo lungo il corridoio, passando davanti alla chiesetta fino al vestibolo dominato da una grande vetrata da cui è visibile il tendone in giardino. Invece di uscire, però, mi faccio largo tra i presenti e prendo la stretta galleria laterale chiusa da una porta con eleganti motivi floreali. La apro, entro e la richiudo a chiave dietro di lui.

«Questo è l'atelier che ti ha regalato Ian?» mi domanda perplesso. «Mi piace».

«Sì, ma serve un invito speciale per accedere».

«Non sono mica un vampiro».

Dopo una strenua lotta con la parte razionale di me, cioè quella che vorrebbe capire cosa sta succedendo, scopro di non riuscire a resistere.

Gli afferro la cravatta per avvicinarlo e mi impossesso della sua bocca, all'inizio con foga poi più lentamente, godendomi la sensazione delle nostre lingue che si intrecciano e si punzecchiano come vecchie amiche che sono state separate per troppo tempo.

Klaus mi solleva per il bacino e mi posa sul bordo della scrivania. I suoi gesti sono impacciati, un po' esitanti ed è ovvio che non è sicuro di dove possa toccarmi o meno. Gli prendo le braccia e lo invito ad avvolgermele attorno al busto, piegando la testa di lato.

Mentre le sue carezze mi scatenano fremiti di piacere lungo la schiena, scende a baciarmi sul mento e sulla gola. Si blocca e mi lancia un'occhiata per chiedermi il permesso. Per tutta risposta, infilo le mani nei suoi soffici capelli biondi e lo spingo in basso fino alla scollatura, gemendo mentre mi lecca nel solco tra i seni.

A quel punto, lo libero della cravatta è gli slaccio in fretta la camicia, ma l'eccitazione la rende un'operazione piuttosto complessa. Alla fine opto per aprirgliela con un colpo secco, facendogli saltare i bottoni.

Lo sento tendersi un poco e mi costringo a rallentare.

«Qualcosa non va?» chiedo preoccupata.

«No, sto bene» dice prontamente.

«Sicuro? Perché possiamo smettere, se...»

Lui abbozza un sorriso. «Sicuro».

Procedo con calma per dargli il tempo di cambiare idea. Gli faccio scivolare sul pavimento prima la giacca, poi la camicia. Mi concedo un secondo per divorarlo con lo sguardo, cercando di non soffermarmi sui segni pallidi incisi sul suo petto.

Lo prendo per i fianchi e comincio a esplorare il suo fisico snello e affusolato, i polpastrelli che corrono con delicatezza dall'addome ben definito ai muscoli delle spalle. Poi proseguo sul dorso, dove la pelle liscia come seta è marchiata da rilievi lunghi e sottili.

«A-aspetta» balbetta Klaus, ritraendosi con un balzo. La sua voce è venata di panico. «Scusa. Mi dispiace. Scusami».

«No, ehi, tutto a posto!» Mi alzo dalla scrivania, sistemandomi il vestito. «Va bene se non sei pronto, non importa. Ho esagerato. E poi siamo a un matrimonio...»

«Non è questo. Lo voglio, Keeley. Davvero, con tutto me stesso. Ti voglio». Klaus si passa una mano sulla faccia con fare frustrato. «È che...» Vorrebbe aggiungere altro, ma non gli escono le parole.

Appena si gira, vedo le cicatrici sulla sua schiena lasciate dalle cinghiate e inizio a capire il problema. «C'entra con il motivo per cui te ne vai?»

Fa di sì con il capo.

«Vuoi parlarne?»

Rimane immobile per un attimo, poi annuisce di nuovo. «Vorrei, ma non...» riesce a sussurrare, giocherellando in maniera convulsa con l'anello attorno all'indice. «Mi vergogno».

«Non devi». Faccio alcuni timidi passi verso di lui, che però indietreggia. Ha un'espressione così smarrita da spezzarmi il cuore. «Qualsiasi cosa sia, puoi dirmela. Sono qui per te, quindi permettimi di aiutarti. Per favore».

Klaus si avvicina al vano della finestra e si posiziona di profilo, guardando fuori da dietro le tende. Rimango in silenzio ad aspettare, senza azzardare nemmeno un movimento per timore di mettergli fretta.

«A New Orleans» esordisce in tono flebile. «Prima che tuo padre arrivasse, Vincent mi aveva legato e mi stava... spogliando. Non ha potuto fare nulla, ma da allora sono tornati dei ricordi. Ricordi brutti, che pensavo di aver superato. Invece continuo a riviverli, nei miei incubi, sempre. Non so come mandarli via, ma devo. Devo perché non posso conviverci, non con quelli».

