73. RICORDARE: AMICI
La notte prima della vigilia di Natale, sono sdraiata nel letto a fissare le ombre sul soffitto. Con le mani incrociate sul petto, sto pregando qualsiasi divinità in ascolto di salvarmi dal supplizio che mi aspetta all'indomani: quel maledettissimo matrimonio.
Mi sono categoricamente rifiutata di pensarci in queste settimane, soprattutto dopo che l'inizio delle vacanze invernali mi ha lasciato un sacco di tempo libero per divertirmi. E, considerati tutti gli svaghi che offre la villa, anche senza uscire non è stato difficile distrarmi.
Ora però mi incombe davanti come uno spettro. Mi sembra quasi di vedere nel buio le sagome di ventiquattro lunghe ore che dovrò trascorrere tra abiti eleganti, falsi sorrisi e gente noiosa con la puzza sotto il naso.
No, non sto esagerando. Non è una metafora. Questa tortura durerà davvero un giorno intero. Il programma ufficiale delle nozze inizia alle otto di mattina –sveglia alle sei per noi, ovvio– e termina a tarda sera, quando verranno scoppiati i fuochi d'artificio.
Zeus, se ti avanza un fulmine, folgorami all'istante.
Mi tiro a sedere sul bordo del letto e lancio un'occhiata al vestito attaccato all'armadio, pronto per essere indossato. Lo stomaco mi si contrae. La stilista degli Hallander sostiene di averlo fatto apposta per me, ma deve aver preso male le misure perché è la cosa più scomoda che io abbia mai provato. Troppo stretto, troppo scollato, troppo sbrilluccicante... Lo odio.
Controllo che la gatta infernale non sia sul tappeto, infilo le scarpe e il giubbotto ed esco in terrazzo. L'aria gelida dell'inverno mi fa rabbrividire, ma il paesaggio è mozzafiato. Tutto è ricoperto da un manto di neve che risplende argenteo al chiarore della luna, nugoli di stringhe luminose simili a meteore pendono dalla quercia incappucciata di bianco e fili di lampade in ferro percorrono la recinzione della villa. Lo sfarfallio delle luci degli addobbi anima il giardino intero come migliaia di lucciole blu, verdi e rosse, ricordandomi perché amo questo periodo dell'anno.
Non esistono tenebre a Natale.
«Non riesci a dormire, piccola ficcanaso?»
Ed eccolo, proprio dove ero certa di trovarlo.
Nonostante la pietra sia ghiacciata, se ne sta disteso sulla balaustra accanto con la solita disinvoltura, le gambe allungate davanti a sé e la testa appoggiata al pilastro. Tanto per cambiare, indossa soltanto il nero: la felpa, la giacchetta sopra, persino i pantaloni. I suoi capelli, però, sono di un bellissimo biondo dorato che muoio dalla voglia di accarezzare.
«Non proprio. Sono perseguitata da incubi con tacchi a spillo e orli di pizzo» borbotto, stringendomi nel cappotto. Fa freddissimo e il cielo continua a piangere fiocchi candidi che danzano leggiadri nella notte. «E tu, che scusa hai?»
Klaus ridacchia, senza rispondere alla mia domanda; rimane semplicemente a fissarmi con un sorriso rilassato sul viso. Capisco che non ha nessuna intenzione di dirmi cosa turba il suo sonno, ma non ne ho bisogno. Dopo tutto quello che ha passato, sarebbe più strano se sognasse unicorni e arcobaleni.
«Quante persone credi che ci saranno?» chiedo nervosa.
«Alla cerimonia non tanti, solo gli amici intimi. Al ballo nel pomeriggio toccheremo gli ottocento invitati».
Per poco non mi sento male. Faccio una smorfia sgomenta, poi mi sporgo dal terrazzo e comincio a rimuginare. «Mmh, se mi butto prendendo bene la mira, i cespugli potrebbero nascondere il mio cadavere martoriato. Nessuno lo noterebbe...»
«Non saprei. Ric potrebbe sentire la mancanza della sua dama» commenta Klaus con una strana inflessione nella voce.
«Sul serio?» Inarco un sopracciglio. «Che c'è, sei geloso perché ho un cavaliere mentre tu verrai solo soletto?»
«Veramente ho un'accompagnatrice».
«Bugiardo!»
Lui scrolla le spalle. «Okay, non credermi».
«Infatti non ti credo». Nella mia mente cerco di passare in rassegna qualsiasi essere femminile con cui ha avuto anche un minimo contatto. Elizabeth la escludo a priori, essendo ancora sotto protezione alla clinica. «Sai che tua sorella non vale, vero?»
«Prima stavo riflettendo sul registratore» dice all'improvviso con fare assorto, ignorandomi. «Lo abbiamo cercato ovunque, anche Stefan...»
Alzo una mano per interromperlo. «Non possiamo chiamarlo Peter e basta? Mi manda in confusione questa cosa della doppia personalità».
«Che ti importa? Tu usi solo nomignoli».
«Touché. Vai pure avanti».
Klaus scuote la testa, divertito. «Comunque, l'unico posto rimasto da controllare è la torre est».
