69. I DON'T THINK I CAN SAVE YOU
Prendo un respiro profondo, poi ne faccio un altro... e me ne vado.
No, okay, non è vero.
Abbasso lentamente la maniglia, sgattaiolo dentro in punta di piedi e richiudo cercando di fare il meno rumore possibile. Nonostante sia ancora primo pomeriggio, le tapparelle sono abbassate quasi del tutto e solo una flebile luce rischiara la camera. Una figura lunga e snella è distesa sul letto matrimoniale, avvolta nelle coperte tirate fin sopra la testa, ma anche al buio i suoi capelli risplendono come un'aureola dorata che spunta sul cuscino.
Tolte le scarpe, mi avvicino in silenzio. O almeno ci provo, dato che inciampo su uno zaino buttato a terra e devo fare un paio di saltelli per recuperare l'equilibrio, evitando di cascare addosso a Klaus. Dall'esterno proviene un frastuono attutito di musica jazz, grida e clacson; nonostante la confusione, il suo respiro lento e regolare mi suggerisce che è immerso in un sonno profondo.
«Stai bene?»
Il cuore mi balza in gola e mi volto di scatto. I miei occhi, che si sono ormai abituati alla scarsa illuminazione, individuano subito il profilo di Liam sulla poltrona nell'angolo.
«Stavo meglio prima che tu mi facessi venire un infarto!» sussurro indignata. «Dovresti girare con un campanellino appeso al collo».
Lui non risponde. Il suo volto è immerso nella penombra, lo sguardo fisso sul piccolo oggetto che rigira tra le mani. Ci metto qualche secondo a capire che è l'anello con il leone. Grazie al microchip impiantato sotto la pietra d'onice, che ha registrato la confessione di Vincent sul reale svolgimento dei fatti nella notte della presunta morte di Elizabeth, Klaus potrà essere scagionato da tutte le accuse.
«Hai notizie di tua madre?»
«No» sospira lui, dopo un secondo di esitazione. Dal suo tono schivo deduco che non muore dalla voglia di affrontare l'argomento.
Gli do le spalle, mi siedo sul bordo del materasso e scosto un poco le lenzuola. Klaus è sdraiato sulla pancia con il braccio sinistro piegato ad arco sopra la testa. Ha una guancia gonfia, entrambi i polsi scorticati e la schiena è solcata da un intrico di tagli lunghi e sottili, sferzate rosse che spiccano sulla sua pelle d'alabastro. Segni di una cintura.
Ne sfioro delicatamente una e sento lo stomaco ribaltarsi con violenza quando lui reagisce emettendo un debole mugolio. «Dovevamo lasciarglielo uccidere» ringhio, assalita da un misto di orrore e rabbia.
«Se ne sarebbe pentito» replica Liam pacato. «E, visto il suo stato, non ero sicuro su cosa avrebbe potuto fare dopo...»
Aggrotto la fronte, voltandomi. «Per questo lo sorvegli?»
«Voglio evitare che escogiti qualche nuovo metodo per farsi del male. È un suo talento naturale, si direbbe». Esala un altro lungo sospiro, guardando il fratello con un affetto infinito che mi fa quasi provare un moto d'invidia. Se le cose fossero andate diversamente, forse anche io ed Elizabeth avremmo potuto avere un legame così forte, incondizionato e indistruttibile. «E io l'ho aiutato a farlo, da vero sciocco».
Per un attimo, ripenso all'indifferenza con cui ha incassato la provocazione di Vincent di essere responsabile, in parte, delle sofferenze di Klaus. Di un passato che sarebbe spettato a lui. Ha scoperto che l'uomo che ha creduto lo stupratore di sua madre e odiato per gran parte della vita è il suo padre biologico, eppure non ha fatto una piega nemmeno per questo.
Non posso fare a meno di chiedermi quanto ci sia di autentico nella facciata di calma impeccabile e pazienza imperturbabile che continua a esibire.
«Non è colpa tua. Non potevi sapere che ti aveva mentito su data e luogo dell'incontro né che era convinto di essere un pazzo omicida. Cosa su cui solamente lui potrebbe avere dei dubbi, tra parentesi».
Liam si alza e, chiudendosi il bottone della giacca, dichiara conciso: «Te lo affido. Non lasciarlo da solo, per favore».
