70. MADRE
Il Saint Mary si presenta come un grazioso edificio in stile rustico costruito su una delle colline che circondano Sunset Hills. Il risultato è che, immerso nel profumo dei gigli e circondato da una vegetazione verdeggiante, somiglia più a una sorta di casolare che a un istituto medico anche piuttosto costoso. All'esterno, ci sono tavoli da picnic posti vicino a un chiosco e poltrone per rilassarsi all'ombra del portico coperto. Gli uccelli cinguettano, il vento soffia lieve tra le fronde e si sente persino il gorgoglio del fiume nascosto da un boschetto di betulle.
Tutto sommato, è un bel posto.
«Perché non c'è nessuno?» chiede mio padre, guardandosi intorno con diffidenza.
Abbiamo lasciato New Orleans alle sette di mattina e, dopo quasi quattro ore e mezza di volo in jet privato, siamo atterrati in aeroporto dove abbiamo recuperato l'auto di Alan. Essendo noi in cinque, ci siamo stati senza problemi; anche se Liam non deve aver apprezzato un viaggetto di trenta minuti stipato tra me e Klaus, io che gli davo un pugno al passaggio di ogni macchina gialla e lui assorto in un silenzio nervoso.
«Alizée avrà prenotato l'intera struttura per evitare che si spargesse la voce sul fatto che la ragazza era viva». Alan chiude lo sportello e si avvia per primo verso l'ingresso. «Hai un po' di problemi di fiducia o sbaglio?»
«Capita quando ti danno la caccia per sette anni».
Di colpo, la consapevolezza che sto per conoscere la mia gemella mi paralizza. Ho cercato di non pensarci, anzi fino a questo momento mi sono concentrata soltanto sul fatto che abbiamo amato lo stesso ragazzo o sull'impatto che questo avrebbe avuto sul nostro rapporto.
Non mi sono neanche fermata a riflettere su cosa provo a riguardo. Ho sempre voluto un fratello o una sorella, ma non era che un egoistico desiderio di avere qualcuno con cui condividere il dolore di ciò che ho vissuto. L'amore della famiglia è completamente diverso. È il voler stare insieme, non la paura di rimanere da soli.
Un tocco delicato mi sfiora la mano, riscuotendomi. Sollevo lo sguardo e incontro quello di Klaus. I suoi occhi grigi sono sufficienti a rilassarmi quanto basta per allentare un po' la stretta che mi attanaglia lo stomaco. Il resto del gruppo si è allontanato, quindi siamo rimasti da soli in mezzo al cortile.
«Stai bene, ficcanaso?» Prima ancora che io possa parlare, aggiunge in tono di rimprovero: «E non mentirmi».
«Noioso» borbotto, e le sue labbra si increspano in un sorriso. Comincio a smuovere l'erba con la punta di una scarpa, fissando il terreno. «Non so come dovrei comportarmi. Ho passato mesi con voi Hallander, ho visto quanto siete legati tra fratelli e non è una questione di sangue. Siete cresciuti insieme e avete imparato a volervi bene, a rimanere uniti, a proteggervi a vicenda. Sempre e comunque, come ripetete fino allo sfinimento».
Mi stringo nelle spalle, imbarazzata. «Io ed Elizabeth non saremo mai così. Potremo anche avere i genitori in comune, ma di fatto siamo due estranee. Magari lei nemmeno la vuole una sorella, o peggio ancora una sorella come me».
Klaus scoppia in una risatina che mi lascia spiazzata. Superato lo stupore per quella reazione, gli scocco un'occhiataccia torva. «Sono contenta che i miei drammi esistenziali ti divertano, grazie mille».
«No, non è questo. Te l'assicuro». Si piega sulle ginocchia, raccoglie un oggetto da terra, poi si risolleva. «Voglio mostrarti una cosa». Mi prende la mano, me la apre e deposita una piccola pietra sul palmo. «Ecco».
Assumo una smorfia ironica. «Wow, un comunissimo sasso! Se è il tuo regalo per il mio non-compleanno, sappi che sei un gran tirchio».
«Il giorno in cui avremo una conversazione seria al cento percento mi preoccuperò per la tua salute».
«Ho fatto una battuta del genere allo spilungone una volta, ma era riferito alla possibilità di vedergli indossare qualcosa che non sia un completo».