«Dal tuo tono sembra l'equivalente di dover andare fino al Monte Fato per buttare l'anello» obietto corrucciata.
«Certo, perché è off limits. Io e i miei fratelli non siamo mai riusciti a entrarci». Si accorge che sto per interromperlo, quindi mi precede: «E no, non posso scassinarla. È una serratura elettronica. L'unico modo per aprirla è inserire la password, ma ci sono solo tre tentativi. Al quarto scatta l'allarme e si blocca».
Sfodero un ghigno. «Abbiamo ancora tre tentativi».
«Oh, magnifico». Klaus piega il capo di lato, fissandomi ironico. «Perciò il tuo grande piano è sparare a caso e sperare di azzeccarci?»
«Mio padre ha detto che dovevamo trovare il registratore entro il matrimonio. Non so il perché di questo termine, ma mi pare che stia scadendo. Ergo, non abbiamo niente da perdere» insisto con fermezza.
«Mi tormenterai finché non accetto, giusto?»
«È una domanda retorica, giusto?»
Lui sospira e butta i piedi a terra. «Andiamo, rompiscatole» borbotta rassegnato.
Rientro di corsa, mi strappo via il giubbotto, ficco il coltellino nella tasca del pigiama e sgattaiolo fuori dalla camera. Klaus scivola alle mie spalle con un movimento così furtivo da provocarmi un sussulto. Mi fa un cenno e prende a farmi strada, i suoi passi appena un fruscio sul marmo.
All'incrocio del corridoio ci sono un paio di guardie, ma noi andiamo nella direzione opposta e ci infiliamo in un lungo passaggio collegato in fondo a un ampio salone dalle pareti tappezzate di opere d'arte e arazzi pregiati. Scendiamo in fretta le scale che ci conducono vicino alla stanza del biliardino da cui siamo scappati una volta per andare alla festa di Halloween.
Klaus mi guida lungo un corridoio, superiamo l'accesso alle cantine –anch'esso chiuso a chiave– e arriviamo davanti a un grosso portone con un tastierino a numeri digitali incassato nel legno. Anche se non c'è nessuno nei dintorni, sento in lontananza gli uomini della sicurezza che perlustrano la casa e capisco che non abbiamo tanto tempo.
In realtà, non so il motivo per cui li stiamo evitando. Se ci beccano, non finiremo nei guai solo per una passeggiatina notturna, ma non mi piace l'idea che facciano rapporto a Ian. Sarebbe difficile da spiegare cosa stiamo combinando.
«Sono quattro cifre» mormora Klaus, attivando il monitor con un dito. «Io e Kal da piccoli avevamo provato con i numeri del suo compleanno, quello di Edric e l'anniversario del suo matrimonio».
«Un po' scontati. Avreste fatto prima a mettere direttamente da uno a quattro, a quel punto».
Nonostante il buio, scorgo la sua espressione esasperata. «Scusami tanto se il me di dodici anni è stato poco originale, tesoro. Tu che proponi?»
«Magari c'entra con Michael» suggerisco. «So che era nato l'otto dicembre».
«Mmh». Klaus digita la data, ma compare una spia rossa che si spegne l'istante dopo. «No, niente. Forse quella di Liam? È l'unico figlio che ha avuto dall'uomo che amava».
«Prova».
Stavolta, la lucina rossa lampeggia per qualche secondo.
«Okay, okay. Forse stiamo sbagliando ragionamento» rifletto.
«Ma dai?»
«Crudelia non sarebbe mai così banale, soprattutto se deve nascondere qualcosa». Mi gratto il mento, poi mi raddrizzo di scatto. «Metti il ventitré luglio».
Klaus si lascia sfuggire una risatina. «Vuoi sprecare l'ultimo tentativo con il mio compleanno?»
Lo scanso e inserisco la sequenza "2307" con tale convinzione che rimango paralizzata dallo stupore quando un fascio di luce cremisi trafigge di nuovo l'oscurità, accompagnato da un sommesso bip.
«Visto? Avremmo dovuto rimanere sulle cose belle della sua vita» commenta Klaus sarcastico, eppure avverto una sfumatura di delusione. «Andiamo, adesso. Meglio non fare casini con il sistema di sicurezza proprio oggi».
Sono ancora così perplessa dall'esito inconcludente della nostra avventura che lo seguo senza protestare. Per miracolo nessuno ci scopre e riusciamo a tornare di soppiatto nel corridoio del terzo piano come se nulla sia successo.
«Non solo è stato inutile, ma la scarica di adrenalina non ci farà nemmeno chiudere occhio. Fantastico» sbuffo contrariata. «Beh, buona non-buonanotte a te, biondino».
«Aspetta». Klaus mi afferra il polso per bloccarmi. «Ho un'idea che potrebbe migliorarti l'umore». E indica la sua camera con il capo.
«Anch'io, ma mi sa che non è la stessa tua...»
Come sempre, all'interno della stanza regna un ordine assoluto.
I libri disposti alla perfezione sugli scaffali, il pianoforte così lucido da potercisi specchiare e ogni oggetto ben allineato sulla scrivania. Solo le lenzuola del letto hanno alcune pieghe, ma è evidente che gli abbia dato una rapida sistemata dopo aver accettato che non sarebbe riuscito a dormire. Mi chiedo quanto bisogna essere ossessionati per fare una cosa del genere, nel cuore della notte.