«Sul serio?» lo incalzo con un ghigno beffardo. «Stando a Vincent, potrei approfittarmi del tuo fratellino drogato e vulnerabile, prima che se ne torni dalla mia gemella perduta».
Liam si ferma con una mano sulla maniglia. «Avete molto in comune voi due». Abbozza un sorriso amareggiato. «Vedete il meglio l'uno nell'altra, ma il peggio in voi stessi».
Non dico nulla, limitandomi a osservare Klaus che si agita leggermente nel letto. Mentre si sposta a fatica sul fianco, sempre rivolto verso di me, i muscoli dell'addome e delle spalle si contraggono e assume una smorfia sofferente. La mia attenzione è attirata dai lividi violacei che gli coprono le costole e poi dalla garza sul petto, vicino alle piccole cicatrici bianche delle vecchie bruciature.
«So che non è stato sincero con te, Keeley, ma cerca di non giudicarlo troppo severamente. È più bravo a punirsi che a perdonarsi». Quando apre la porta, una lama di luce squarcia la semioscurità della camera per un istante.
Ascoltando i passi di Liam che si allontanano nel corridoio, mi sembra di sentire la voce di Vincent che mi riecheggia fastidiosa nella mente. "La Storm che ama davvero", così aveva definito Elizabeth. E, anche se il suo intento era quello di ferirmi, non sono sicura che sia andato troppo lontano dalla verità.
Mi stendo accanto a Klaus sotto le coperte, puntellata su un gomito con il capo poggiato sul palmo. Mi accorgo che il suo respiro sta accelerando e ha iniziato a contorcersi con fare irrequieto.
Una parte di me vorrebbe disperatamente stringerlo, ma mi trattengo. Dopo ciò che ha passato con Vincent, ho paura che toccarlo possa peggiorare la situazione, piuttosto che aiutarlo. «Sono con te. Tranquillo» mormoro, mettendomi sdraiata in parallelo a lui. Vederlo stare male mi provoca un dolore quasi fisico.
Klaus si rannicchia tremante contro di me, cogliendomi alla sprovvista. Rimango immobile per un secondo, poi con cautela prendo a scostargli le ciocche bionde dalla fronte sudata. All'inizio viene scosso da uno spasmo spaventato e si irrigidisce, ma a poco a poco sembra capire che le mie carezze non hanno nessuna intenzione di fargli male e si rilassa sempre di più.
Le sue palpebre si dischiudono lentamente e mi ritrovo a fissare due schegge di un argento limpido, velate di stanchezza; avevo dimenticato quanto fossero stupendi i suoi occhi.
Schiocca le labbra, deglutisce e sibila in tono esausto: «Scusa».
«Ho già stilato una lista lunghissima di cose per cui devi scusarti, biondino. Ma mi arrabbierò con te più tardi». Faccio scivolare l'indice lungo la curva morbida della mascella, provocandogli un fremito. «Posso smettere, se ti dà fastidio».
La bocca gli si piega in un sorriso tenero e devo lottare contro il desiderio di baciargli la fossetta formatasi in un angolo. «Mi fido di te».
Il fiato mi si mozza in gola. Non è la prima volta che me lo dice, ma c'è qualcosa di diverso nella sua voce. Una sorta di abbandono spensierato, come se mi avesse fatto notare un'ovvietà. E sapere di riuscire a farlo sentire al sicuro, protetto, nonostante tutta la crudeltà e la violenza che ha subito da coloro che avrebbero dovuto amarlo... è una sensazione bellissima. Unica.
Klaus richiude gli occhi, accoccolandosi con il volto affondato nel mio collo. «Mi sei mancata» sospira sereno, e crolla di nuovo addormentato.
Lo avvolgo con un braccio e mi perdo ad ammirarlo per un tempo che mi pare infinito. Il suo corpo, affusolato e flessuoso, è un connubio perfetto di contrasti eleganti e grazia felina. È quasi ironico che sia lui l'unico a non rendersi conto della propria perfezione, allo stesso modo in cui non si accorge di quanto pura e meravigliosa sia la sua anima.