Klaus picchietta l'indice sulla pietra. «Quando ero arrivato alla villa da poco, Kal aveva la discutibile abitudine di lanciarmi sassi. Ed mi faceva di continuo gli sgambetti. Simon invece era più gentile e si limitava a fare commenti su quanto fossi inquietante. E se provavo anche solo a guardarli giocare, o mi scacciavano o se ne andavano loro».
«Sul serio?» replico sbigottita. «Credevo che ti avessero accettato subito. Insomma, tu lo fai sembrare così».
«Perché ormai non mi importa più. Erano bambini abituati ad avere tutto e a mettere la famiglia al primo posto che si sono trovati in casa un tipo strambo che non parlava con nessuno. Capisco che non impazzissero di gioia». Klaus mi rivolge un'espressione premurosa, i capelli biondi che splendono al sole. «Non si può pretendere che basti dire "Questo è vostro fratello". Genetica e parole contano solo in parte, il resto lo si costruisce a poco a poco».
«Può non accadere mai, però» faccio notare.
«Sì, è vero. Anch'io ero convinto che fosse impossibile, infatti volevo che Matt mi portasse via con sé. Negli anni gli sono stato incredibilmente grato per aver rifiutato». Klaus scocca un'occhiata in direzione di Liam, che ci sta aspettando sulla soglia. «Oggi non riesco neanche a immaginare una vita senza i miei fratelli. Anche se ammetto che possono essere dei rompiscatole invadenti come quello laggiù».
Sposto il peso da una gamba all'altra. «Klaus, non ti ho detto una...»
La voce mi si impiglia in gola appena le sue dita affusolate chiudono le mie attorno al sassolino. Mi accarezza le nocche con il pollice, facendomi rabbrividire di piacere. «Vale la pena tentare, Keeley».
Devo sforzarmi per ricordarmi di cosa stiamo parlando. Seguire il filo del discorso è difficile quando l'unico pensiero che riesco a formulare è quanto siano vicine le nostre bocche. O quanto non lo siano abbastanza.
Mi ritraggo di scatto, ansimante. «Ehm, sì. Okay. Dovremmo andare ora».
«Giusto» annuisce Klaus, con il respiro stranamente pesante.
«Bene».
«Perfetto».
Evitando ogni minimo contatto, ci uniamo a Liam e raggiungiamo gli altri nell'atrio. Ha l'aspetto della hall di un albergo: un salottino bar nell'angolo, finestre ad arco e un lampadario a gocce appeso al soffitto. Il soffice tappeto rosso che riveste il pavimento a mosaico conduce al bancone, dietro a cui è seduta un'anziana infermiera dall'aria gentile.
«Sono spiacente, ma non abbiamo pazienti ricoverati» sta dicendo ad Alan mentre ci avviciniamo. «In questo periodo, facciamo solo visite di controllo. Il suo amico potrebbe averne bisogno...»
Mio padre, che si stava tastando le costole con fare dolorante, muove un passo in avanti. «Mi ascolti. Questa è una brutta giornata incastonata in una lunga serie di altre brutte giornate, quindi potrebbe cortesemente andare di là e a avvertire Peter che l'uomo a cui ha rapito una delle figlie è arrivato? Grazie» conclude sprezzante.
«Mi scusi per la sgarbatezza» si intromette Liam in tono educato. «Sono William Hallander. So che mia madre avrà pagato parecchio affinché le fosse garantita la massima discrezione, ma in questo caso non è necessario. Sono sicuro che il signor Reed ci darà l'autorizzazione per entrare, se potesse andare a chiederglielo».
«Certo, torno subito». Mentre estrae un pass dal cassetto, l'infermiera abbozza un sorriso. «Mi dispiace per quello che è successo, a proposito». Esce da dietro il bancone e scompare oltre la porta a serratura elettronica.
Di sbieco vedo Klaus che si acciglia e Liam gli risponde con uno sguardo rassicurante che sembra dire "Ti spiegherò tutto dopo". Allora mi rendo conto che nessuno gli ha ancora raccontato dell'incidente.
Alan incrocia le braccia sul petto. «Abbiamo stabilito delle regole, Max».