«Tu hai la sindrome di Cenerentola, lo sai?» commento, guardando la collezione di dischi sui ripiani. Sono divisi per genere –soprattutto musica classica–, per compositore dalla A alla Z e per anno di pubblicazione.
«Chiudi gli occhi».
Aggrotto la fronte. «Perché?»
Klaus abbozza un sorrisetto. «Fidati di me».
Scrollo le spalle e mi abbandono sul bordo del letto. Non resistendo alla curiosità, sbircio tra le palpebre mentre Klaus apre un cassetto della scrivania e ne estrae qualcosa. Non faccio in tempo a capire cosa sia che si è già voltato e mi affretto a richiudere gli occhi, facendo finta di star fischiettando per la noia.
Lo percepisco spostarsi e poi il materasso accanto a me si piega. La sua presenza mi investe come un'ondata ancora prima che la sua voce morbida mi bisbigli all'orecchio: «Ti ho vista, imbrogliona».
Provo a ribattere, ma esce solo un verso simile a quello di una gallina strozzata. Non mi ero resa conto di quanto mi mancasse averlo così vicino; è assurdo che mi faccia questo effetto considerato che i nostri corpi si stanno a malapena sfiorando.
«Puoi aprirli».
Obbedisco e il cuore mi schizza subito in gola nel ritrovarmi un pacchettino quadrato sulle gambe. È avvolto da una carta regalo blu stellata con un nastro dorato e un cartellino che recita: "Buon Natale, ficcanaso. Dal tuo personale Santa Klaus con un'infinita pazienza".
«Te l'ho preso a New Orleans. Beh, per l'esattezza, l'ho ordinato perché non avevo un centesimo con me» spiega Klaus in tono imbarazzato, giocherellando con l'anello. «Non sapevo se dartelo o meno, ma ho pensato che non ci fosse nulla di male a farti un regalo... da amico. No?»
Quella parola, "amico", è più dolorosa di un chiodo conficcato nel cervello, ma mi sforzo di ricordarmi che è stata la scelta giusta. Elizabeth è meglio per lui di quanto lo sarei mai stata io. Va bene così, anche se fa male.
Annuisco, sciolgo il fiocco e lo scarto con cura. Ne sbuca fuori un cofanetto bianco con il simbolo di una marca che non riconosco al centro. Lo apro e resto a bocca aperta: contiene un bracciale a spirale in oro e diamante il cui corpo serpentiforme racchiude la testa di un lupo d'argento. Due grosse pietre d'ambra gli scintillano sul muso feroce.
«Wow» esalo esterrefatta.
«So che non è il tuo genere di cose». Klaus si sporge in avanti, torcendosi le dita con fare nervoso. «Spero possa comunque piacerti, altrimenti non importa. Non preoccuparti. Non sono mai stato granché con i regali. È che l'ho visto e mi ha ricordato i tuoi...» Si zittisce di colpo. «Allora, ti piace?»
«Sì, certo, è magnifico. Davvero». Lo sollevo dal cuscinetto di velluto e lo ammiro; è sottile, ma sembra molto resistente. Lo ripongo nella scatola. «Cavolo, ti sarà costato una fortuna, biondino».
«Qualche vantaggio nell'essere degli Hallander c'è».
Ruoto la testa e i miei occhi si incatenano ai suoi. Sono di un grigio caldo, screziato di blu attorno alle pupille, i più stupendi che io abbia mai incrociato. «Non revochi il nostro status di amici se ti confesso di non averti comprato niente, vero?»
«Eh no». Klaus mi strappa il cofanetto di mano. Anche se si sforza di apparire serio, è ovvio che sta sorridendo. «Questo è imperdonabile».
«EHI!»
«Spiacente, non te lo meriti».
Lo guardo minacciosa. «Attento, biondino. Io conosco tutte le tue debolezze».
«Sono terrorizzato».
Prova a rialzarsi, ma gli salto addosso e comincio a fargli il solletico nei punti in cui è più sensibile, sui fianchi e sotto le ascelle. Klaus molla la scatola e prende a contorcersi sul letto, cercando invano di allontanarmi. «No no, dai. Basta, Keeley. Non vale. Non puoi fare sempre così» farfuglia in preda alle risate.
Gli immobilizzo entrambe le braccia con le ginocchia, sedendomi a cavalcioni sul suo addome. «Ti arrendi?»
«Sì sì, è tuo. Hai vinto, hai vinto».
Smetto e Klaus si rilassa subito, rovesciando la testa all'indietro per riprendere fiato. Non sembra per niente turbato dal fatto che io sia sopra di lui o che gli stia ancora impedendo di muoversi, e un senso di soddisfazione mi pervade fin nelle ossa al pensiero che ormai è totalmente a suo agio con me.
«Che c'è?» domanda Klaus. La cicatrice bianca sul suo volto spicca nei chiaroscuri della lampada.