Forse, è la ragione -o meglio, una delle ragioni- per cui disprezzo Vincent in maniera così viscerale. Non potrei mai perdonarlo per la violenza fisica che gli ha causato, ma è soprattutto la consapevolezza di quello che gli ha tolto che mi spinge a odiarlo con tutte le mie forze.
La possibilità di amare sé stesso. Di accettarsi come essere umano degno di amore, piuttosto che come il frutto marcio di uno stupro che accoglie ogni gesto d'affetto come un dono concesso.
«Farò ciò che è meglio per te, Klaus» gli bisbiglio all'orecchio.
Appoggio il mento sulla sua nuca e inalo il profumo di shampoo dei suoi capelli. A ogni suo respiro, un fiotto d'aria calda mi solletica la pelle sensibile della gola. Gli poso una mano sul torace e mi lascio cullare dal battito ritmico del suo cuore, tenendomi pronta a calmarlo se gli incubi dovessero ripresentarsi.
Trascorro le ore successive così, a contemplarlo e abbracciarlo mentre una domanda mi tortura senza tregua: ha capito che ero io, o mi ha scambiata per Elizabeth?
Ma, in fondo, non è importante. Non più.
«Un altro giro, baby» bofonchio, sbattendo la mano sul bancone.
Il barman, un giovane piuttosto attraente dalla pelle scura e i capelli ricci, mi fissa perplesso per un secondo, prima di afferrare la bottiglia di bourbon mezza piena. «Non devi guidare, vero?»
«Per andare dove?» Incrocio le braccia sul ripiano di legno sporco e vi poso sopra la testa. «Non ho una casa».
«Che è successo? Problemi con i tuoi?» mi chiede il ragazzo, restituendomi il bicchiere.
Osservo il liquido ambrato al suo interno e comincio a rimescolarlo pigramente. Di colpo nella mente riaffiora il ricordo di una serata simile a questa, quando Klaus è venuto a prendermi per riaccompagnarmi alla villa. In realtà, a parte il mio stato depressivo, non c'è nulla in comune. Nessun idiota allupato che vuole approfittarsi di me e il locale in cui mi trovo, il Vampire, è ben lontano dallo sfarzo e dal lusso della Taverna. Un postaccio scadente con le sedie traballanti e il pavimento unto e sporco, ma che ha due grandi pregi: non controllano la carta d'identità e l'alcol è ottimo.
È stata la prima volta che io e Klaus abbiamo dormito insieme, anche se per un caso del tutto fortuito. Ed è stata la prima volta che si è fidato di me, raccontandomi la sua storia in forma di favola.
«Ti sei mai innamorato, Jimmy?»
«Io mi chiamo...»
«Fingi di sì» proseguo ignorandolo. «Immagina di tenere a una persona più che a chiunque altro al mondo. Non la conosci da molto, ma ti è entrata nel cuore come se vi foste sempre appartenuti. Dovrebbe essere una bella sensazione, no?»
Lui fa un cenno d'assenso, un po' sconcertato.
«Invece no».
«Ah no?»
«Hai presente quel gioco in cui si mischiano tre campanelli e devi indovinare in quale è nascosto il dado? Sembra facile, ma è una fregatura. Il dado viene tolto e, senza che tu te ne accorga, hai già perso a prescindere dalle tue azioni. Ecco, questo è l'amore. Una truffa». Mi raddrizzo e bevo un lungo sorso di bourbon. «Comunque, dicevamo. Sei innamorato di questo tipo».
«Io?» ripete il barista.
«Non tu, io! Ma nell'esempio sei tu! Stai sul pezzo, insomma!» Gli schiocco le dita davanti alla faccia. «È un ragazzo meraviglioso, dolce, un pelino irritante. E masochista, molto masochista. Ha sofferto tanto e faresti qualsiasi cosa per renderlo felice».
Poso il bicchiere vuoto e, con un brusco movimento del capo, gli faccio segno di versarne ancora. «Ma anche tu hai sofferto. Sei diventato insensibile, egoista, un vero stronzo sotto certi aspetti. Non capisci la gente e la gente non capisce te. Scappi sempre dai tuoi sentimenti, perché tra sei anche un gran vigliacco. Quindi dimmi: sei adatto per aiutare quel ragazzo? Per salvarlo dai suoi demoni?»