Lo stomaco mi si contorce nelle viscere come un serpente e deglutisco, ricacciando giù il groppo che mi saliva per la gola. Sapevo che prima o poi sarebbe arrivata questa conversazione e credevo che, conoscendo il suo passato, avrebbe fatto meno male ascoltarlo.

Adesso mi rendo conto di quanto mi sbagliassi.

«La prima volta che ha abusato di me avevo sette anni».

Una lama rovente mi affonda nel petto. Sette anni, mi riecheggia nella mente. E intanto mi compare l'immagine di un bimbo biondo, gracile e con lo sguardo spento, privato della sua innocenza.

Sette anni.

«Diceva che mia zia era morta per colpa mia. Soffriva di depressione, voleva scappare e portarmi via, ma non ce l'abbiamo fatta. Così quando Vincent era fuori, si è tagliata le vene con un frammento di vetro. Io c'ero, avrei potuto chiamare aiuto, invece l'ho avvolta con una coperta e sono rimasto lì, fermo, ad aspettare. Forse avevo paura, oppure avevo pensato che dopotutto sarebbe stata meglio, più felice. Non lo so, semplicemente non ho fatto nulla».

Klaus si sfiora il viso, grattandosi via il cerone con cui aveva nascosto la cicatrice. «Diceva che era il nostro segreto. Promise che non avrebbe raccontato a nessuno di come l'avevo uccisa, ma in cambio doveva rimanere tra noi quello che faceva per guarirmi. Mi ripeteva che gli altri non avrebbero capito, che solo lui poteva curare la cattiveria che c'era in me».

Mi mordo forte il labbro, tentando di respingere l'ondata di pianto che mi preme contro le palpebre. Invano.

«Iniziava sempre con una sigaretta. La accendeva, mi metteva seduto sulle sue ginocchia e, mentre fumava, mi toccava con l'altra mano. Partiva dai capelli, poi scendeva per tutto il corpo fino a che la infilava sotto i miei pantaloni». Klaus rabbrividisce, e capisco che sta rivivendo la stessa atroce sofferenza anche in questo momento, come se fosse ancora sulle gambe di quel mostro. «Quando si stancava di quello, mi spegneva la sigaretta sul petto. Mi sussurrava di non piangere, di fare il bravo, perché se fossi stato buono non avrebbe fatto tanto male. Ma non era vero, ogni volta era peggio all'altra e ogni volta un pezzo di me moriva. Si appropriava di ogni centimetro della mia pelle e io non potevo fare niente, tranne desiderare di strapparmela di dosso».

"Basta, basta, basta" vorrei supplicarlo, ma non lo faccio.

Deve sfogarsi, e io devo sentire. Deve lasciare andare il dolore, cosicché io possa accoglierne almeno una parte. Una parte infinitesimale, certo, ma forse lo renderà un po' più leggero. In due tutto pesa di meno, persino l'inferno.

«Ho una bruciatura per ogni volta che mi ha violato». Klaus si rannicchia a terra, continuando a guardare ostinatamente oltre il vetro. «Per questo le odio. Odio che qualcuno possa vederle, che tu possa vederle. Odio l'uomo che ha fatto la stessa cosa a mia madre. E non odio lei perché so cosa si prova a sentirsi impotenti, deboli, sporchi».

Finalmente qualcosa si sblocca dentro di me e trovo la forza di muovermi per precipitarmi da lui. Mi inginocchio al suo fianco e Klaus ruota subito la testa nella direzione opposta, pur di non incrociare il mio sguardo.

«Non è colpa tua, capito?» singhiozzo debolmente. «Eri un bambino. Nulla di quello che ti ha fatto è colpa tua. Guardami».

Gli prendo con dolcezza il mento e gli volto il viso verso di me. Scopro che non sta piangendo, probabilmente perché è un dolore troppo intenso persino per le lacrime. Un dolore che non potrò mai comprendere appieno.

Appena i nostri occhi si incontrano, nei suoi grigi balena un lampo quasi dispiaciuto. «Non volevo renderti triste, scusa».

«Ti prego» sibilo con voce roca, esile. «Posso abbracciarti?»

Klaus mi avvolge tra le sue braccia e mi stringe più forte di quanto abbia mai fatto prima, lasciando che mi accoccoli tra i singulti contro la sua spalla. Sento tutto il suo corpo tremare come una foglia, eppure per un assurdo paradosso è lui a consolare me.