Il mio sguardo scende sulle sue labbra e tutto ciò che vorrei è assaporarle ancora una volta. Hanno una forma perfetta, di quelle che potrei disegnare un milione di volte senza mai smettere di desiderare di baciarle.
«Grazie per il regalo» sibilo, scostandogli il ciuffo dalla fronte. Il suo respiro accelera bruscamente, ma non muove un muscolo. «Io...»
Poi lo dice, in un soffio, come se si stesse liberando di un peso enorme. «Finita questa storia, andrò a vivere alle Hawaii con mio zio per un po'».
Ed ecco a voi il suono di un'autentica e immane fregatura.
Guardandomi allo specchio, è quasi strano tornare a vedere il mio naturale biondo platino. Ian mi ha quasi supplicato di non presentarmi al matrimonio con la tinta blu ed era così disperato per gli ultimi preparativi che non sono riuscita a non impietosirmi. Al momento, però, il colore dei miei capelli non è tra le priorità.
Continuano a riecheggiarmi le parole di Klaus. Una parte di me si rifiuta di credergli, un'altra è furiosa e vorrebbe soltanto costringerlo a rimanere. E la cosa peggiore è che potrei, mi basterebbe essere sincera, ma questo significherebbe spezzargli il cuore.
Pur essendo una famiglia costruita su bugie e inganni, non voglio essere io a portargliela via. Non me lo perdonerei mai.
Quindi è così, devo perderlo per non farlo soffrire? Andandosene, almeno avrà una possibilità di essere felice. Io ed Elizabeth avremo il tempo di scoprire come essere sorelle e chissà, al suo ritorno, una delle due o entrambe potremmo averlo dimenticato...
«Ma chi vuoi prendere per i fondelli!» borbotto al mio riflesso, prima di uscire dal bagno.
Il vestito è lì, già preparato sul letto. Accanto ci sono anche guanti abbinati e tacchi a spillo; se non mi rompo una caviglia entro stasera, giuro che prenderò a bastonate chiunque metta in discussione l'esistenza dei miracoli.
Proprio quando mi sono decisa a dare inizio al supplizio, sento qualcuno bussare e tiro un sospiro di sollievo. «Avanti».
La testa di Carol fa capolino nella stanza. «Ciao, cara» esordisce con un sorriso rassicurante. «Posso?»
Annuisco. La donna entra e chiude la porta dietro di sé. Regge tra le mani una scatola grande e piatta che deposita sulla scrivania. «È arrivato questo per te. Insieme a un biglietto» mi avvisa, porgendomi un foglietto di carta.
Accigliata, lo prendo e leggo la frase scarabocchiata con una famigliare grafia disordinata: "Apparteneva a una regina, starà benissimo anche a una principessa".
Sbircio con trepidazione nell'involucro e scopro che contiene uno scintillante abito dorato, cosparso di perline e paillettes azzurre e rosa, con sopra una coroncina di rose bianche. Non ho bisogno di dispiegarlo per sapere che ha una profonda apertura sul retro e mi arriva fino alle caviglie.
Lo riconosco. È quello che indossava mia madre, nella foto in cui ballava con papà alle nozze di Ian e Alizée.
«Oh, che meraviglia!» commenta Carol stupita.
«Già». Mi mordicchio il labbro. «Su di me sarà ridicolo...»
«Ma no, tesoro. Sarai bellissima invece, lo sei già di tuo». Mi dà una carezza incoraggiante sulla schiena. «Se vuoi, posso aiutarti io con il make-up e con i capelli. Certo, non sono brava quanto la truccatrice e la parrucchiera assunti dalla signora Alizée, ma almeno faremo tutto secondo i tuoi gusti. Ti va?»
In totale, ci mettiamo mezz'ora per completare l'opera. Non è molto, ma per una ragazza abituata a cambiarsi in cinque minuti... beh, diciamo che non è la cosa più divertente del mondo. Il risultato però non mi dispiace e, malgrado la nostra indiscutibile somiglianza, per una volta sento davvero di avere la stessa bellezza di mia madre, anche se probabilmente nemmeno metà della sua grazia.
Appena ha finito di sistemarmi gli orecchini, Carol arretra di qualche passo ed emette un versetto entusiasta. «Sei stupenda, Keeley! Se Elaine fosse qui, te lo direbbe anche lei!»
«D-davvero?» chiedo timidamente.
«Ma certo! Vuoi che ti accompagni di sotto?»
Anche se ho il terrore di scendere da sola, non mi sembra giusto toglierle altro tempo e preferisco lasciarla libera di andare a cambiarsi.
Aspetto che sia uscita, quindi prendo il telefono e scrivo in fretta un messaggio: "È stata una mossa sleale, papà... ma grazie", e lo invio.
Mi avvicino al comodino e raccolgo il cofanetto con il regalo di Klaus; esito per un attimo, ma alla fine mi decido a infilare il braccialetto attorno al polso destro. Passerò la giornata a dimostrargli che la notizia della sua partenza non mi ha scalfita minimamente, pur non essendo vero. Non ho nessuna intenzione di rendergli tutto più facile.
No no, ora è il suo turno di capire i propri sentimenti. Se è questo che vuole, bene. Affari suoi. Non mi interessa.