Jimmy si guarda intorno, ma le sue speranze si infrangono quando si rende conto che nessuno dei suoi clienti lo sta chiamando e non trova nessun altro valido pretesto per abbandonarmi alla mia autocommiserazione.
«Se ci fosse qualcuno che è l'esatto opposto di te, che tutti descrivono come gentile, sensibile, altruista... praticamente perfetta. Che lo ama ed è riuscita a renderlo felice proprio come tu vuoi che sia. Non è egoistico non rinunciare a lui?»
Un boato di applausi esplode nel locale, facendo tremare le pareti scrostate addobbate con festoni natalizi. Ruoto il capo e vedo una ragazza tutta arrossata e trafelata che scende dal palco su cui ha appena finito di cantare una movimentata canzone funk. Terzo punto a favore del Vampire: il karaoke.
Quando torno a girarmi, Klaus è lì. Accanto a me, il bacino appoggiato al bordo del bancone e le braccia conserte. I capelli arruffati gli conferiscono un aspetto vagamente selvaggio, ma l'espressione assonnata ispira più che altro una fragile tenerezza. Indossa una felpa bianca sotto una giacca nera con la zip aperta a cui si aggiunge una fila di bottoni metallici.
«Come sapevo di trovarti nel bar più vicino?» chiede con un sorrisetto.
«Perché sono molto coerente». Poi mi rivolgo a Jimmy, che ha l'aria di chi sta facendo due più due: «Un tè caldo per il mio amico inglese».
«Divertente». Klaus si siede sullo sgabello accanto a me, evidentemente confuso dallo sguardo di comprensione apparso sul volto del barman. «Non voglio niente, grazie».
«Giusto» annuisco. «È stato drogato di recente. Potrebbe non fargli bene».
«Tirerò a indovinare e dirò che sei ubriaca».
Sogghigno e mi chino in avanti, sfiorandogli l'orecchio con la bocca. «Sì, ma non dirlo al tuo fratellone barra bodyguard. Gli ho promesso di fare la brava».
Klaus si scosta quanto basta per guardarmi in viso. La luce appannata dei lampadari in ferro battuto gli accende gli occhi grigi, mettendo in evidenza le pagliuzze blu attorno alle pupille. Blu. «Lo so. È stato difficile a convincerlo a permettermi di venire a recuperarti».
Prendo il bicchiere, ne trangugio il contenuto fino all'ultima goccia e lo rimetto giù. «Quando sei scappato con il tuo zio mentalmente disturbato, ti aspettavi una reazione diversa? Un biglietto di felicitazioni?» Scoppio in una risata sguaiata. «Che è più di quello che hai lasciato a me, in effetti. Potevi prenderti la briga di salutare, almeno».
«Ti ho scritto una lettera» protesta indignato.
«Non è vero!»
«Sì, invece! Dentro l'origami, quello del cigno». Lui aggrotta la sopracciglia dorate. «Non l'hai visto?»
Allargo le braccia e strillo: «QUALE GENIO CI AVREBBE MAI PENSATO, SCUSA?»
Gli sguardi curiosi di molti dei presenti si puntano su di noi, attirati dalle mie grida. Sono piuttosto sicura di aver visto un gruppetto di ragazzi rivolgere a Klaus dei gesti di solidarietà dal loro tavolo.
«Okay, okay. Forse non era così ovvio...» Si stringe nelle spalle, ma subito ha un lieve sussulto. Le ferite sulla schiena devono fargli ancora piuttosto male, ed è solo questo pensiero a frenarmi dalla tentazione di prenderlo a calci. «Hai parlato con tuo padre?»
«Oh sì!» sghignazzo, strappando la bottiglia di bourbon a Jimmy. «Questa è mia, adesso, eh?»
Con uno scatto agile, Klaus me la sfila dalle mani e la restituisce al barman. «Dal tuo comportamento deduco che non sia andata bene» commenta accigliato.
«Voi Hallander dovete smetterla di rubarmi da bere!» Prima che possa replicare, gli premo un dito sulle labbra per zittirlo. «Lo sai cosa voglio, proprio adesso?» mormoro, accostando il volto al suo.
Klaus si tende come una corda di violino. «Keeley...»
«CANTARE!» Balzo in piedi sullo sgabello. «FATEMI CANTARE, POPOLO!»
«Oh no, ti prego».
