71. COME LE ALI DI UN ANGELO

P.O.V. KLAUS

Con i gomiti puntellati alla balaustra, osservo la vallata che si stende attorno alla collina; una distesa di prati e boschi di pini che si perdono fino al profilo dentellato tracciato dalle montagne all'orizzonte. Il sole del primo pomeriggio campeggia nell'azzurro limpido del cielo e il vento pungente che mi accarezza il viso è permeato dal profumo dei gigli che tingono di colori vivaci il giardino del Saint Mary.

Comincio a rigirare l'anello attorno al dito in un gesto meccanico, ma poi mi ricordo di non averlo addosso. Liam lo ha preso per estrarre il microchip nascosto sotto la pietra d'onice e non me lo ha ancora restituito. Allora la mia mano scivola nella tasca dei pantaloni e tiro fuori il grimaldello bulgaro, l'unico regalo che Vincent mi abbia fatto in tutta la mia vita.

«Ci sei andato a letto?»

Aggrotto la fronte, l'alcol che mi rende difficile comprendere il significato delle sue parole. «Che?»

«Adesso che ho risposto alle tue domande, piccolino, è il tuo turno di essere sincero con me. Mi sembra equo, no? Quindi dimmi: sei andato a letto con le Storm?»

«Non...» Scuoto il capo, frastornato. Devo aver sentito male. «Cosa c'entra?»

La sua presa sui miei capelli diventa dolorosa e mi costringe ad avvicinarmi in modo da sussurrare al mio orecchio: «Voglio sapere quanto devo punirti. Sai che non permetto a nessuno di toccare ciò che è mio».

Chiudo gli occhi, cercando di respingere gli sprazzi di ricordi che continuano a riaffiorare. Credevo di aver dimenticato tutto di quello che è successo dopo la fine del giochino alcolico e che, delle sue torture, fossero rimaste solo le ferite ancora pulsanti sulla schiena.

Invece no. E se non ho dubbi che il mio corpo possa sopportare nuove cicatrici, non confido troppo che la mia mente riesca a fare altrettanto.

«Klaus».

Mi giro di scatto. Il mio cuore, schizzato in gola, rallenta la sua corsa appena vedo Liam fermo a un paio di metri di distanza. Avrei dovuto immaginare che mi avrebbe seguito; preoccuparsi per me è diventato un suo riflesso incondizionato.

«Perché non mi hai detto dell'incidente?» gli chiedo, rimettendo in tasca il grimaldello.

«Tu come...»

«C'è un esaustivo articolo sul Sunset Times».

Liam mi fissa con un'espressione premurosa. «Mi dispiace. Dopo quello che hai passato, volevo darti un po' di tregua».

Torno a chinarmi sul parapetto di legno, osservando le minuscole sagome degli edifici che dalla città spuntano in lontananza. Uno di quei puntini è la villa dove c'è la famiglia che ho quasi abbandonato. Un altro è l'ospedale in cui è ricoverata la donna che mi ha dato alla luce.

«Nostro padre e Edric stanno bene» mi rassicura Liam, posizionandosi al mio fianco.

In altre circostanze mi verrebbe da sorridere al pensiero di come ha definito Ian, considerato che biologicamente non è padre di nessuno dei due. «Dovresti andare dai nostri fratelli. Sai che hanno bisogno di te».

«Hanno bisogno di entrambi, dunque rassegnati». Abbozza un mezzo sorriso. «Andrò a casa quando ci andrai tu».

Emetto un sospiro frustrato. «Non mi serve un baby sitter, William».

«Visto il tuo recente comportamento, non ne sono tanto sicuro».

Faccio per scoccargli un'occhiataccia, ma mi scontro con uno sguardo così profondo da paralizzarmi. Esito, assalito da un bruciante senso di colpa. «Sei arrabbiato, vero?» sussurro a fil di voce.

«Sono incapace di arrabbiarmi con te» risponde con una sfumatura ironica. «Ma non nego di essere deluso».

Detto da chiunque altro mi avrebbe fatto male, ma pronunciata da lui quella frase mi colpisce come una mazzata in pieno stomaco. Avrei preferito essere preso di nuovo a cinghiate piuttosto che avere la consapevolezza di averlo deluso.

«Dal momento in cui sei arrivato ho tentato disperatamente di cancellare quello che Vincent ti aveva fatto, di liberarti dalle assurde convinzioni che ti aveva inculcato fin da bambino. Ogni giorno, io e i nostri fratelli ti abbiamo dimostrato che sei uno di noi a prescindere dalle azioni di tuo padre» prosegue, e questo mi fa sprofondare –se possibile– ancora di più. «Eppure tu hai permesso a un essere che ti ha fatto sempre e solo del male di fartene dubitare. In un giorno hai lasciato che spazzasse via tutto l'amore che ti abbiamo dato in sette anni».

Fa una breve pausa e aggiunge in tono pensieroso: «Non capisco che cosa ho sbagliato».

«Tu non c'entri» replico raddrizzandomi. «Smettila di comportarti come se ogni mia decisione dipendesse da te. Non sono una tua responsabilità».

«Sì che lo sei. Lo siete tutti, ma tu più degli altri».