Dopo essermi accertata che non ci sia nessuno nei paraggi, vado in corridoio e mi avvicino alla porta di fronte alla mia. È accostata, perciò mi basta spingerla per sgusciare dentro.
Eileen si gira di scatto. «Porca miseria!» esclama, esaminandomi a bocca aperta. «Speriamo che mio fratello non cada stecchito sul colpo».
La osservo a mia volta. Un diadema le risplende tra i ricci ramati, raccolti in un'acconciatura morbida che lascia alcune ciocche a incorniciarle il viso. Il suo abito è in tessuto brillantinato, monospalla, con un profondo scollo a V che le risalta il seno e una gonna dallo spacco esagerato; ho seri dubbi che sua madre lo approverebbe, se fosse presente.
«Perché sei scalza? Non è molto indicato per ballare» chiede Kal, continuando a frugare nel mobile da toeletta. Anche lui è piuttosto elegante: giacca scura su camicia viola, un papillon storto e si è persino pettinato.
Increspo le sopracciglia. «Tu che ci fai qui?»
«Leen voleva consigli per il trucco. E anche una mia opinione su quanto fosse bella in una scala da uno a "piacerò a Jonas"».
«Credo che dovrebbe impegnarsi molto per non piacere a Jonas».
«State zitti» ci rimbecca lei orgogliosa. «E Jonas neanche ci sarà. Deve lavorare».
«Davvero? A me aveva detto...» obietto, ma mi interrompo con una scrollata di spalle. «Vabbè. Non è che avresti delle scarpe senza trampoli da prestarmi?»
«Prendi pure». Eileen accenna alla gigantesca cabina armadio. «La scelta non manca». E torna a concentrarsi sulla ventina di paia di orecchini sulla scrivania.
Errato: la scelta manca, eccome!
Gran parte delle sue calzature o non sono della giusta taglia o rappresentano una sfida colossale al mio senso dell'equilibrio, ma alla fine trovo un paio di sandali dal tacco basso.
«Per Maria Antonietta, questo mi starebbe benissimo!» grida Kal. Ci mostra una boccetta di smalto color lavanda e rivolge alla sorella un'espressione implorante: «Posso?»
«Assolutamente no. Poi sgridano me, lo sai».
Lui congiunge le mani a mo' di preghiera. «Per favooore! Prometto di fare il bravo tutto il giorno!»
Eileen mi scambia uno sguardo con una muta richiesta di soccorso. «Puoi metterlo ai piedi» suggerisco. «Nessuno lo vedrebbe, ma infrangeresti comunque le regole stupide della società. È geniale, no?»
«Se lo dici tu» sospira Kal, non troppo soddisfatto.
Usciamo dalla camera e ci dirigiamo alle scale. Scendere i gradini agghindata in questo modo è quasi come giocare alla roulette russa, ma con il rischio di inciampare e rompersi l'osso del collo al posto di quello di spararsi alla tempia.
Gli altri ci stanno aspettando in soggiorno. Al nostro arrivo, Simon e Klaus si voltano a fissarmi con una sincronia perfetta; il primo indossa uno smoking rosso borgogna con risvolti di raso e farfallino, l'altro un completo interamente nero con la cravatta e dei ricami sul colletto.
Entrambi sono imbambolati, i loro sguardi che percorrono il mio corpo dalla testa ai piedi. Simon continua a sbattere le palpebre da dietro le lenti. Klaus ha le labbra dischiuse e uno scintillio negli occhi, ma guardandolo mi rendo conto che c'è qualcosa di diverso in lui. Impiego una frazione di secondo per capire cosa: non ha la cicatrice. Ian deve avergli imposto di coprirla per l'occasione.
Anche sforzandomi di ignorarli tutti e due, sento le gambe diventare di gelatina e probabilmente sarei ruzzolata giù se Edric non fosse venuto in mio soccorso, acciuffandomi al volo.
«Argh, maledetti tacchi! Odio vestirmi elegante» bofonchio seccata. «Grazie per l'eroismo, comunque».
Edric abbozza un sorriso. Nonostante il braccio gessato, devo ammettere che è davvero attraente nel suo smoking blu scuro che gli risalta le iridi di ghiaccio; il ciondolo del tridente gli pende sul petto e i capelli arruffati gli danno un tocco di nonchalance. «Di niente. E sappi che stai molto bene». Poi aggiunge alla sorella: «Anche tu».
«Come fai a capire se una ragazza è carina?» obietta Kal, saltando l'ultimo scalino. «A te non piacciono».
Lui gli risponde con un'occhiataccia. «Sono gay, mica cieco. Idiota».
All'improvviso sentiamo uno scalpiccio e Toby sfreccia a balzi nel soggiorno. Con la camicia bianca, i pantaloni beige con le bretelle e un farfallino attorno al collo, ha l'aspetto di un piccolo damerino.
«Non correre, tesoro» lo ammonisce Carol preoccupata, seguendolo a ruota.
Il bambino comincia ad agitare le braccia per mettersi in mostra. «Guardate, guardate! Sono come Liam! Vero che sono come Liam?» strilla emozionato.
Scoppiamo tutti a ridere. Klaus gli si avvicina e gli mette una mano sulla testa con un gesto affettuoso. «Sì, piccola peste. Tale e quale a William».
