67. DÉJÀ VU
P.O.V. KLAUS
Maxwell Storm compare davanti al portone d'ingresso.
Pallido e trasandato, ha l'aspetto di qualcuno che sembra non consumare un pasto decente da parecchio tempo. I vestiti gli ricadono larghi sul fisico un po' emaciato, una rada barba incolta gli copre le guance e il mento mentre i capelli, biondi e arruffati, sono talmente lunghi da sfiorargli quasi il collo. Appesa a una catenella, una fede nuziale gli pende sul petto, brillando di riflessi dorati alla luce del sole.
Di tutti i modi in cui avevo immaginato di ritrovare l'uomo buono, questo non l'avevo proprio considerato.
«Sei come i ratti, vero, Storm?» bofonchia Vincent. È ancora accovacciato davanti a me, ma ora sta guardando in direzione del nuovo arrivato con una smorfia sprezzante. «Spunti ovunque».
Lo sguardo di Maxwell incrocia il mio. I suoi occhi sono uguali a quelli della donna che mi ha cresciuto, la zia che ho sempre chiamato "mamma": un verde scuro come le profondità di un bosco. Gli stessi di cui mi sono fidato quando avevo undici anni. «Io e te dobbiamo smetterla di vederci così, ragazzo».
Vincent si solleva e mi stringe una spalla con fare possessivo. «Come sei entrato?»
«Questa è casa mia, idiota. Ho le chiavi» risponde l'altro pacato, osservando la tavola imbandita di dolci. «Ci manca solo un bambino da cuocere nel forno, qui».
«Come sapevi dov'ero?»
Maxwell emette uno sbuffo annoiato, continuando a vagare per l'ala opposta del cortile senza avvicinarsi. «Il tuo caro Peter. Mi ha detto che l'hai chiamato, che volevi che ti raggiungesse».
Al suono di quel nome, sento la presa di Vincent allentarsi un poco. «Non credevo foste amici. Sai, per quella faccenda che ha rubato una delle tue gemelline».
Lui lo ignora. «Ne sono rimasto sorpreso. Insomma, ti aspettavi davvero che tornasse da te a testa bassa, solo per una cotta vecchia di vent'anni?» Ridacchia, poi mi scocca un'altra fugace occhiata e aggiunge pungente: «Ma avrei dovuto aspettarmelo. Se una cosa ti appartiene, la rivuoi a qualsiasi costo. Ammetto che questo ti rende molto sentimentale, anche se nella maniera più malata possibile».
«Avevo scordato quanto parli». Vincent esplode in un violento colpo di tosse che lo costringe a piegarsi. Tira fuori un fazzoletto dalla tasca e se lo strofina sulla bocca; lo nasconde subito, ma sono sicuro di aver notato delle chiazze rosse. «Fammi capire. Gli Hallander ti hanno mandato a fare il lavoro sporco di nuovo? Ti hanno ricattato con la tua mocciosa che hanno in ostaggio?»
«Ti farò uno schemino facile facile, okay?» Maxwell mi indica con un gesto noncurante. «Tu hai il ragazzo. A mia figlia piace quel ragazzo, quindi deduco che non te lo lascerà volentieri. E io voglio mia figlia al sicuro, ergo il più lontano possibile da te». Inarca un sopracciglio. «Cogli il nostro conflitto d'interessi?»
«E che mi dici dell'altra tua figlia?»
Un muscolo guizza sulla mascella di Maxwell, che si irrigidisce in maniera appena percettibile. Oltre alle sue doti da artista, Keeley deve aver ereditato da lui anche il talento a nascondere i propri sentimenti, soprattutto la sofferenza. «Attento alle tue prossime parole, Freddy Krueger, oppure ti farò un altro ritocchino alla faccia».
«Ne stavamo parlando giusto prima, io e il mio nipotino». Vincent assume un ghigno che gli distorce le cicatrici. All'improvviso mi afferra per i capelli, costringendomi a reclinare il capo, e mi sussurra all'orecchio: «Il tuo eroe dovrebbe sapere chi ha premuto il grilletto, giusto?»