Giuro che, se non gli volessi tanto bene, gli avrei già mollato un pugno sul naso. «Perché sei il fratello maggiore? Beh, rivelazione scioccante: hai diciannove anni. Non è compito tuo badare a noi».

«Lo so, è dei nostri genitori. Ma non ne sono capaci, l'ho accettato da tanto ormai». Liam si appoggia al muretto del terrazzo, le braccia incrociate. «Dal primo istante in cui ti ho visto, con ancora i lividi addosso, ho giurato a me stesso che ti avrei protetto perché sapevo che loro non l'avrebbero fatto. Non sono mai riusciti a prendersi cura nemmeno dei figli che avevano scelto di avere, tantomeno l'avrebbero fatto con te».

Mi ammutolisco. Ogni tanto lo sbircio di traverso, ma lui è troppo immerso nelle sue riflessioni per notarlo. Nonostante la durezza dei lineamenti, mi risulta automatico scorgere i sentimenti che sta provando dietro il suo apparente autocontrollo. Tristezza, sofferenza, solitudine...

Nemmeno la roccia più resistente al mondo può sostenere un peso infinito. Prima o poi crolla, e nel farlo trascinerà con sé tutto ciò che si è aggrappata a essa.

«Vorrei spiegarti quanto io ti sia infinitamente grato per esserci sempre, ma niente di quello che potrei dire sarebbe abbastanza. Sarei stato perso senza di te, fratello. Sarei perso». Quando i miei occhi incontrano i suoi, mi sembra di tornare il bambino che spiava di nascosto ogni sua movenza per cercare di imitarlo, o il ragazzino che timidamente gli ha chiesto di insegnargli a radersi la barba. Se avevo bisogno di aiuto, di approvazione, di quel sostegno che di solito si cerca in un genitore, sapevo che l'avrei trovato in lui. «Spesso ho così paura di non essere all'altezza delle tue aspettative che finisco per... per fare stupidaggini. E mi dispiace di essere incasinato, e di crearti un sacco di problemi. Non credo di valere tutti i tuoi sacrifici o quello che fai per me, ma so che non potrei farne a meno. Perché se ti perdessi, io...»

Inaspettatamente Liam mi mette una mano dietro la nuca e mi attira in un abbraccio, stando attendo a non sfiorarmi la schiena. All'inizio rimango immobile per lo stupore, dato che entrambi siamo poco inclini alle manifestazioni d'affetto, men che meno tra di noi, ma alla fine ricambio la stretta con forza.

«Tu non mi perderai mai» sibila in tono categorico. «Mai».

Socchiudo le palpebre, chiedendomi se sia consapevole di quanto la sua presenza abbia significato per me in questi sette anni. Di come avere la certezza che l'avrei avuto al mio fianco, sempre e comunque, mi abbia salvato e spinto a lottare anziché arrendermi al passato.

Quando ci stacchiamo, mi fissa in volto e sorride. «Ti rendi conto che a casa dovremo affrontare l'ira funesta di nostra sorella, vero?»

«Vincent non mi spaventava granché a confronto».

Lui ridacchia, ed è piacevole vederlo spensierato per un istante.

«William» dico, facendomi serio. «Per quanto riguarda la questione di Michael, se vorrai parlarne io ci sono. Oggi, domani, tra un anno, non importa. Ci sono. Forse è ora che accetti che anche a te può servire aiuto, ogni tanto».

Liam si irrigidisce e comincia a sistemarsi prima il fermaglio della cravatta poi il colletto della camicia. L'ordine ha da sempre un effetto calmante su di lui; in caso di turbamento o disagio, persino un quadro storto di un millimetro è in grado di dargli fastidio.

«È ora di pranzo» sentenzia infine, controllando l'orologio al suo polso. «Tu non mangi da ieri. Andiamo».

"Modalità nonnina attivata" penso tra me.

Rassegnato, lancio un'ultima occhiata al panorama che si estende ai piedi della collina e mi avvio verso l'entrata laterale del Saint Mary, ma Liam mi afferra il braccio con un gesto leggero.

«Non voglio che i nostri fratelli lo sappiano. So che il sangue non conta nulla, non è questo. Solo che non voglio». Nel suo sguardo c'è una muta supplica. «Quindi potresti...» Non riesce a terminare la frase.

Annuisco. «È una tua decisione, non mia. E nessuno può capirti meglio di me a riguardo».

«Già». Liam si acciglia. «Michael è stato un capro espiatorio, ma deve esserci un colpevole per lo stupro. È impossibile che nostra madre abbia mentito anche su questo».

«Vincent era convinto che fosse qualcuno molto vicino agli Hallander, o comunque che nostro nonno avesse interesse a proteggere». Mi stringo nelle spalle. «Ian lo possiamo escludere per ovvi motivi. Matt era già stato spedito in un istituto per ragazzi difficili dall'altra parte del Paese e non lo farebbe mai. Mi disgusta pensare che possa essere stato Henry».

«A quanto mi risulta, all'epoca l'unico uomo considerato amico di famiglia, eccetto Michael, era Maxwell. Jason Hunter aveva interrotto i rapporti con i nostri genitori già dopo il loro matrimonio e iniziava a frequentare Kaori Hayashi».