«Sì sì, devo essere carino e coccoloso» sbuffa mio padre annoiato, rubando una matita dal portapenne sulla scrivania. Strappa un post-it dal blocchetto accanto al monitor e inizia a disegnarci. «Comunque, per te sono Maxwell. Solo le persone che mi piacciono possono chiamarmi Max. Tu per adesso rientri nella lista "irritante, ma utile allo scopo"».
«Beh, cerca di tenere a freno questo tuo caratteraccio con Peter».
«In realtà, tutti mi definiscono simpatico e di piacevole compagnia».
«Ti definiscono anche uno stronzo» bofonchia Alan.
Liam aggrotta la fronte. «Tu e Stefan non vi siete ancora mai incontrati di persona?»
«Non negli ultimi diciassette anni, no. Mi portava da mangiare nel tugurio che ho usato come nascondiglio da quando Keeley è arrivata a Sunset Hills, ma è stato attento a non incrociarmi». Mio padre ficca in tasca il pezzo di carta e osserva il ragazzo per un secondo, soffermandosi sulla cravatta annodata alla perfezione e la giacca blu che ricade impeccabile sulle spalle larghe. Infine sogghigna. «Non ti avrà cresciuto Mike, ma di certo hai ereditato il suo stile».
La porta si apre di nuovo e l'infermiera ci fa un cenno. «Prego. L'ultima stanza sulla destra».
«Dovreste andare prima voi. Siete la sua famiglia» obietta Klaus, dopo essere rimasto in silenzio per tutto il tempo. Intuisco subito che è turbato. «Io vado a prendere una boccata d'aria». Si volta e si indirizza verso l'uscita a rapide falcate.
«Fratello» lo chiama Liam, seguendolo fuori senza esitare.
Io e mio padre ci guardiamo un istante; è quasi confortante vedere la mia stessa ansia riflessa sul suo volto, ma trasformata in una paura persino più logorante. Per me è la sorella di cui non sapevo neppure l'esistenza, per lui la figlia che ha perso diciassette anni fa.
Lasciamo l'atrio e proseguiamo lungo il corridoio con Alan che cammina dietro di noi. Ci accompagna solo fino a metà strada, poi mi dà un'incoraggiante buffetto sulla schiena e si ferma vicino a una delle bifore che si aprono su uno stupendo giardino con fontane e siepi.
Stefan è seduto sulla panchina in fondo, davanti alla camera. Quando ci vede arrivare, balza in piedi. Rispetto al nostro ultimo incontro ha un aspetto meno trasandato; si è rasato le barba, le occhiaie sono sparite e sembra persino ringiovanito.
«Ciao, Keeley. Maxwell» esordisce, passandosi una mano nei capelli scuri. «È dentro. C'è anche Jonas con lei. L'ho chiamato oggi, visto che con me si rifiuta di parlare».
«Chissà perché» ribatte mio padre acido.
«Allora è per questo che dormivi poco e puzzavi di ospedale». Inarco un sopracciglio. «Avevi detto di dover badare la "figlia di una cara amica" in ospedale. Invece dovevi stare con Elizabeth».
«Si è risvegliata dal coma pochi giorni fa. È la ragione per cui mi sono assentato da scuola, non volevo lasciarla da sola». Stefan mi fissa con i suoi occhi di un azzurro limpido. «Non era del tutto una bugia, la mia. Anche se tua madre era più di una cara amica, era una sorella per me».
Mio padre si irrigidisce. «Che tenero. E, secondo te, cosa penserebbe Elaine del tuo scherzetto di separare le sue figlie alla nascita?»
«Se fosse stata viva, non l'avrei mai fatto». Un lampo di tristezza balena sul volto del professore. «E nemmeno se tu mi avessi ascoltato. Non mi hai lasciato scelta».
«Mi stai dando la colpa?» sbotta mio padre, serrando i pugni. «Tu non avevi nessun diritto di portare via mia figlia! Né tu né tantomeno Alizée!»
«Maledizione, Maxwell! Non voglio far passare le mie azioni per giuste, perché ho sbagliato e lo ammetto». Stefan gli punta un dito al petto, dove la fede gli pende all'estremità di uno spago. «Ma fatti un esame di coscienza, ripensa a ciò che eri all'epoca e dimmi: avresti mai affidato due neonate a uno come te?»