«A proposito, dov'è Liam?» chiede Simon, senza smettere di adocchiarmi.
Kal ridacchia. «La segneremo sul calendario come la prima volta che non è stato puntuale».
«... sono già qui. Jacqueline è di là con loro» sta dicendo Ian mentre sbuca dalla sala adiacente insieme a Matt, scortati da un paio di guardie della sicurezza. Ci passa in rassegna a uno a uno e sospira. «Dove si è cacciato William? Non importa, manderò qualcuno a cercarlo. Mi raccomando, ragazzi, ci saranno videocamere, fotografi e saremo sotto i riflettori di tutti; perciò, vedete di comportarvi bene anche in assenza di vostra madre. Per favore».
«Scusa, perché guardi proprio me?» protesta Kal.
«Rilassati, fratello. Mi spieghi perché sei così nervoso?» Matt si riempie un calice di champagne e si butta sul divano. «È il mio matrimonio. Io dovrei essere nervoso, non tu».
«Perché lo ha organizzato Alizée e, se dovessi rovinare qualcosa, mi ucciderà».
«Cosa mai può andare storto?»
Ian si passa una mano sul volto. «Per esempio, potrebbe mancare la cosa più importante. Quella senza cui un matrimonio non ha molto senso».
Matt aggrotta la fronte. «La torta?»
Per un attimo sono quasi sicura che Ian stia per prenderlo a pugni di nuovo, ma poi sentiamo il portone d'ingresso che viene aperto e una donna compare nell'atrio, trovandosi subito addosso gli sguardi di tutta la famiglia. È sulla quarantina, con una scompigliata chioma castana bagnata di neve, una frangia a tendina sulla fronte e le guance rosse per il freddo.
«Ciao» sussurra intimidita, posando la valigia. I suoi occhi verde oliva dardeggiano da uno all'altro finché si posano su Matt, che si è paralizzato con il calice a mezz'aria, e la sua espressione si rilassa un poco. «Scusate il ritardo».
Matt si alza, la raggiunge di corsa e la abbraccia, dandole un bacio così appassionato che quasi tutti fingono di trovare estremamente interessanti cose come le punte delle scarpe o le pareti. Al contrario Kal si gode lo spettacolo e Toby fa una smorfia, esclamando: «Che schifo!»
Io invece ne approfitto per bere un sorso di champagne, consapevole che è solo l'inizio di una lunga e orribile giornata.
P.O.V. IAN
(Vent'anni prima)
«Tu vuoi figli, Ian?»
Distolgo lo sguardo dal pendolo di Newton sulla scrivania. Il ticchettio delle sfere in acciaio che sbattono una contro l'altra è un po' fastidioso, ma preferisco tenermelo per me. «Sì, certo».
«Io non ne volevo». Jonathan Blackwood si ferma davanti alla finestra dello studio, le mani tozze incrociate dietro la schiena. «Ho sempre creduto che a un uomo, per essere felice, servano solo una bella moglie e una carriera di successo. Poi, ahimè, mi hanno diagnosticato un tumore al pancreas. Probabilità di cavarmela così basse che mi davano già per morto. Eh già» annuisce. «È stato allora che mi sono reso conto che non avevo nessuno a cui lasciare la mia eredità».
Mi muovo sulla sedia, leggermente a disagio. Forse si aspetta una mia risposta, ma quando ha detto di volermi parlare prima del matrimonio non mi aspettavo una conversazione del genere.
«Vedi quella quercia? L'ho piantata il giorno in cui Jacqueline ha scoperto di essere incinta, pregando il Signore di darmi un erede. Non è andata così, purtroppo. Ancora oggi è l'unico fallimento della mia vita». Jonathan si volta verso di me con un sorriso. Il crocifisso gli oscilla fuori dal taschino della giacca. «Oggi mi considero fortunato per aver avuto una bellissima figlia. Per merito suo, Blackwood e Hallander stanno per diventare un'unica grande famiglia».
«Ehm, già» balbetto, schiarendomi la gola. «Ci tengo a ringraziarla ancora per aver estinto i debiti di mio fratello per... la sua dipendenza».
«Oh, sciocchezze» replica lui, facendo un cenno noncurante. «Mi piange il cuore a vedere un povero ragazzo in quelle condizioni. Spero solo che si stia rimettendo sulla retta via».
«Lo spero anch'io».
Jonathan apre uno scaffale e prende una fiaschetta d'argento. Ne beve un sorso, poi me la porge, ma rifiuto con cortesia. Sorride. «Sai, Ian, più ti conosco e più sono convinto di aver scelto un marito perfetto per la mia bambina».
Mi sforzo di ringraziarlo, anche se ho la sensazione che il suo non volesse essere un complimento. O forse mi sbaglio; è un uomo dannatamente difficile da decifrare.
«In cambio, però, fammi un favore». Mette via la fiaschetta, si avvicina e mi dà una pacca paterna sulla spalla. «Dammi tanti bei nipotini, eh?»
Faccio una risata incerta. «Se Alizée ne vuole...»