«Sì, appunto. Inoltre, ti vorrei ricordare che uno è il padre di Keeley ed Elizabeth e l'altro di Ric» preciso irritato. «Non li voglio tra i sospetti».

Liam inarca un sopracciglio. «Anche Benjamin Keller è annoverato tra gli intoccabili?»

«Keller? Ma non è...»

«Mio padre, sì» interviene Jonas, avvicinandosi con le mani nelle tasche dei jeans. «E, per vostra informazione, tra i suoi tanti difetti non c'è essere uno stupratore».

Mentre lo scruta come farebbe un'aquila con la sua preda, Liam muove un passo in avanti e si frappone fra me e lui con diffidenza. «Non ti hanno insegnato che origliare non è educato?»

«Siete voi due volpi che discutete di complotti nel giardino, eh».

Lui lo ignora. «Benjamin era il fidanzato di Céline, che era la migliore amica di nostra madre. Stiamo valutando tutte le ipotesi».

«Bene, allora vi ho appena aiutato a eliminarne una. Non c'è di che». Jonas mi fa un cenno e propone ironico: «Se non ti fidi, mi offro per un test del DNA che proverà che non siamo fratellastri. Siamo anche in una clinica super segreta, meglio di così».

«Non serve» bofonchio, prima che un'idea improvvisa mi balzi in mente. «Aspetta, però, hai ragione. Potremmo farlo. Qui non ci scoprirebbe nessuno».

Jonas assume una smorfia truce. «Sul serio? Vengo per scusarmi di averti pestato e tu accusi mio padre di...»

«No, non mi riferivo a te». Mi rivolgo a mio fratello. «Hai un campione del DNA di Ian, vero?»

Un lampo confuso gli guizza sulla faccia per un attimo, poi capisce. «Sì, l'ho usato per un esame del college. È così che ho scoperto...» Adocchia Jonas con evidente ostilità. «Lasciamo stare».

«Facendo un confronto, possiamo verificare se mio padre è davvero un Hallander e dedurre chi sia dal grado di parentela tra me e Ian. Giusto?»

«Io non avevo indagato oltre, ma se volessimo sì, è possibile. Nel caso però non ci fossero corrispondenze saremmo al punto di partenza» fa notare Liam.

«Io avrei un'altra soluzione così incredibilmente geniale che vi sembrerà assurda». Appena ci giriamo, Jonas conclude in tono enfatico: «Chiedetelo. Ai vostri genitori, a Storm, che ne so. Non è più facile, invece di ricorrere a una versione disfunzionale di FamilySearch

Mi lascio sfuggire un verso sarcastico, ma è Liam a parlare al mio posto. «Nessuna di queste persone è stata una grande fonte di verità finora. La genetica invece non mente».

Jonas si arruffa i capelli corvini. «Come vi pare, non me ne frega. Ora, se avete finito con lo spionaggio, venite che abbiamo preso da mangiare».

«Non mi dovevi sciorinare una toccante dichiarazione su quanto ti dispiace di avermi picchiato? Più volte» commento sardonico.

«Mai detto niente del genere».

Entriamo nell'atrio e, dopo che Liam si è fermato un paio di minuti a confabulare con l'infermiera dietro il bancone, Jonas ci guida fino a una saletta adiacente piena di tavoli. Probabilmente è dove i pazienti in buona salute si radunano per i pasti ma, dato che Elizabeth è nella sua camera e il resto della struttura è vuota, ci siamo solo noi.

L'atmosfera all'interno è piuttosto tesa ed è in corso quella che ha tutte le premesse di sfociare in una lite.

«È troppo pericoloso, Maxwell» sta dicendo Stefan, stando a braccia conserte sulla sedia. «Alizée è quasi morta in quell'incidente. Se Chris Ivory non si è fatto scrupoli a colpire gli Hallander, non possiamo essere certi che Keeley sia ancora al sicuro alla villa».

Alan si pulisce la bocca, sporca di burro di arachidi, con un tovagliolo. «Concordo. La cosa migliore sarebbe tenere Keeley nascosta con Elizabeth, finché non avremo trovato il registratore».

«Non accetterà mai» mi intrometto, puntando lo sguardo sulla figura di fronte alla finestra. Ancora fatico ad abituarmi al pensiero che l'uomo buono –che per anni ho mitizzato come un eroe– adesso sia reale, in carne e ossa davanti a me. «Soprattutto se in quel registratore c'è qualcosa che riguarda sua madre».

Maxwell lancia un'esclamazione esasperata, appollaiandosi sul davanzale. «Grazie al cielo, è quello che sto ripetendo da mezz'ora! È figlia mia e di Elaine, non starà in panchina di sua volontà. Al massimo potremmo legarla, un tantino estremo ma per proteggerla...»

Stefan sgrana gli occhi azzurri. «Sei impazzito? Non legheremo proprio nessuno».

«Rapire neonate sì, legare minorenni no. Sarebbe interessante valutare il tuo codice morale» replica Maxwell acido.

Liam prende uno dei sandwich sul tavolo e, sapendo che non mi piace il pane, mi porge il vassoio con le poche pizzette rimaste. «Mi è sfuggito un dettaglio. Come sapete che il registratore è alla villa? Non vi ho mai sentiti metterlo in dubbio».