Nonostante sia ancora ammaccato dallo scontro con Vincent, mio padre lo sbatte contro il muro con uno scatto così rapido che quasi non me ne accorgo. Lo tiene inchiodato con una mano alla gola ed è sul punto di colpirlo con l'altra, ma si blocca al suono della mia voce.
«Papà, no! Non azzardarti!» Devo essere sincera: non so il motivo per cui lo sto difendendo. Forse perché non ho dubbi che, se mia madre fosse qui, farebbe la stessa cosa o vorrebbe che lo facessi.
«E ti meravigli che nessuno credesse che saresti stato un buon padre?» esclama Stefan. È la prima volta che lo vedo perdere la pazienza. «Eri uno stronzo egoista ed egocentrico sempre in mezzo a risse, alcol e guai di ogni genere! Elaine e Michael erano gli unici con cui ti sforzavi di essere una persona decente, perché eri così e non mi sembri cambiato: al di là di quei pochi eletti che hanno l'onore di significare qualcosa per te, degli altri non te ne frega nulla. Non puoi mostrare a tutti solo il peggio e aspettarti che vedano anche il meglio».
«Divertente che la predica mi venga fatta da uno che è stato innamorato di Vincent Waylatt per anni!»
Stefan diventa rosso come un pomodoro. «È proprio per questo. Ho provato sulla mia pelle che certa gente non cambia, non importa quanto si cerchi di aiutarla. Elaine era convinta che tu fossi un'eccezione, ma è morta e io non ero disposto a mettere in pericolo due bambine innocenti per scoprire se avesse ragione o meno».
Alan arriva di corsa, afferra mio padre per la maglia e lo spinge lontano dal professore, frapponendosi tra i due. «Accidenti, Maxwell! Siamo in una clinica!»
Con mia grande sorpresa, lui non oppone resistenza né reagisce.
Mi chiedo se anche gli altri riescano a leggere la sofferenza impressa nel suo sguardo. Un dolore palpabile che mi fa desiderare di poterlo abbracciare come quando ero piccola e mi illudevo che questo bastasse a guarire le sue ferite.
«Ti avrei aiutato a crescerle, Maxwell. Dovevi soltanto fidarti di me». La voce di Stefan è piena di rimorso, di rabbia, di nostalgia per ciò che poteva essere e non è stato. «Invece hai deciso che le avresti portate via dalla città, che te ne saresti occupato da solo. Non sapevo dove volessi andare e avevi appena perso la donna che ti spingeva a voler essere migliore. Ho commesso tanti errori, ma anche tu hai le tue responsabilità».
«Senti, ora puoi continuare a litigare e darmi una scusa per arrestarti. Oppure andare da tua figlia» lo minaccia Alan con fermezza. «La scelta è tua».
Mio padre si volta verso la porta a riquadri di vetro satinato e stringe la maniglia, ma rimane immobile senza trovare il coraggio di abbassarla. Si mordicchia il labbro, lo stesso gesto che faccio io quando sono nervosa, lanciandomi un'occhiata che mi provoca un tuffo al cuore. Per quanto sia arrabbiata con lui, questo non è cambiato: ancora non sopporto di vederlo stare male.
Mi avvicino, poso la mano sulla sua e apriamo.
Ad accoglierci è una voce femminile. «Oh no, non te la caverai con così poco! Devi darmi tutti i dettagli!»
«Puoi scordartelo, Liz».
Elizabeth dà una gomitata giocosa al ragazzo. È sdraiata su un lettino con lenzuola bianche tirate su fino alla vita e un camice da ospedale addosso. Malgrado già sapessi della nostra somiglianza, dal vivo l'impatto è impressionante: una lunga chioma argentea sparsa sul cuscino, il viso leggermente tondeggiante, il naso piccolo e sottile, gli occhi che scintillano come pietre d'ambra... A parte alcuni dettagli nei lineamenti, e i miei capelli tinti, siamo praticamente identiche.
Al nostro ingresso Jonas, steso accanto a lei, solleva la testa con un atteggiamento protettivo. Appena mi riconosce, si rilassa e mi saluta con un cenno; ha dei cerotti sulla faccia e lo zigomo ancora gonfio, ma il suo sorriso è raggiante di felicità.
A quel punto, Elizabeth si gira e un guizzo di sorpresa le balena nello sguardo. «Oh» mormora, cercando di sistemarsi meglio sul materasso. Sembra avere difficoltà nei movimenti, probabilmente a causa del coma. «Tu devi essere Keeley».