Per un attimo, il pensiero di essere del tutto inerme, impotente, riemerge con tale prepotenza da farmi ribaltare lo stomaco, ma viene subito inabissato da una crescente sensazione di pace. Mi sento la mente svuotata e leggera, come un palloncino bucato dal quale si sono riversati fuori tutti i problemi, le paure e gli incubi con cui convivo da anni.
Sono a malapena consapevole del mio corpo che giace abbandonato sulla poltrona, persino il dolore bruciante alla schiena è ovattato da un senso di torpore. Quando provo a muovermi, un pizzicore quasi piacevole mi attraversa i muscoli intorpiditi e giungo alla conclusione che non ne vale la pena: perché dovrei ribellarmi?
Non sono mai stato così bene.
«Ascoltami, sacco di... Vincent» esordisce Maxwell, pronunciando il suo nome in tono tagliente. Si trova all'estremità opposta del tavolo, piegato con le mani poggiate sul bordo. «Non deve per forza finire a scazzottate, stavolta. Voglio solo il ragazzino. Me lo restituisci, io lo riporto a casa sua e tu potrai andare a masturbarti davanti a qualche video di bondage o quello che fai nel tempo libero. Vinciamo tutti».
«No, non tutti. Vincono gli Hallander». Vincent mi avvolge un braccio attorno al collo. «Alizée ha rubato delle cose che mi appartengono. Cosa c'è di sbagliato nel riprendermi la famiglia che mi ha portato via?»
«Non credevo ci tenessi tanto, considerato che lo rinchiudevi in un armadio e lo usavi come sacco da boxe».
Vincent aumenta un poco la pressione sulla mia gola, rendendomi difficoltosa la respirazione. «Possiamo trovare un accordo. Un modo per ottenere ciò che vogliamo e insieme vendicarci di quello che gli Hallander ci hanno tolto. Stiamo dalla stessa parte, Storm».
«Un accordo, eh?»
Con il sangue che mi sbatte violento contro le tempie, anche i polmoni cominciano a protestare per la mancanza d'aria. Tento di divincolarmi, ma è sufficiente che mi dia uno strattone per spegnere quel barlume di energia residua e la testa mi crolla nuovamente all'indietro.
Mi ritrovo a fissare il cielo, di un bellissimo azzurro che mi ricorda il giorno in cui sono arrivato alla villa. Faceva molto caldo nello studio di Alizée, dove lei e Gladys hanno trascorso un'ora a discutere; sebbene fossi presente, ancora oggi non ho la minima idea di cosa si siano dette. Chissà perché, la mia attenzione era tutta rivolta a una caramella gommosa lasciata per qualche ragione sulla scrivania.
Abbozzo un sorriso: se lo raccontassi a Keeley, mi prenderebbe in giro per il resto della mia vita. Anzi, dovrei proprio farlo. Ci sono troppe cose che non sa di me.
Cosa penserebbe, se le dicessi che ho lasciato morire mia madre? Gli piacerei comunque?
«Dimostramelo». Una voce roca e raschiante mi riporta brutalmente alla realtà.
«Non ho nessuna intenzione di spogliarmi per te, bestione. Non sei il mio tipo». Maxwell si butta sulla poltrona opposta alla mia e sistema i piedi sul tavolo, imbrattando la tovaglia natalizia con i suoi pesanti scarponi incrostati di terra. «Dovrai accontentarti della mia parola: no, non ho armi».
«La parola di un bugiardo, che garanzia» borbotta Vincent, liberandomi dalla sua morsa. Ne approfitto per riprendere fiato, il cuore che piano piano torna al suo battito lento e rilassato. «Quell'affare che ti porti ovunque, so che ce l'hai. Dammelo».
Maxwell scoppia in una fragorosa risata. Si mette a frugare nella tasca dei jeans, ne estrae un oggettino di metallo blu e lo lancia con un movimento pigro. Quello traccia un piccolo arco in aria e atterra tintinnando sul mio piatto, in mezzo a un paio di bignè e una brioche al cioccolato ancora intatta.