«Perché è l'unico luogo possibile, ragazzino». Maxwell sogghigna nel cogliere l'espressione infastidita di mio fratello dovuta a quel nomignolo. «Non è a Baker Street. Non è nel suo scrigno. E, quando me ne sono andato da Sunset Hills, Alizée si è appropriata di gran parte dei beni di Elaine per evitare che venissero venduti. Persino casa nostra è sua, in teoria. Quella donna è un'arpia, ma per fortuna un'arpia molto sentimentale... senza offesa per la vostra mammina, certo».

Nonostante il mio pessimo rapporto con Alizée, le sue parole mi provocano un moto di stizza. Nessuno è privo di colpe in questa storia, quindi è piuttosto ingiusto che a essere condannate siano soltanto le sue.

«Ci risiamo». Seduto sullo spigolo del tavolo, Jonas addenta un tramezzino. «Scommetto che di chiederlo a lei non se ne parla, vero?»

Stefan emette un sospiro. «Una volta ho provato a farlo, in maniera discreta ovviamente. Ha detto di non ricordarselo».

«E poi non metterei una potenziale prova contro gli Hallander in mano a una Hallander, anche se solo acquisita» puntualizza Maxwell, allontanandosi dalla finestra. Scarta l'involucro di plastica dell'ultimo panino, storce il naso e lo rimette giù. «Potevate lasciarne uno con il tonno, invece no. Uovo sodo e capperi. Bleah».

«Dobbiamo risolvere la questione. Che facciamo con Keeley?» insiste Alan.

Apro una lattina di coca cola e ne bevo un sorso, riflettendo. La conosco troppo bene per non sapere che non ci permetterà di decidere per lei, tantomeno se c'è in gioco la sua incolumità. E non è difficile intuire quale sarebbe la sua scelta tra rimanere al sicuro al Saint Mary o tornare alla villa alla stregua di un'esca.

Maxwell sbuffa. «Uno di noi», e si volta verso di me, «potrebbe provare a usare il suo ascendente per convincerla a stare qui».

Mi sento arrossire sulle guance. «Non ho nessun ascendente. E, se anche lo avessi, non mi darebbe retta».

«Mio padre avrà capito che l'incidente non è stato casuale» obietta Liam pacato. «Già da un po' i nostri genitori sanno che la nostra famiglia è sotto il mirino di qualcuno. Infatti siamo andati nella tenuta in campagna perché potessero installare un nuovo sistema di sicurezza all'avanguardia». Tamburella le dita sul tavolo. «A quest'ora, casa nostra si sarà trasformata in una fortezza. Basterà che Keeley ci resti dentro».

«Tranquillo, i giorni delle nostre missioni clandestine sono finiti» lo rassicuro.

«Perfetto». Maxwell batte le mani con uno schiocco sonoro. «Voglio venire anch'io».

Alan gli lancia un'occhiata perplessa. «Tu nella stessa casa di Ian Hallander? Assolutamente no, ci scapperebbe il morto in meno di un'ora. Mi dispiace, ma hai la stabilità emotiva di un bambino di quattro anni».

«E tu il quoziente intellettivo di un bradipo, eppure ti sei autoeletto capo della squadra dei buoni».

«Oltre ad avere un distintivo, sono anche l'unico adulto che non ha commesso reati gravi» replica Alan freddamente. «Perciò sì, sono il capo».

Maxwell si abbandona su una sedia, imbronciato. «Quindi cosa dovrei fare mentre mia figlia rischia la vita? Lavorare a maglia?»

«Proteggere l'altra tua figlia». Stefan si sporge in avanti sui gomiti con uno sguardo amareggiato. «Se si venisse a sapere che Elizabeth è viva, sarebbe un bersaglio al pari di Keeley. La Walker Agency spetta a entrambe».

La porta della sala si apre. Appena Keeley compare sulla soglia, mi alzo di scatto e la osservo dirigersi verso il nostro tavolo. La lunga chioma blu è scompigliata e i suoi occhi ambrati, cerchiati da lievi aloni, sono così lucidi da sembrare oro fuso. Il cuore mi si contorce in una morsa dolorosa: ha sicuramente pianto. Nonostante ciò, sul suo viso è impresso il solito ghigno di chi sfiderebbe anche un drago a testa alta e ne uscirebbe vincitrice.

«Beh?» chiede lei stizzita. Non mi ero accorto che fosse calato il silenzio assoluto né che tutti i presenti la stessero fissando. «Ho incontrato mia sorella, mica sono sopravvissuta a una bomba atomica».

Non ottenendo alcuna reazione, controlla il sandwich sul vassoio e storce il naso allo stesso modo di suo padre. «Chi diavolo mangia uovo sodo e capperi?»

Maxwell assume un'aria tronfia, quasi aver trovato un punto in comune su una cosa tanto insignificante potesse segnare chissà che svolta per recuperare il loro vecchio legame. «Possiamo andare a prenderci un triplo cheeseburger con patatine» propone speranzoso.

«Non ho fame» taglia corto Keeley lapidaria, spegnendo il suo entusiasmo. «Volevo solo avvertirvi che esco, quindi non datemi per dispersa». E ritorna sui propri passi.