«Ne vuole, ne vuole». Jonathan lancia un'occhiata all'orologio al suo polso. «Oh, che sbadato! Tra poco inizia la cerimonia e io ho rapito lo sposo» ridacchia. «Meglio che tu vada. E ricordati le mie parole su quel tuo amico, Jason Hunter. Sei un bravo giovanotto, Ian, e sarebbe un vero peccato che la tua reputazione venisse danneggiata da certe compagnie».
Arrossisco leggermente. «Se lei ha ragione» obietto esitante.
«Con tutta la modestia del mondo». Un brillio gli si accende negli occhi smeraldo. «Ce l'ho sempre».
Quando esco dalla stanza, posso finalmente trarre un respiro profondo. Nonostante abbia più di ottant'anni, c'è qualcosa nell'aspetto di Jonathan e nei suoi atteggiamenti che mi ispira un misto di soggezione e rispetto. È gentile e sempre pronto ad aiutarmi, ma non è il tipo con cui andrei a mangiare un gelato.
La villa è gremita di gente che fatico a fingere di non detestare. In molti mi fermano per stringermi la mano, congratulandosi con i loro ghigni stampati in faccia mentre fanno allusioni –vaghe quanto basta– per rammentarmi la loro vecchia amicizia con mia madre, le partite a golf con mio padre o di come da bambino io giocassi con i loro figli.
In effetti, sembra che all'improvviso ci vogliano tutti un gran bene... ironico, considerata la velocità con cui si erano dissolti nel nulla dopo che la mia famiglia è finita sul lastrico.
Schifosi opportunisti, dal primo all'ultimo.
«Ian!»
Mi giro e vedo Jason che attraversa la folla, scansando a gomitate chiunque gli si metta in mezzo. Uno degli invitati protesta e lui lo manda a quel paese abbastanza forte da essere udito da mezza sala, che esplode in un brusio sconvolto; l'educazione non è mai stato il suo forte.
«Dov'eri finito?» gli chiedo accigliato.
«Tenevo d'occhio il tuo piccolo mostro. È nella saletta con il pianoforte». Jason scrolla le spalle larghe, fermandosi di fronte a me. «Si è appartato in una maniera così sospetta che gli mancava solo la scritta in fronte: “Vado a spararmi nelle vene una dose di felicità”».
«Io lo ammazzo» ringhio, e mi incammino a rapide falcate.
Jason mi viene subito dietro.
La porta è chiusa a chiave, quindi comincio a tempestarla di pugni. Per fortuna, poiché la cerimonia sta per iniziare, tutti si stanno radunando nell'ala opposta dove c'è la chiesetta in cui si celebreranno le nozze, altrimenti non oso immaginare cosa penserebbero di me in questo momento.
«Ho capito! Arrivo! E che cazzo!» impreca una voce dall'interno.
Appena sento il rumore della serratura, irrompo dentro con uno spintone. Le finestre sono spalancate, ma ancora aleggia un odore fortissimo di marijuana che mi fa girare la testa per un secondo.
Jason entra a sua volta e chiude la porta. Saggia l'aria con il naso. «Beh, almeno non puzza. Significa che è roba buona».
Matt si massaggia le tempie. Ha i capelli arruffati, la cravatta slacciata e gli occhi lucidi e gonfi. Non mi capacito di come un quindicenne possa ridursi in uno stato tanto pietoso. «È erba... medicinale. Andiamo, la usavano in un sacco di religioni per le connessioni spirituali e robe simili. È citata anche nella Bibbia».
«Dove l'hai messa?» domando, iniziando a perquisirgli i vestiti.
«Piantala!»
Matt prova a respingermi, ma Jason lo sbatte al muro come se pesasse quanto un fuscello. Gli tiene il gomito premuto sul petto mentre con la mano libera gli setaccia le tasche dei pantaloni. Ne tira fuori una bustina piena di fine polvere bianca.
La indico. «Quella che cazzo è?»
«Zucchero pregiato?» ironizza mio fratello, continuando a dibattersi nella presa di Jason.
«Dove l'hai presa?»
«L'ho comprata, quindi è mia! Ridammela!»
Scuoto il capo. «E con quali soldi? Sentiamo! Perché giuro che se ti stai cacciando di nuovo nei casini con gli spacciatori...»
Un sorriso sardonico spunta sul suo volto. «Non ho mai parlato di soldi, fratello. Preferisco pagare in natura».
«In natura?» ripeto incredulo. «Ti prostituisci per quella merda? Sei sul serio così disperato?»
«Disse quello che sta sposando una semisconosciuta per denaro! Beh, almeno è sexy, dai» sghignazza Matt.
Mi scaglio in avanti per colpirlo, ma Jason si frappone fra noi e, tenendoci separati, dice con il tono di chi si rivolge a dei bambini capricciosi: «Niente pestaggi il giorno delle nozze, okay? Insultatevi e basta».
«Lo sai perché mi sto sposando?» gli grido addosso. «Perché papà ha dilapidato il nostro patrimonio per andarsene in giro a scopare, perché tu sei un coglione che gioca a fare l'adolescente problematico e io sono quello che deve rimediare a tutti i vostri cazzo di casini!»