Meno di un sessanta secondi dopo, sono già salita sul palco scacciando un ragazzino occhialuto che doveva essere stato costretto da qualche scommessa, a giudicare dal segno della croce che ha fatto mentre tornava dai suoi amici.
Picchietto sul microfono, facendo calare gradualmente il silenzio nel locale, e dico con una finta voce nasale: «Uno, due, tre, prova».
Verificato che funziona, mi posiziono nel cerchio di luce al centro e getto un'occhiata tra il pubblico ormai ammutolito. «Buonasera a tutti. Ebbene sì, oggi avrete l'immenso onore di assistere alla prima esibizione di Keeley Storm». Se fossi in un cartone, ora ci sarebbe la classica scena della folata di vento con la palla di fieno che rotola. «UN PO' DI ENTUSIASMO, PREGO!»
Un breve scroscio poco convinto di applausi scoordinati si diffonde qua e là e vedo Klaus che si passa una mano nei capelli, scompigliandoli ancora di più. Dalla disperazione di quel gesto, suppongo che abbia già avuto il sentore di cosa sta per succedere.
«Voglio dedicare questa canzone a un ragazzo molto speciale. Quello biondo e sexy con la cicatrice, proprio lì» preciso indicandolo.
Lui sbatte ripetutamente la fronte sul bancone mentre tutti si voltano a osservarlo.
«Ci siamo appena lasciati. Cioè, non siamo mai stati insieme, ma ci siamo baciati più di una volta. Abbiamo anche dormito insieme... NON PENSATE MALE, BIRBANTELLI! Ora invece siamo solo amici. Strana la vita, eh?»
In risposta si leva un coro di "Oh" alquanto perplesso.
«Questa canzone è per fargli sapere che l'ho perdonato, anche se non mi ha detto che mia sorella è la sua ex. O che la sua ex è mia sorella. Non avevo idea nemmeno di averla, una sorella. Gemelle separate alla nascita, che cliché» continuo, selezionando il brano sullo schermo. «QUESTA È PER TE!»
Gli occhi di Klaus si incatenano ai miei, facendomi rabbrividire. La sua espressione è un enigma indecifrabile. Non riesco a capire se sia arrabbiato o meno per la mia sceneggiata, ma di certo il suo sguardo mi brucia addosso come il fuoco dell'inferno.
Stringo il microfono, il sudore freddo che cola a precipizio lungo la schiena, e comincio a cantare:
I can't love you in the dark
(Non posso amarti al buio)
It feels like we're oceans apart
(È come se fossimo ad oceani di distanza)
There is so much space between us
(C'è così tanto spazio tra noi)
Baby, we're already defeated
(Baby, siamo già stati sconfitti)
You have given me something that I can't live without
(Mi hai dato qualcosa senza cui non posso vivere)
You mustn't underestimate that when you are in doubt
(Non devi sottovalutarlo quando sei in dubbio)
But I don't want to carry on like everything is fine
(Ma io non voglio continuare come se tutto andasse bene)
The longer we ignore it, all the more that we will fight
(Più a lungo lo ignoriamo, tanto più lo combatteremo)
Avverto il cuore che tenta di scavarsi una via di fuga dal mio petto, il pianto che preme insistente contro i miei occhi e i ricordi che mi sfrecciano davanti uno dietro l'altro, andando a perdersi in un passato destinato a non tornare.
Klaus seduto al mio fianco, ai piedi della culla di quella che doveva essere la mia cameretta, a Baker Street. La sua voce dolce che mi racconta la triste favola di un bambino addestrato a rifiutare l'amore e, se fossi rimasta sveglia, forse avrebbe parlato anche della fanciulla che gli ha dimostrato di meritarlo.
We're not the only ones, I don't regret a thing
(Non siamo gli unici, non mi pento di nulla)
Every word I've said, you know I'll always mean
(Ogni parola che ho detto, sai che la intendevo sul serio)
It is the world to me that you are in my life
(Vale come il mondo che tu sia nella mia vita)
But I want to live and not just survive
(Ma io voglio vivere, non solo sopravvivere)
Il nostro ballo ad Halloween, quel "c'eri tu con me" sussurrato nell'oscurità. Io e lui stesi sull'amaca alla luce morente del tramonto o sulla torre in mezzo alla neve a guardare la nostra costellazione segreta -il nostro angelo nero- tra le stelle. Oppure sulla fontana a dirci addio senza davvero riuscirci.