Mi affretto a raggiungerla e la blocco prima che lasci la sala. Non ho il tempo di aprire bocca che ha già sollevato un indice per zittirmi. «Guai a te se stai per dire che vuoi venire con me per proteggermi».

«Primo. Non mi inventerei una scusa così banale» ribatto sulla difensiva. «Secondo. Quale parte della frase "C'è uno psicotico trafficante di bambini che potrebbe volerti morta" ti è sfuggita?»

Keeley si mordicchia il labbro. È adorabile quando lo fa. «Klaus, so che ti preoccupi per me e lo apprezzo, va bene? Ma al momento stare con te... beh, non mi aiuta» mormora, perdendo ogni traccia di sarcasmo.

So che è ha ragione, è comprensibile che non voglia accanto il "quasi-ragazzo-forse-ex" della gemella, ma l'effetto è comunque quello di un pugnale conficcato nel petto. «Com'è andata?» mi azzardo a domandare.

L'ombra di un fragile sorriso le compare sul volto, mozzandomi il fiato per un attimo. «Bene, anzi più che bene. Mi piace, anche se ho appurato che in famiglia sono l'unica con buoni gusti cinematografici. Dovrò istruirla a dovere. Ah! Ha chiesto di te».

Prendiamo a fissarci intensamente, il silenzio sospeso tra di noi. Lo ha detto con una disinvoltura a cui non riesco a credere; ho l'impressione che voglia persuadermi che questa situazione non le faccia male, che l'abbia accettata, soltanto per rendermi tutto più facile.

«Dovresti andare da lei. Ne ha bisogno». Keeley espira bruscamente, ma la sua voce è ferma e gentile, quasi tenera. «E anche tu».

Odio che stia soffrendo, ancora di più odio che sia colpa mia e soprattutto detesto che finga che ciò che c'è tra me ed Elizabeth abbia cancellato in un battito di ciglia quel... qualunque cosa ci fosse tra noi. «Lo farò soltanto se mi prometti che non te ne andrai in giro da sola».

Lei mi lancia un'occhiataccia.

«Non voglio che ti accada nulla. Per favore» aggiungo con una nota implorante.

Getta le braccia all'aria con fare rassegnato, si scansa e grida in direzione del padre, che se ne sta afflosciato sulla sedia come un palloncino bucato: «Triplo cheeseburger con patatine e bacon. Pretendo anche un milk-shake al caramello».

L'uomo balza in piedi. «Ai tuoi ordini, principessa» replica, facendole il saluto militare.

Keeley alza gli occhi al soffitto e si allontana. Nel passarmi vicino, Maxwell rallenta per darmi una pacca sulla schiena –proprio in corrispondenza dei segni delle cinghiate, facendomi sussultare per il dolore– e lo sento sibilarmi piano: «Grazie per l'aiuto. Il tuo suocerino ti deve un favore». Dopodiché segue di corsa la figlia.

Il mio... che?

Mi incammino nell'atrio e non ho ancora imboccato il corridoio con le camere che una voce mi chiama.

«Klaus». Jonas mi viene incontro. Ha un'espressione così corrucciata che non mi stupirei se mi sferrasse uno dei suoi ganci destri. «Volevo parlarti senza il tuo bodyguard nei paraggi».

Capisco subito che si riferisce a Liam. «Non mi hai chiamato "bastardo". È una grande evoluzione per il nostro rapporto».

«Piantala. Volevo solo dirti... cioè, mi sono sbagliato su di te e... insomma...» Ciondola sulle gambe, evitando di incrociare il mio sguardo. «Credo di doverti delle scuse, ecco».

«Okay».

Jonas si decide a guardarmi, ma il suo imbarazzo è palpabile. «Okay?» ripete allibito. «Ti ho preso a pugni, insultato, minacciato e diffamato per mesi per una cosa che non hai fatto... e non sei neanche incazzato?»

“Ti sbagli. È sopravvissuta, ma sono stato io a spararle” vorrei rispondere.

«Non mi devi niente, d'accordo?» ribatto incupito. «Ti assicuro che, se ti avessi ritenuto responsabile dell'omicidio di mia sorella, io avrei fatto di peggio. Quindi dimentichiamo il passato e basta».

Un rossore intenso gli avvampa sulla faccia. «Ah sì, tua sorella. A proposito di tua sorella...»

«Sì?» Lo pronuncio con un tono più scontroso di quanto avrei voluto.

Esita un attimo. «Potrei averla baciata e potrebbe esistere una possibilità non troppo remota che io le chieda di uscire con me. Ipoteticamente, cosa ne penseresti?»

«Ipoteticamente, penserei che non ti serve la mia approvazione perché la mia sorellina sa badare benissimo a sé stessa». Abbozzo un sorrisetto. «Nella pratica ti voglio ricordare che ha ben cinque fratelli, tra cui uno alto due metri per novanta chili, da sguinzagliarti contro qualora tu dovessi mai osare farla soffrire».

«Non ne ho nessuna intenzione» dice Jonas con fare solenne. «In cambio tu non far soffrire le mie, di sorelle».