Dato che il mio serbatoio di sarcasmo e risposte sagaci si è improvvisamente esaurito, mi limito ad annuire.
«Wow». Mi esamina con attenzione per un secondo, poi arrossisce. «Scusa, devo darti l'impressione di una psicopatica. È strano pensare di avere una sorella...»
«Già».
«Beh, ehm, vieni pure».
Camminando lentamente, avanzo fino a prendere posto sulla sedia vicino al comodino. È scomoda, lo schienale duro e devo reprimere l'istinto di schizzare via. Al confronto mettermi in ridicolo cantando una canzone stonata da ubriaca, in un locale pieno di estranei, è stato molto più semplice.
«Non so se te l'hanno detto, ma ho chiamato io l'ambulanza. Dopo il tuo incidente, intendo».
Emetto un mugolio d'assenso, farfugliando un esile: «L'avevo capito».
Qualcuno ponga fine a questa tortura.
Trovandosi in difficoltà, Elizabeth si gira verso Jonas in una tacita richiesta di soccorso. «Ehm sì. Le ho raccontato un po' di cose su di te, o ci ho provato. Non è che...» Si raddrizza di scatto, guardingo. «E lui sarebbe?»
Anche mio padre è entrato nella stanza, chiudendo la porta dietro di sé. A giudicare dal modo in cui fissa il pavimento, il capo chino e le spalle incurvate, è ovvio che l'agitazione lo stia dilaniando.
Elizabeth gli fa un sorriso forzato, anche se posso avvertire il suo respiro farsi più pesante. «Ciao».
Jonas capisce al volo e si alza. «È meglio se vi lascio parlare» dice, recuperando la giacca di pelle dal divanetto nell'angolo. Dà una buffetto affettuoso a Elizabeth, mi ammicca e se ne va.
Mio padre si scansa per farlo passare. Rimasti soli, finalmente dardeggia gli occhi prima su di me e poi sulla mia gemella. «Ciao» bisbiglia. Nella sua voce c'è la stessa disperata fragilità che sentivo ogni volta che gli facevo domande sulla mamma, in passato. «Io sono...»
«Lo so. Maxwell Storm».
Anche se la nasconde, percepisco tutta la bruciante delusione che deve aver provato nell'essere chiamato per nome e cognome da sua figlia.
«Stefan mi ha spiegato la situazione. Cioè Peter, o come si chiama in realtà» chiarisce Elizabeth, con le guance ormai paonazze. «Questa storia è così strana che devo ancora digerirla, mi dispiace».
«Non hai nulla di cui dispiacerti. Non tu» si affretta a dire mio padre. Si ferma in fondo al letto, ciondolando sulle gambe come un adolescente nervoso per il suo primo appuntamento.
«So che sei un'artista».
«Sì, è la mia più grande passione. Ho insegnato a dipingere anche a Key. A te piace?»
Elizabeth ridacchia. «Adoro l'arte, ma faccio schifo a disegnare. Me la cavo con gli stickman, però, valgono?»
«Oh beh, è un buon punto di partenza. Mai sottovalutare il fascino degli omini stilizzati» risponde lui serio, ottenendo in cambio un sorriso.
«Un giorno potresti mostrarmi qualche tuo dipinto» gli propone Elizabeth, poi mi ammicca con fare complice. «Anche tu. Così vediamo chi è più bravo».
«Palesemente io» affermo convinta.
«Palesemente» ripete mio padre, facendo una risatina. Si accascia sul bordo estremo del materasso, stando attento a non avvicinarsi troppo alla ragazza. Tira fuori dalla tasca il foglietto accartocciato su cui disegnava nell'atrio e glielo porge. «È solo uno scarabocchio, ma ecco a te».
Elizabeth lo prende e lo liscia; i suoi movimenti sono incerti e un po' goffi, è ovvio che le servirà una lunga riabilitazione prima di potersi riprendere del tutto. «Accidenti. Vorrei saper scarabocchiare così bene» commenta ammirata. «È stupendo. Che fiore è?»
Mi sporgo in avanti per vederlo anch'io. Pur essendo solo una bozza a matita, i contorni sono già netti e ben definiti, la sagoma riconoscibile. «Il fiore di Kadupul. La regina della notte».