«Le uniche persone che lo sanno sono Liam e Matt. Mio fratello aveva dodici anni quando gliene ho parlato... a volte credo di aver sbagliato a dargli un peso simile a quell'età, ma ne avevo bisogno. Oggi però faccio una scelta diversa. Non permetterò che sacrifichi la sua felicità per me, e nemmeno tu». Mi asciuga una guancia con il pollice, passando le dita nella mia chioma argentea. «La mia psicologa ritiene che allontanarmi possa aiutarmi a stare meglio. Non per tanto, giusto qualche mese. Ecco perché ho accettato la proposta di mio zio. Voglio disperatamente amarti, Keeley, ma voglio che a farlo sia la parte migliore di me, quella che ha chiuso i conti con il passato e riesce a sognare un futuro insieme».

Affondo il viso nell'incavo del suo collo e inspiro a fondo, attirandolo ancora più vicino. «O sennò andiamo a Londra, così stavolta mi fai tu da guida turistica».

Lui scoppia a ridere. Quel suono, che gli vibra nel torace, appare alle mie orecchie come una meravigliosa melodia. «In realtà, ci sarebbe un'altra cosa che mi piacerebbe fare».

Mi raddrizzo, appoggiando un palmo sulle sue costole. «Cioè?»

«Questo». Klaus si protende in avanti e strofina le labbra sulle mie con infinita tenerezza. «Se ancora ti va».

«Sul serio? Ora? Sicuro che è quello che vuoi?» obietto in tono apprensivo.

«Quando vengo toccato, io sento ancora le sue mani. Voglio sentire le tue». Mi deposita un bacio leggero sulla fronte. «Mi fido di te, Keeley. In maniera assoluta».

Gli accarezzo i capelli arruffati, sorridendo. Mi districo dall'abbraccio, intreccio le dita alle sue e lo guido fino alla chaise longue. Klaus si toglie le scarpe e si stende per primo. Lancio i sandali in disparte con un calcio e, seguita dal suo sguardo vigile, mi sfilo il vestito con studiata lentezza. Quando rimango solo in intimo, i suoi respiri cominciano a farsi più pesanti.

Mi metto a cavalcioni sulla sua pancia, con le ginocchia puntellate attorno ai fianchi. Gli sollevo entrambe le mani sul cuscino e gliele blocco ai lati della testa, badando a non esercitare troppa pressione per non dargli la sensazione di essere intrappolato. Ma a Klaus non sembra dare fastidio; mi fissa con un'espressione di totale fiducia, il suo corpo rilassato sotto di me. Si irrigidisce appena nel momento in cui comincio ad armeggiare con la cintura, ma lo aiuto a distrarsi tracciando una scia di baci sul suo petto.

Deposito un bacio per ogni cicatrice. Per ogni ricordo. Per provare a cancellare con l'amore la violenza racchiusa in ciascuna di esse.

Poi mi chino su di lui e unisco le nostre bocche. «Ti amo» gli mormoro, perdendomi nei suoi occhi.

Sorride. «Ti amo anch'io, piccola ficcanaso».

P.O.V. ALIZÉE

(Diciotto anni prima)

«Alizée, apri!» grida, tempestando di pugni il portone d'ingresso. «Sai benissimo che non me ne andrò finché non mi apri!»

Nel soggiorno, Carol scosta la tenda e sbircia fuori dalla finestra. Poi mi lancia un'occhiata quasi impietosita. «Bisogna riconoscergli che è testardo».

«Io lo sono di più» borbotto, seduta sul divano davanti al camino acceso.

Quando smette di bussare, penso che se ne sia andato e tiro un sospiro di sollievo. Anche se, nel profondo, non riesco a esserne davvero felice; forse una parte di me aveva sperato di rivederlo, dopo un anno ininterrotto di silenzio e distanza tra di noi.

«D'accordo, come vuoi! Chissà che scenetta divertente quando Ian tornerà e mi troverà sulla soglia ad aspettarti, eh?»

«Per l'amor del cielo!» Mi volto di scatto verso Carol. «Apri a quel disperato, o giuro che vado io ad ammazzarlo!»

Con un sorriso, lei si precipita a obbedire. Un attimo dopo un ragazzo irrompe dentro di corsa, sfregandosi le mani per il freddo. Non mi sorprende, dato che è vestito solo con una camicia bianca che gli risalta i capelli biondi come miele e un paio di pantaloni scuri.