Quando entro, Elizabeth ha gli occhi chiusi rivolti al soffitto e la testa piegata su una spalla. È dimagrita un po' rispetto all'ultima volta che l'ho vista, ma considerato che non mi aspettavo nemmeno che fosse viva la trovo piuttosto in salute. La somiglianza con Keeley è lampante, tranne che per l'argento luminoso dei capelli che si dispiegano sul cuscino.

Studio la camera con una rapida occhiata. È un ambiente spoglio e asettico, con le pareti lucide e il minimo indispensabile per lo svago di un'adolescente: un televisore a schermo piatto sulla scrivania, uno scaffale pieno di dvd e un altro con una pila di libri sopra. Il climatizzatore spara aria calda nella stanza, forse un po' troppa, tanto che devo togliermi la giacca per non iniziare a sudare.

«Ehi» sussurra una voce assonnata.

La sua voce.
Quella di cui mi sono innamorato.

Elizabeth si stiracchia debolmente con uno sbadiglio, poi si solleva sui gomiti per guardarmi meglio. Un sorriso bellissimo le illumina il volto, facendole scintillare gli occhi ambrati. Sembra in attesa di una mia mossa, ma non riesco a fare altro che rimanere impalato a restituire il suo sguardo.

Spiegare cosa io stia provando in questo momento è impossibile, perché non ne ho idea. La mia mente è invasa da un turbinio di pensieri e sentimenti che cozzano tra di loro, intensi e contrastanti. E confusi, molto confusi.

«Allora?» mi incalza lei. «Non mi dai neanche un abbraccio?»

Avvicinandomi noto un bauletto di legno sul comodino, accanto a una lampada e a una scatola vuota di cioccolatini assortiti che deve averle portato Jonas. Forse li ha mangiati insieme a Keeley. Sua sorella.

Mi metto appollaiato sul bordo del letto e vorrei dire qualcosa, davvero; peccato che abbia la gola più secca e arida di un deserto. Quindi è Elizabeth a parlare per entrambi. Si tira a sedere e mi stringe con la sua solita delicatezza, permettendomi di posare la fronte sull'incavo della sua spalla. La sento a malapena mentre mi deposita un bacio sul collo, un tocco leggero come di una piuma.

«Va tutto bene, Klaus. Non è colpa tua» bisbiglia in tono dolce, con il mento sulla mia nuca. «Non è colpa tua».

Ancora una volta riemerge il ricordo della pistola nelle mie mani, dell'indice sul grilletto, del suono dello sparo che mi trapassa i timpani, della sua espressione sorpresa e terrorizzata prima di accasciarsi a terra...

«Scusa, scusa, scusa». Lo ripeto all'infinito mentre tremiti incontrollabili cominciano a scuotermi tra le sue braccia, che in risposta rafforzano la presa. «Non volevo. Ti giuro che non... Perdonami. Ti prego».

Elizabeth deglutisce e so che si sta sforzando di non piangere. «Va tutto bene. Io sto bene. Ho saputo com'è andata, è stato un incidente. So che non mi avresti mai fatto del male».

Scatto all'indietro, sottraendomi al suo abbraccio. «Ma l'ho fatto. Ti ho quasi uccisa».

«Non eri in te, Klaus! Jack ti aveva drogato!»

Non sto a puntualizzare che è stato mio zio a farlo, servendosi di Jacob nel tentativo di colpire Alizée tramite mia sorella. Non ha importanza in questo momento. Ciò che conta è che ha rischiato di morire a causa mia e mi sta giustificando.

«Perché diavolo lo fate tutti?» sbotto, alzandomi con veemenza.

Elizabeth aggrotta la fronte. «Fare cosa?»

«Difendermi anche quando sono indifendibile». Indico con un dito la piccola cicatrice che le spunta dallo scollo del camice, appena sotto la clavicola. «Te l'ho fatta io, Liz! Non mi risulta che la gente mentalmente sana si metta a sparare all'impazzata per un po' di droga!»

Non è andata proprio così, ne sono consapevole. È stata la presenza di Vincent a destabilizzarmi, ma continua a non essere una scusa.

«Tu sei mentalmente sano» replica Elizabeth paziente. «Klaus, ci sono tantissime persone che ti vogliono bene. Non ti è mai saltato per la testa che deve essere perché non sei orribile quanto credi? Oppure pensi che siamo tutti afflitti da una sindrome da crocerossine, e crocerossini, collettiva?»

La fisso immusonito. In quell'istante qualcuno bussa alla porta ed entra un'infermiera bionda in uniforme con una sedia a rotelle, che dedica un sorriso caloroso a entrambi. «È ora di prendere un po' d'aria».

Elizabeth si volta verso di me, ammiccando. «Ti va di farmi da cavalier servente?»

Ritorno vicino al letto, le faccio passare un braccio sotto le ginocchia e l'altro dietro la schiena e la trasporto fino alla sedia a rotelle. Appena l'ho adagiata sopra, faccio per ritrarmi. Lei però mi sfiora la mano e questo basta a tenermi in ginocchio di fronte a lei, come se fossi inchiodato al pavimento da una forza invisibile.

Il sorriso dell'infermiera si allarga. «Se volete, vi lascio da soli».