«L'ho sempre associato a vostra madre».
Vostra madre. Mi fa ancora un certo effetto.
«A proposito». Con uno sforzo, Elizabeth riesce ad allungare il braccio verso il comodino. Decido di aiutarla e apro il cassetto al posto suo, restando scioccata quando vedo che all'interno c'è il mio scrigno che avevo lasciato nella tenuta dei Blackwood. «Me l'ha portato Stefan stamattina. So che è tuo, Keeley, non avrei dovuto ficcare il naso, ma ha detto che è appartenuto alla mamma e non so quasi niente di lei...»
Deposito il piccolo baule sulle mie gambe. Ho sempre impedito a chiunque, eccetto papà, di sfiorarlo e anche adesso provo un moto di fastidio. Ma seppellisco subito quel sentimento, accettando che è del tutto ingiustificato.
«Non è mio, è nostro. Lo ha lasciato a noi».
Elizabeth annuisce, rassicurata dalle mie parole. «Però non credo di aver capito cosa siano quelle cose» ammette confusa.
Scrollo le spalle. «Se ti consola, nemmeno io».
«Sono pezzi del suo passato. Soltanto gli eventi degni di essere ricordati o le persone che sono state importanti nella sua vita». Mio padre mi fa cenno di passargli lo scrigno. Lo apre e pesca a caso dal suo contenuto un pettine verde fluo. Fa una smorfia divertita. «Questo era un orrendo regalo di Céline, fatto quando erano bambine. Ha sempre avuto pessimi gusti, quella donna». Poi estrae un rametto a forma di bacchetta. «Oh, questa l'avevo intagliata io. Era scoppiato da poco il fenomeno di Harry Potter e me la portavo sempre dietro. Elaine me l'ha ritirata perché avevo il vizio di metterla nel naso alla gente».
Lo dice con un tono così orgoglioso di sé che Elizabeth scoppia a ridere e io, pur tentando di trattenermi, la seguo a ruota. Non l'ho perdonato, forse non lo farò mai, eppure non riesco a non essere felice che sia qui, con me, finalmente riuniti.
È il turno di una spilla in oro rosso. «Un dono di Alizée, per il nostro fidanzamento. Ce n'era un'altra identica ed erano abbinate a una collana, ma non so dove siano». I resti di una tazzina. «Era di vostra nonna. Peccato si sia rotta, era carina: a forma di gatto. Aveva un'ossessione per i micetti». Il seguente è una pagina giallastra. Un lampo malizioso gli guizza sul volto. «No, questo non posso raccontarvelo».
«Ehi, scordatelo! Pretendo di sapere!» protesto, incrociando le braccia.
«Sul serio? Volete i dettagli della prima volta mia e di vostra madre?»
«E che c'entra il libro con...»
Elizabeth avvampa. «No no, niente dettagli».
Mio padre sfodera un ghigno. Quando prende un altro oggetto dal bauletto, all'improvviso il suo buonumore si dissipa alla velocità di un battito di ciglia e rimane a osservare il coltellino svizzero tra le sue dita, ammutolito. Accarezza la scritta incisa sul manico viola con la sua proposta di matrimonio, il dolore che si insinua nel verde sempre più lucido dei suoi occhi.
Sono sette anni che sogno di stringerlo di nuovo e ora potrei, e farebbe stare meglio entrambi, invece mi ritrovo a lottare contro l'impulso di abbracciarlo. Forse perché una parte di me, quella ferita e arrabbiata, non vuole che pensi che sia tutto sistemato; non dargli affetto è l'unico modo che ho per dimostrargli un odio che, nel profondo, so di non provare.
«Possiamo continuare più tardi. Tanto ormai è ora del pranzo» interviene Elizabeth premurosa. Allunga la mano per sfiorare quella di nostro padre, ma un attimo dopo la lascia ricadere sulle coperte, vinta dalla timidezza. Comprensibile: dal suo punto di vista, è quasi un estraneo. «Ma se vuoi venire, ogni tanto, se ti interessa conoscermi meglio... sappi che per me va bene».