Per l'ennesima volta rimango colpita dalla straordinaria somiglianza con Henry Hallander, il suo padre biologico. Gli occhi grigi, i lineamenti delicati e sfuggenti, hanno persino lo stesso fisico sottile e slanciato, ma con l'unica differenza che non mi sono mai soffermata ad ammirare la bellezza di mio suocero. Con Mike, invece...

«Devo parlarti, Ali».

«Ma davvero?» replico con uno sguardo truce. «E io che credevo che cercassi di sfondarmi la porta da un'ora solo per noia».

«Ah ah, simpatica». Michael incrocia le braccia sul petto e la mia attenzione viene catturata dai suoi muscoli tesi e dalle spalle larghe. Maledizione, lo detesto! «Sono serio. Dobbiamo parlare, da soli».

«Siamo soli».

«Per favore! In questa casa anche le tue porcellane sono pettegole».

Balzo in piedi, stizzita. «Sono una donna sposata, mio marito è uscito e tu ti presenti nel cuore della notte. Quindi no, non resteremo da soli. Punto».

«Va bene, scusa». Un sorrisetto furbesco gli increspa le labbra. «Ti ricordi del "finale" coi fiocchi del tuo addio al nubilato?»

Mi congelo sul posto. «Zitto e buono. Torno subito».

«Sei prevedibile, Ali» ridacchia.

Gli scocco un'occhiataccia mentre gli passo accanto per raggiungere Carol nell'atrio. «Potresti mandare via dalla villa il resto del personale?» le chiedo in tono gentile. «Gradirei se evitassi di condividere i particolari sul mio... ospite maleducato. Non voglio strane voci in giro».

«Certamente».

Ritorno in salotto. Michael sta guardando le foto di famiglia sul davanzale del camino, con le ombre create dal fuoco che gli danzano sul volto accigliato. Ha il colletto aperto, le guance arrossate e la mascella contratta, eppure tutto ciò rende il suo fascino ancora più magnetico.

«Tuo figlio sembra adorabile» commenta, indicando una delle cornici. «William, giusto?»

Un brivido mi cola lungo la schiena. «Già, grazie. Perché sei qui allora?»

«Quanto ha? Tre mesi, mi pare». Michael si gira a fissarmi. «Perciò lo hai concepito attorno al periodo del tuo matrimonio, no?»

«Wow, hai scoperto che vado a letto con mio marito. È scioccante» ribatto sarcastica.

«Scioccante è quanto poco gli somiglia, a tuo marito».

Mi irrigidisco. «Non so cosa vuoi insinuare, ma...»

«Lo sai, invece!» La sua espressione si indurisce. «È mio figlio, non suo. Ammettilo».

«No, ti sbagli». Scuoto il capo con insistenza. «Somiglia a suo nonno, non a te. Non è nulla di così assurdo».

«Ti conosco meglio di chiunque altro, Ali. Non puoi mentirmi».

«Vattene» ordino, scostandomi di lato. «Vattene e stai lontano da mio figlio».

«NOSTRO». Michael si piazza di fronte a me. Il suo viso adesso è a pochi centimetri dal mio, abbastanza vicino da sentirmi addosso il calore del suo respiro e il profumo della sua pelle. «È nostro figlio, di entrambi. E non avevi nessun diritto di nascondermelo».

«Dirtelo non avrebbe cambiato nulla. Ian è suo padre ormai, quello che lo crescerà...»

«Meritavo di saperlo, Alizée» urla furioso, puntandomi contro l'indice. «MERITAVO-DI-SAPERLO».

«MI DISPIACE». Con il cuore che mi martella nel petto, inspiro profondamente per costringermi a calmarmi. «Sto solo facendo quello che è meglio per William. Se mio padre lo venisse a sapere...»

«Sarebbe comunque suo nipote. Non gli potrebbe fare del male».

Faccio una risata acida, prendendo a camminare avanti e indietro per la stanza. «Non scommettere mai su cosa Jonathan Blackwood farebbe o meno per difendere la sua immagine. Troverà il modo per vincere e vendicarsi allo stesso tempo, te l'assicuro».

«Quindi dovrei solo mettermi in un angolino e fregarmene, perfetto» ringhia gelido, serrando i pugni. «E Ian? Hai intenzione di dirgli che sta crescendo il figlio di un altro?»

«Non posso!» Mi fermo, portando con foga un ricco ramato dietro l'orecchio. «Nella migliore delle ipotesi, rimarrebbe sposato con me soltanto per non provocare mio padre, ma non vorrebbe bene a William sapendo che non è suo».