«Dipende». Elizabeth mi guarda con fare innocente. «Non hai intenzione di uccidermi durante la passeggiata, vero?»

Roteo gli occhi. «Avrei dovuto capire che siete gemelle».

Spingendo la sedia a rotelle, la accompagno lungo il corridoio e usciamo da una porta secondaria che conduce al giardino. Ci inoltriamo sul selciato che si snoda tra alberi enormi e gigli profumati. Gli unici rumori sono il cinguettio degli uccelli e il fruscio del vento tra le fronde dei sempreverdi.

Elizabeth, con un giubbotto addosso e una coperta sulle gambe, comincia a interrogarmi sugli eventi di questo periodo. Le sue domande si concentrano su argomenti abbastanza superflui: i miei voti a scuola, il club di musica, come stanno i miei fratelli, se Alaric ha ancora una pesante cotta per Edric...

Con mia sorpresa, scopro che è bello tornare a pensare ad aspetti della mia vita così normali da apparire quasi banali. Man mano che parliamo a ruota libera, la sua allegria si rivela contagiosa e il macigno di inquietudine che mi ha appesantito per mesi si sgretola a poco a poco. Non mi illudo che durerà, ma per adesso mi concedo di godermi questa sensazione.

«Nessuno?» ribadisce Elizabeth incredula. «Sei il miglior pianista della Black High School e non ti hanno fatto fare nemmeno un concerto da quest'estate?»

Ridacchio. «Il tuo è un giudizio molto imparziale, immagino».

«Beh, hai l'orecchio assoluto. Sei oggettivamente facilitato».

«Sentila come sminuisce il mio talento» dico, fingendomi offeso.

Lei scoppia a ridere.

Passiamo davanti a una fontana con l'acqua che sgorga da una statua greca, identificata da una targhetta dorata sul pilastro che recita "Asclepio, dio della medicina". Sul muretto c'è un gatto nero che dorme acciambellato; non si sveglia neanche quando Elizabeth mi chiede di rallentare e gli dà una grattatina all'orecchio. Ha sempre amato gli animali.

«Sono stato io a rifiutarmi» rispondo sospirando. «Non potevo fare concerti senza la mia cantante, ti pare?»

«Potevi sempre sostituirmi».

Mi congelo sul posto. Credendo che sia perché sono stanco, Elizabeth suggerisce di fermarci nel chiosco all'ombra del portico. Dato che Liam mi ha dato qualche soldo, le offro un gelato e ci sediamo attorno a un tavolino; io su una poltroncina e lei sulla sedia a rotelle.

«Per quanto tempo andrai avanti con la fisioterapia?»

Elizabeth lecca il suo ghiacciolo all'amarena. «Un mese, forse due. Mi sto riprendendo in fretta, per fortuna».

«Che c'è, non ti diverti qui?» ironizzo con un sorriso.

«Non direi, e poi hai visto la mia camera? Mette una gran tristezza così, senza un minimo di colore. Vorrei chiedere a Jonas di portarmi dei fiori per abbellirla, ma forse tua sorella potrebbe ingelosirsi».

«Oh, ma dai. Essere gelosi di te e Jonas è l'equivalente di esserlo di me e Leen». Mi do una pacca sulla fronte, divertito. «No, pessimo paragone. Una volta l'hai scambiata per la mia ragazza».

«Idiota» sghignazza, dandomi un colpetto alla spalla. I suoi occhi si conficcano nei miei, pieni di dolcezza. «Mi sei mancato davvero tanto».

«Anche tu».

Quando quelle parole lasciano la mia bocca, ecco che il pungente e martoriante senso di colpa si ripresenta. Una famigliare morsa d'acciaio che continua a diventare sempre più soffocante, per quanto io cerchi di allentarla.

Non sapevo che fosse viva, altrimenti sarebbe andata diversamente” mi dico tra me e me. “Non l'avrei mai tradita. Avrei aspettato il suo risveglio fino al mio ultimo respiro, piuttosto”.

Ma è così? Oppure mi sarei innamorato di Keeley, in ogni caso?

Maledizione, sarebbe tutto più facile se esistesse un dannato manuale di istruzioni per i sentimenti!

«Ho saputo di Alizée, comunque» mormora Elizabeth in tono dispiaciuto.

Annuisco, restando in silenzio.

«Sei preoccupato per lei?»

«Dicono che sia fuori pericolo».

Mi scocca un'occhiata furtiva. «Questo non somiglia a un "no"».

«Dovrei esserlo?» Mi abbandono contro lo schienale, passandomi una mano sulla faccia. «A parti invertite, dubito che lei lo sarebbe per me».

«Non ci scommetterei. Anch'io ero sicura che mi detestasse, invece sono viva per merito suo». Elizabeth si scrolla la chioma argentea che le raffiche di vento le appiccicano al ghiacciolo ormai a metà. «E tu dovresti smetterla di chiederti se dovresti provare ciò che provi. Accettati per quello che sei, Klaus».

«E cosa sono?» le chiedo sarcastico.

«Un essere umano con pregi e difetti. Le emozioni non sono giuste o sbagliate, sono solo emozioni. Bellissime o devastanti, o entrambe. E, che ti piaccia o meno, non le puoi controllare».