Riscuotendosi, lui assume un'espressione perplessa come se non si fosse aspettato quella richiesta. «Certo». Rimette dentro il coltellino, si alza e raggiunge la porta. Si blocca e si volta, guardandoci tutte e due con una tempesta di emozioni nello sguardo. «Non vi ho abbandonate, non di mia volontà. E vi voglio bene. Avete il diritto di non credere a nulla di ciò che dico, ma non dubitate mai di quanto io vi ami». Ed esce senza darci il tempo di ribattere.
Elizabeth si strofina un lembo del camice sulla guancia. «Sembra un bravo padre» mormora con la voce incrinata.
Socchiudo le palpebre, prendendo un lungo respiro. Mia sorella –devo ancora abituarmi a considerarla così– afferra lo scrigno di legno e comincia a rovistare al suo interno. So cosa sta cercando ancora prima che nella sua mano compaia la lettera stropicciata che era incastrata sul fondo.
«Ti va di leggerla insieme?» mi domanda, facendomi spazio sul letto.
Un'ondata di gratitudine mi investe: so che non avrei mai avuto la forza di farlo da sola. Vorrei ringraziarla, invece rispondo con un cenno d'assenso e mi sdraio sopra le lenzuola, la testa accanto alla sua sul cuscino.
Elizabeth rompe il sigillo di ceralacca, spezzando il cuore alato che racchiude le nostre iniziali: la E del suo nome e la K del mio. La dispiega con cautela e scopriamo che, anche se l'inchiostro è un po' sbavato, le parole si distinguono ancora chiaramente. Il testo è lungo, scritto con una grafia minuziosa e delicata.
Io e la mia gemella ci scambiamo un'occhiata, mi rivolge un sorriso incoraggiante e leggiamo.
Alle mie bambine.
Ho pensato a lungo a come iniziare questa lettera, infatti ho stracciato talmente tanti fogli che la mia amica Céline mi si scaglierebbe contro con tutta la sua ira di fervente ambientalista se lo sapesse. Alla fine, mi sono resa conto che dovevo soltanto lasciare che fosse il mio cuore a guidare la penna; non si può sbagliare quando si parla di amore.
Così, ho deciso di cominciare raccontando una storia, la mia storia. O meglio, la nostra.
Quando avevo sedici anni, sono andata in ospedale per un malore. Non risultò essere nulla di grave, ma in quell'occasione emerse da alcuni esami che avevo dei... problemi e mi dissero che le mie probabilità di avere figli erano pressoché zero.
Nella vita, io ho sempre avuto solo due sogni: diventare una giornalista e diventare una madre. Il secondo mi venne strappato quel giorno, o almeno era ciò che credevo.
Fu allora che conobbi vostro padre. Tutti continuavano a ripetere che era un ragazzo problematico, persino pericoloso, e da cui era meglio stare alla larga. Lo definivano una causa persa, e lui si impegnava davvero tanto per apparire tale.
Nonostante lo trovassi insopportabile, odioso e volessi prenderlo a calci più di quanto volessi baciarlo, per me era diventata una sorta di sfida. Avevo bisogno di dimostrare che, nascosto sotto strati e strati di ironia e rabbia e indifferenza, c'era un animo buono che voleva soltanto essere capito.
Alizée, la mia sorella mancata, lo chiama “spirito da crocerossina”, io preferisco ritenerla pura e semplice testardaggine.
Non vi mentirò: il mio non è stato amore a prima vista. E neanche un amore facile. Ma quando si ha la fortuna di incontrare qualcuno che prova per te lo stesso sentimento così forte, così vero, così autentico che senti nei suoi confronti, si deve combattere con tutte le forze per difenderlo.
E da questo amore venne il miracolo: ero incinta.
Avevo poco più di vent'anni e confesso che mi sembrava troppo presto, ma sapevo di avere ricevuto un dono incredibile e che, se ci avessi rinunciato, non ne avrei avuto un altro.
Per questo vi ho tenute, piccole mie, pur essendo consapevole che potrei non vivere abbastanza da tenervi tra le mie braccia.
Non ho paura di ciò che mi aspetta. Perché, anche se non so se vincerò la guerra, non ho il minimo dubbio che voi valete tutte le battaglie. E questo mi dà il coraggio di svegliarmi ogni mattina e lottare per voi.
Non ho paura neanche per il vostro futuro. Perché ho l'assoluta certezza che il vostro papà farà qualsiasi cosa per darvi una vita meravigliosa e completa, e si prenderà cura di entrambe fino al suo ultimo respiro.