Matt rifila un calcio al ginocchio a Jason, che però non lo molla. «Oh, fanculo! Non te ne frega un cazzo di me, Ian! Ti preoccupi solo che possa sporcare il nostro prezioso cognome!»
Quell'accusa si abbatte su di me con la violenza di un macigno. «Non me ne frega di te? Dimmi, Matty, chi ti preparava da mangiare o ti cambiava i pannolini quando la mamma era troppo malata per farlo? IO. Chi ha lavorato dalla mattina alla sera per anni per permetterti di avere un'infanzia decente? IO. Chi ha rinunciato alla ragazza che ama per pagare i tuoi debiti per la droga? IO».
«Chi mi vuole mandare in uno schifoso centro di recupero dall'altra parte del Paese? TU» mi rinfaccia Matt, liberandosi con uno strattone. Ha un'espressione così rabbiosa che mi sorprende che non si sia ancora avventato su di me. «Hai promesso alla mamma che non mi avresti mai abbandonato! Ricordi? Insieme, sempre e comunque! Invece mi stai mandando via!»
“Per aiutarti. Per salvarti da te stesso. Perché non sopporto di vedere il modo in cui ti autodistruggi”. So che è questa la risposta giusta, che è la verità. Solo che sono infuriato e tutto ciò che voglio è fargli male. Davvero male.
«È da quando sei nato che mi rovini la vita. Magari sono solo stanco di perdere tutto per colpa tua».
Un lampo ferito gli guizza nello sguardo. Per un istante rivedo il ragazzino smarrito che, davanti al letto di morte della madre, non ha avuto il coraggio di avvicinarsi ed è scappato via pur di non dirle addio. Ripenso alle ultime parole che le ho sussurrato, prima che le sue palpebre si abbassassero per sempre: "Tranquilla, tu riposa. Mi prenderò io cura di Matty".
E, come quel giorno, anche adesso Matt si gira ed esce sbattendo la porta.
«A quel marmocchio serve più bastone e meno carota» commenta Jason, gettando la busta con la droga.
Lo ignoro e mi lascio cadere sul divanetto, i gomiti puntellati sulle ginocchia. «Sto sbagliando tutto con lui» bisbiglio, affondando il viso tra le mani.
«Sei suo fratello, non suo padre».
«È una mia responsabilità. Dovrei proteggerlo, dovrei...»
«Ehi». Il suo tono si ammorbidisce. «Forse potevi essere più delicato, ma un po' di verità non ha mai ucciso nessuno».
Jason si siede al mio fianco e mi osserva con attenzione. Ho l'impressione che i suoi occhi scuri si siano addolciti adesso. «Matt ha quasi sedici anni, ormai è in grado di prendere da solo le sue decisioni. Tu stai facendo del tuo meglio, anzi fin troppo a mio parere. Se vuole affogare, perché ti devi buttare per salvarlo?»
Sollevo il capo, restando chinato a fissare il pianoforte davanti a me. Non è difficile intuire a cosa si riferisca. «So che non approvi questo matrimonio...»
«Non è che non lo approvo, io lo detesto. È diverso» precisa lui torvo, passandomi un braccio dietro la schiena. «Alizée non ti merita. Neanche Gladys ti meritava. A te serve qualcuno che apprezzi il tuo essere così buono, non che se ne approfitti».
«Però hai accettato di farmi da testimone».
«Sono un idiota che non sa dirti di no, che vuoi farci? Non c'è nulla al mondo che non farei per te».
Aggrotto la fronte, accorgendomi che la sua mano mi sta accarezzando la spalla. Anche se ci conosciamo dall'età di otto anni ed è normale che mi voglia bene, a volte dice e fa delle cose che non capisco. Prima non avevo mai dato peso a quelle sue manifestazioni d'affetto, ma dopo ciò che ha detto Jonathan...
«Jason, avrei una... ehm, domanda da farti» esordisco a disagio, scansandomi per fargli ritirare il braccio. «So che è assurdo, ma mio suocero crede che... cioè, come dire... che tu abbia una... cotta...» Tossisco. «Per me».
Jason rimane immobile per una manciata di secondi, poi scoppia in una fragorosa risata. «Ti abbraccio ogni tanto, quindi mi piaci? Certo che voi Hallander siete proprio egocentrici» ribatte divertito.
«Quindi non è vero?»
«Ian, sto uscendo con Kaori, che fino a prova contraria è una ragazza. Perciò rilassati, non sono... aspetta, come li chiamano i genitori della tua mogliettina? Un invertito, ecco». Dalla sua voce trapela una nota gelida, ma immagino che sia perché non gli ha fatto piacere scoprire che la famiglia Blackwood lo considera... beh, gay.
Tiro un sospiro di sollievo e mi ributto contro lo schienale del divano. «Grazie al cielo abbiamo chiarito. Sei il migliore amico che potessi avere, non voglio che le cose diventino imbarazzanti tra di noi».
Voleva essere un complimento, invece Jason sembra incupirsi per un secondo. «Già, evviva» mormora. Si alza, si scompiglia i capelli color sabbia e accenna alla porta. «Beh, da amico ti ricordo che non puoi tardare al tuo matrimonio».
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