Sbuffo. «Non mi piace».

«A me sì. Perché sarebbe terribile poter decidere chi amare». Elizabeth si avvolge meglio nel giubbotto. «Si perderebbe tutta la magia».

Le rivolgo uno sguardo carico di adorazione. Sarebbe una bugia colossale se dicessi che non la trovo ancora meravigliosa, che non mi viene da perdermi ad ammirarla o che ogni suo effetto su di me è svanito. L'unica differenza è che adesso c'è una sorta d'interferenza, l'immagine di Keeley che talvolta si sovrappone alla sua.

Ma non posso mentire sul fatto che questo è uno dei pomeriggi più felici della mia esistenza. Che sia il semplice sollievo che il destino abbia voluto restituire a un'anima così buona e candida quel futuro che le spetta... o è qualcos'altro?

«Perciò Keeley vive ancora da te, giusto?» prosegue Elizabeth, pulendo lo stecco dai rimasugli di ghiacciolo.

I miei muscoli si tendono come corde di violino. «Sta alla villa, sì. Da noi, non da me. Io non c'entro» biascico distratto.

«Però siete molto amici, no?»

Increspo le sopracciglia nella sua direzione. «Te lo ha detto Keeley?»

«Sì. Ammetto che sei stato uno dei punti della nostra conversazione». Un lampo furbesco le balena sul viso. «È emerso che nessuna delle due sopporta le tue tendenze masochiste, tra le altre cose».

Tra le altre cose.

Mi muovo sulla poltrona, a disagio. «Liz, c'è una cosa che...»

«Lo so».

Le sue allusioni sono state troppo poco velate perché questa notizia mi cogliesse alla sprovvista, ma non posso fare a meno di trasalire. Nella sua voce non ho percepito né la rabbia né la delusione che mi sarei aspettato di trovare, e anche la sua espressione sembra serena e comprensiva come al solito.

Il che mi fa stare persino peggio.

«Keeley non lo mai avrebbe ammesso di sua volontà ed è brava a mentire, lo riconosco, ma non sono cieca. Le brillano gli occhi quando parla di te. Ci ho rivisto me stessa». Elizabeth sorride, ma dai fremiti dei suoi respiri intuisco che sta trattenendo le lacrime. «Ti ama quanto ti amo io».

La vista del suo dolore è atroce, insopportabile, quindi mi metto a fissare il posacenere al centro del tavolino e le racconto tutto.

Pur risparmiandole i dettagli per non ferirla più del necessario, decido di non tralasciare nulla di quello che c'è stato tra me e Keeley in questi mesi. Merita di sapere la verità, glielo devo. Quando ho terminato di riferirle gli eventi della serata scorsa, a New Orleans, mi zittisco e per cinque lunghi minuti regna un silenzio tombale.

«Ci avevo sperato» riprende Elizabeth alla fine. «Ma non mi ero illusa che non fosse cambiato niente durante la mia assenza. Per me era solo ieri che ci baciavamo sul molo, per te no. E, anche non vorrei mai che mi dimenticassi, in parte sono addirittura contenta di sapere che qualcuno sia stato in grado di renderti felice anche senza di me. Perché ti conosco e so che ti sarai dato la colpa per ciò che mi è successo migliaia e migliaia di volte, e vederti soffrire è l'ultima cosa che voglio».

«Quando ti credevo morta, è stato come se fossi morto anch'io. Per tanto tempo mi sono sentito vuoto» bisbiglio, chinando la testa. «Keeley mi ha aiutato a ricordarmi che ero vivo».

Elizabeth mi accarezza i capelli con un gesto tenero, poi mi prende il mento e mi costringe a voltarmi verso di lei. Ha le guance bagnate e vorrei avere il potere di trasferire tutta la sua sofferenza dentro di me. «Mi ami ancora?»

«Sì».

«E ami anche lei?» chiede con un singhiozzo.

Esito un attimo. «Credo di sì».

«Io e Keeley possiamo essere completamente diverse, ma sono piuttosto certa che nessuna dei due sia disposta a dividerti».

«Liz...»

«Klaus». Il mio nome sulle sue labbra mi provoca un fremito. Si protende in avanti e mi soffia un bacio casto sulla guancia, che mi brucia la pelle al pari di un tizzone ardente. «Qualunque sarà la tua scelta, voglio che tu sappia che non andrò da nessuna parte. Non mi perderai, capito? Devi solo seguire il tuo cuore».

Sbatto le palpebre più volte e sento una lacrima calda scivolarmi sul volto. Non mi ero accorto di star piangendo. «E se non sapessi cosa vuole?»

«Ascoltalo meglio».

Faccio per replicare, ma la mia attenzione viene catturata da qualcosa in mezzo ai cespugli. Mi alzo, la raccolgo e torno da Elizabeth, inginocchiandomi per infilarle il fiore dietro l'orecchio. Tutti gli altri gigli sbocciati sono gialli, arancioni e rossi; questo è l'unico ad avere i petali di un bianco purissimo. Come le ali di un angelo.

«Sei la prima persona che io abbia mai amato, Elizabeth Storm» sussurro, fissandola negli occhi.

Lei sorride. «Non significa che sarò anche l'ultima».

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