La verità è che ho paura per noi.
Ho il terrore per ciò che potreste non avere mai: l'amore di una madre. Il terrore di perdervi senza che sappiate ciò che avete significato per me, quanto profondamente io vi abbia amate.
Quindi eccomi qui, a scrivere una lettera che spero non leggerete mai.
Ma se invece la state leggendo, vi prego non sentitevi in colpa. Non pensate neanche per un secondo che io sia morta a causa vostra: non siete nate dalla mia morte, siete nate dal mio amore.
Anche adesso, seduta in quella che sarà la vostra cameretta, vi sento scalciare nella pancia e sorrido al pensiero che siete già delle piccole guerriere. Non avete ancora emesso il vostro primo vagito, eppure siete diventate la parte più bella e viscerale di me. Voi non potrete ricordarvi di questi mesi nel mio grembo, ma io sì.
E se vi dedico questa lettera è perché voglio che possiate sentire il mio cuore che batte tra queste parole. E batte per voi, e continuerà a battere dentro di voi quando non ci sarò più.
Vorrei tanto potervi vedere crescere, accompagnarvi a scuola per il vostro primo giorno, assistere alla cerimonia del vostro diploma e vedere vostro padre accompagnarvi fino all'altare.
Vorrei insegnarvi ad andare in bicicletta, a guidare la macchina o a cucinare... o forse questo lo insegnereste voi a me, perché io sono proprio negata (l'ultimo volta che ho fatto i biscotti, Max aveva l'aria di un condannato a morte).
Vorrei essere presente alla vostra prima cotta e consigliarvi cosa indossare al vostro primo appuntamento. Vorrei esserci ogni volta che cadrete, così da potervi aiutare a rialzarvi.
Vorrei rimboccarvi le coperte e raccontarvi le favole della buonanotte, quelle dove il bene vince sul male e c'è sempre un lieto fine.
Ma il destino potrebbe aver tracciato un percorso diverso per noi. Diverso, non separato. Perché niente potrà mai separarci davvero.
Magari non mi vedrete, ma sappiate che sarò con voi in ogni istante della vostra vita, sarò lì a guidarvi nel tortuoso cammino che vi porterà a essere le donne straordinarie e forti che siete destinate a diventare. Come un angelo custode che veglia in silenzio sui suoi due piccoli, insperati, stupendi e tanto desiderati tesori.
Vi amo più intensamente di quanto credevo si potesse amare. Più di quanto abbia mai amato me stessa. Siete la mia anima e, finché continuerete a vivere, anch'io vivrò: a prescindere da ciò che accadrà, mi avete resa immortale semplicemente esistendo.
Rimanete sempre unite, proteggetevi e amatevi a vicenda. E, per favore, ricordate a vostro padre che innamorarsi di un'altra donna non significa avermi dimenticata, solo essere andato avanti: non permettetegli di vivere nel passato.
Concludo augurandovi di vivere una vita lunga, piena, senza rimpianti e con tanta gioia, ma anche un pizzico di tristezza. Perché purtroppo si deve anche soffrire, piccole mie; solo con il dolore potrete imparare a riconoscere la vera felicità. Non esiste felicità senza sofferenza.
E un giorno, il più lontano possibile, noi ci abbracceremo per la prima volta e potremo essere una famiglia.
Fino ad allora, vi dico addio.
La vostra mamma.
Angolo Jedi
Lo so, questo capitolo è terribile. Ho impiegato più di tre settimane per scriverlo, ma sono delusa dal risultato. La verità è che rappresenta una situazione molto complicata e ho cercato di capire il più possibile cosa si può provare, quando una famiglia distrutta torna insieme per la prima volta.
Forse non l'ho resa abbastanza credibile, ma abbiate pietà. Ci ho provato.
Chiedo scusa anche se la lettera dovesse risultare troppo lunga o con qualche ripetizione. L'ho scritta quasi tutta di getto, esattamente come immagino abbia fatto la stessa Elaine, quindi non mi sembrava giusto correggerla. Doveva venire dal cuore.
Comunque, volevo solo avvisare che ormai mancano pochi capitoli della storia. Siamo sempre più vicina alla fine di questa avventura e sono davvero grata a tutti voi che ancora siete con me. Grazie, significa più di quanto crediate.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top