Tra di noi cala il silenzio e all'improvviso il pianto di un bambino esplode dal piano di sopra, strappandomi un sussulto. Michael mi osserva solo per un istante, ammutolito, poi sfreccia spedito su per le scale.

«Mike!» lo chiamo seguendolo.

Mi ignora e prosegue in direzione di quel rumore fino alla porta in fondo al corridoio. La apre con veemenza e, appena il suo sguardo si posa sul neonato che strilla nella culla, si immobilizza. In un baleno tutta la sua rabbia si dissipa, sostituita dallo stesso genuino stupore che ho provato io quando ho visto per la prima volta il frutto del nostro amore.

Una fitta di senso di colpa mi attanaglia. Ha ragione, non avrei mai dovuto negargli una cosa del genere.

Lo supero, entro nella nursery e prendo in braccio il mio bambino, cullandolo un po' per tranquillizzarlo. «Mike, ti presento William» dico, rivolgendogli un sorriso. «William, ti presento... papà».

Esitante, Michael avanza di qualche passo. Non sbatte neanche le palpebre e ha la bocca spalancata dalla meraviglia. «P-posso?»

Annuisco e glielo consegno. William emette un versetto gioioso e allunga le manine per toccargli la faccia. Lui gli porge il mignolo, per poi scoppiare in una risata tenera quando glielo afferra tra le minuscole dita e comincia a mordicchiarlo senza denti. Di riflesso, il mio sorriso si allarga ancora di più.

«Ciao, piccolino. Ciao» sussurra Michael, sfiorandogli una guancia paffuta. Mi lancia un'occhiata piena di gratitudine, quasi per ringraziarmi di aver dato alla luce quel nostro miracolo. «Gli hai dato il nome di un principe».

«Un principe inglese» preciso. «Così avrà qualcosa di tuo».

Gli solletica il pancino attraverso la tutina azzurra e William ride divertito, agitando le gambette. «Non gli parlerai mai di me?» sibila a fil di voce.

«Forse, un giorno. Da grande». Gli occhi cominciano a pizzicarmi, ma mi sforzo di mantenere un tono saldo. «Per ora voglio solo che abbia una vita felice e serena, con dei genitori che lo amano e una casa in cui sentirsi al sicuro. Voglio dargli tutto ciò che non ho avuto io».

Michael strofina il nasino di William con il proprio. «Ho la sensazione che diventerai un fantastico ometto».

«È dolcissimo. E molto buono». Faccio una breve pausa e aggiungo: «Senza dubbio il carattere lo ha preso da te».

«Mmh, non saprei. Ha gli occhietti di un diavoletto testardo che vorrà sempre aver ragione, come la sua mamma».

«Oh, grazie» sbuffo ironica.

Mi restituisce William, gli dà un bacio sulla testolina coperta da una peluria castana e mi accarezza il viso con delicatezza, facendomi fremere. Non mi ero resa conto di quanto mi fosse mancato il suo tocco, ma il mio corpo se lo ricorda benissimo e ogni singola cellula mi sta gridando che nessuno potrà mai uguagliarlo.

«Mike, no. Per favore» mormoro, incapace di sottrarmi a lui. «Non voglio tradirlo. Non sono così».

Michael accosta le sue labbra alle mie e leggo il desiderio bruciare nelle sue iridi, ma alla fine si ritrae con un sospiro. «Non hai idea di quanto vorrei odiare Ian per avere tutto ciò che amo» e adocchia nostro figlio. «Ma mi importa soltanto che se ne prenda cura».

Vengo scossa da un singhiozzo e William mi fissa con i suoi occhioni glauchi spalancati, come se avesse percepito la mia tristezza. Michael si sposta dietro di me, mi fa passare una catenina attorno al collo e, intanto che la aggancia, si china per sussurrarmi all'orecchio: «Sarò ovunque sarai tu, ti amerò ovunque saremo».

L'aquila d'argento mi ricade fredda sul petto. Mi costringo a non guardare indietro mentre la sua presenza si allontana; indugia sull'uscio, esce dalla cameretta e poco dopo sento il portone richiudersi.

Solo allora crollo in ginocchio e mi lascio sopraffare dalle lacrime, stringendo il mio più grande tesoro tra le braccia. «Ti amo anch'io» sussurro a William, a Michael, alla famiglia che non siamo mai stati.

E poi il campanello inizia a suonare.

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