E concludo, cambiando l'ultimo verso, la canzone:
I don't think I can save you
(Io non penso di poterti salvare)
Mi accorgo a malapena dello schiamazzo di fischi e strepiti che si scatena all'eco dell'ultima nota. Non sono mai stata capace a cantare, ma non era questo l'obiettivo, non è il motivo per cui l'ho fatto. Avevo semplicemente bisogno di sfogarmi e, a volte, si possono trovare le nostre parole sulla bocca di altri.
Non è questo il principio di ogni forma d'arte?
Scendo dal palco e mi precipito verso l'uscita, evitando accuratamente di guardare nella sua direzione.
Fuori l'aria della notte è gelida e pungente. Le strade del Quartiere Francese pullulano di vita, grida e jazz, invase da carrozze e persone mascherate e luci e colori danzanti sotto un cielo d'inchiostro. Mostre improvvisate di dipinti, band itineranti, sfilate e bancarelle di amuleti e talismani: la Big Easy colta nella sua essenza.
Mi lascio cadere su una panchina illuminata da un lampione, buttandomi contro lo schienale. Vorrei avere una matita e un foglio di carta per poter ritrarre lo spettacolo che mi circonda.
«Non mi ero resa conto di quanto mi mancasse questa città» dico con un sorriso spento.
Klaus si siede accanto a me, piegato in avanti con i gomiti sulle ginocchia. È così pallido che la cicatrice quasi scompare, la pelle bianca che brilla come fosse fatto di cristallo. «È bellissima, sì. E molto malinconica. Ma anche sfuggente. Credo che nessuno potrà mai conoscerla in tutte le sue sfumature, a prescindere da quanto la si ami».
Un silenzio gradevole si insinua tra di noi, animato dal frastuono di quella festa senza inizio né fine tipica di New Orleans. La casa della mia infanzia è proprio di fronte a noi, con la pietra rossiccia in certi punti quasi sgretolata e il ferro della balconata che scintilla di un baluginio freddo.
«Era tutto reale, Keeley. I miei sentimenti erano reali, lo sono ancora». Quando posa la sua mano sulla mia, per un attimo sono tentata di ritrarla. Invece rimango ferma, riscaldata dal tocco delicato delle sue dita sottili. «Non ti ho mentito su questo».
«Lo so».
«Volevo dirti della mia relazione con Elizabeth, davvero, ma non volevo che tu pensassi di essere un rimpiazzo. Forse perché una parte di me aveva il terrore che Alizée avesse ragione e che ciò che provavo per te fosse solo un riflesso di quello che provavo per lei. E quando ho scoperto che era tua sorella...» spiega Klaus, allungandosi verso di me per incrociare il mio sguardo.
«Ma ogni nostro momento è stato solo nostro, Keeley. Questo posso giurartelo: ogni singolo momento che eravamo insieme, c'eri solo tu per me».
Socchiudo le palpebre, chiedendomi quante altre volte dovrò combattere contro le lacrime in questa giornata infernale. «Non so granché dell'amore, ma una cosa sì. E cioè che deve far stare bene entrambi». Finalmente, trovo il coraggio di guardarlo. «Ma noi non ci facciamo bene, Klaus».
Un lampo d'irritazione gli balena sulla faccia. «E quindi basta? Non vale la pena nemmeno discuterne?» ribatte, ritirando il braccio. «No, non è soltanto questo. Ti arrendi perché hai già deciso che devo stare con Elizabeth. Ma dovrei essere io a scegliere cosa, o chi, è meglio per me. Non tu».
Mi lascio sfuggire un suono strozzato a metà tra una risata e un singhiozzo. «Hai già scelto, Klaus. Credevi di averla uccisa e ti sei consegnato a tuo zio per punirti, sapevi che la mia paura più grande fosse essere abbandonata di nuovo e l'hai fatto comunque. Non sono stata una ragione abbastanza valida per rimanere, né lo sono mai stata per dimenticarla».
Gli struscio l'indice sulla guancia gonfia. «Hai scelto lei anche quando pensavi che fosse morta».
Klaus si sottrae alla mia carezza alzandosi. «Sono andato via con Vincent perché mi sentivo un mostro e avevo bisogno di essere trattato come tale. E così sono andato da qualcuno che non potevo deludere per il semplice fatto che non si è mai aspettato nulla da me».
Si volta e si appoggia con una spalla al lampione. Noto che tiene la schiena leggermente arcuata. «Ma tu, Elizabeth, i miei fratelli... Per voi, io sono buono. Non sono un errore, un oggetto o un peso, ma qualcuno da amare. E così vivo nel costante terrore che arrivi il giorno in cui sbaglierò e capirete che dopotutto sono solo un bastardo, nato da uno stupro e figlio di un aborto mancato».
«Klaus, tuo padre...» Le parole mi muoiono in gola.
Ho promesso di non rivelare a nessuno la verità, non ancora, ma il vero problema è un altro: so quanto lo farebbe soffrire.
Come posso distruggere un cuore già spezzato e chiamarlo amore?
«Tu non sei tuo padre» concludo, tirando su la cerniera del giubbotto. «Una volta, da qualche parte, ho letto una frase: "Il passato è un ladro, non ti porta alcunché ma può rubarti il futuro". Beh, in questi mesi ho scoperto sulla mia pelle che è dannatamente vero. Quindi forse la soluzione non è trovare risposte, ma smettere di farsi domande e cominciare a vivere il presente».
Klaus emette uno sbuffo ironico. «Non saprei. Il Canto di Natale insegna che i fantasmi possono fare la differenza su ciò che sei».
«I tuoi riferimenti letterari sono troppo colti per me».
«Ahia» esclama con una smorfia di finta agonia. «Questa faceva male».
Scoppio a ridere e lui fa lo stesso. È il suono più bello che abbia mai sentito.
Prendo il telefono dalla tasca e controllo l'orario sullo schermo: mezzanotte. «Oh, è il mio compleanno».
«Ma non hai già fatto diciassette anni?» obietta lui, sbirciandomi con la coda dell'occhio.
«In teoria sono nata l'otto dicembre. Ma è lo stesso giorno in cui è morta mia madre» chiarisco impassibile, riponendo l'apparecchio. «Quindi mio padre, che adora alla follia i compleanni, mi ha suggerito di spostarlo in una data a mio piacimento e festeggiarlo in quella data».
«E a quando lo hai fissato?»
Mi sforzo di assumere un atteggiamento altezzoso. «Il terzo lunedì di febbraio, ovvio».
«Il Presidents' Day» ridacchia Klaus. «Lo trovo appropriato».
«Sì, e guai a te se mi fai gli auguri oggi» lo ammonisco severa.
«Non oserei mai». Quando si gira, ha un sorrisetto impertinente stampato sulle labbra. «Ma domani partiremo e siamo nella tua città, piccola ficcanaso. Questo significa che abbiamo tutta la notte per un giro turistico, no?» propone, porgendomi la mano.
La fisso per un secondo, infine la afferro e lascio che mi aiuti a rimettermi in piedi. Invece di mollare subito la presa, Klaus mi attira a sé, così vicino che i nostri corpi entrano in contatto. Il respiro mi viene meno, ma si limita a portarmi un ciuffo ribelle dietro l'orecchio e posa con delicatezza la fronte contro la mia, stringendomi.
«Comunque vada, Keeley, voglio che tu sappia che ci sarò per te. Sempre e comunque» sussurra in tono dolce, e deposita sulla mia tempia un bacio leggero come un fiocco di neve. «Tu guardi le stelle, stella mia, e io vorrei essere il cielo per guardarti con mille occhi». In risposta al mio sguardo interrogativo, aggiunge: «Platone».
Senza staccarmi da lui, gli do un colpetto al fianco. «Piantala con le citazioni colte, biondino».
Ridiamo di nuovo, questa volta all'unisono. Poi ci incamminiamo per New Orleans, girovagando tra i segreti dei suoi vicoli e le leggende che vi aleggiano tra magia e creature delle tenebre. Al sorgere del sole, stiamo passeggiando mano nella mano lungo la riva del Mississippi, un nastro azzurro scintillante che si tuffa in un orizzonte rosato su cui vediamo nascere una nuova alba.
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