«Grande e grosso, e se la fa sotto per un coltellino» sghignazza tra sé, ma abbastanza forte da essere udito.
Vincent lo studia per un attimo, ammutolito, mentre una vena minacciosa prende a pulsargli al centro della fronte, segnale che si sta innervosendo. «Sto cercando il registratore di Elaine. Ho la certezza che al suo interno si trovi non solo una prova sul vero colpevole dello stupro, ma anche sulle circostanze della morte... perdonami, dell'incidente della tua quasi moglie. Una sorta di confessione, suppongo. In ogni caso, è qualcosa che potrebbe rovinare gli Hallander o peggio, se solo diventasse di dominio pubblico».
Se la notizia lo ha colto alla sprovvista, Maxwell riesce a dissimularlo alla perfezione; la sua espressione è una maschera di pietra. «E tu ne hai la "certezza"» e mima le virgolette con le dita «perché hai avuto un'illuminazione divina, quando eri rinchiuso in una clinica psichiatrica? Ora sì che sono fiducioso».
Un lampo furbesco balena sul volto di Vincent. «Me lo ha assicurato... un uccellino».
«Senza offesa, ma dirmi che complotti con un uccellino per la distruzione degli Hallander non serve granché a convincermi della tua sanità mentale. A meno che tu non sia la più brutta Cenerentola di sempre. O era Biancaneve?»
«Per colpa di quella famiglia, hai perso il tuo migliore amico. Hai perso tua moglie. Hai perso le tue figlie» insiste Vincent, camminando a passi lenti verso di lui. «Ti stanno dando la caccia da sette anni, sempre per colpa loro. Non sei stanco di scappare? Con il tuo aiuto, potremo porre fine a questa storia».
Maxwell allunga il braccio sinistro, prende un pasticcino e fa per gettarselo in bocca. Poi però si blocca a esaminarlo e lo rimette giù con uno sbuffo, sbirciandomi di traverso per un secondo; giurerei di averlo visto ammiccare, pur non capendo cosa voglia comunicarmi. «Non sarebbe il primo scandalo in cui gli Hallander rimangono coinvolti. Ne escono sempre immacolati, in un modo o nell'altro».
«Il mio uccellino ha abbastanza potere e influenza da impedire che accada. E nemmeno Alizée può difendersi dall'arma più potente di tutte: la verità». Sputa fuori quell'ultimo termine con disgusto, quasi fosse un veleno che deve affrettarsi a espellere. «Domani, l'otto dicembre, Michael avrebbe compiuto quarant'anni. Invece è morto che era poco più di un ragazzo, è morto e ancora oggi la sua memoria è insultata per un crimine che non ha commesso...»
«BASTA!» tuona Maxwell, alzandosi con tale veemenza da ribaltare la poltrona. Nel suo sguardo divampano fiamme smeraldo di puro disprezzo. «Non ti è mai fregato niente di Mike, non gli hai mai voluto bene, perciò piantala con questa ridicola farsa. La tua pretesa di lutto arriva un po' in ritardo».
«Era mio fratello».
«No, era mio fratello. Più di quanto sia mai stato il tuo» gli urla di rimando, furioso. «Io sono quello che ha lottato per dimostrare la sua innocenza, anche dopo che aveva esalato il suo ultimo respiro. Io sono quello che l'ha pianto al suo funerale, quello che avrebbe dovuto averlo accanto come testimone di nozze. Tu non eri nulla per lui».
Vincent si blocca a metà strada, i pugni serrati che fremono lungo i fianchi per lo sforzo di trattenersi. Glielo leggo in viso, stampato tra i suoi lineamenti contorti, impresso nel nero abisso della sua iride: il desiderio di aggredirlo, anzi il bisogno fisico di sfogare la sua rabbia. Un'ira irrazionale che cova dentro e non si spegne mai, come un buco nero che si nutre di sé stesso e di ciò che lo circonda per poi esplodere in maniera devastante.
«Puoi non credere alle mie ragioni, non importa. Ciò non cambia che abbiamo un nemico comune: gli Hallander».
«Forse non sono stato abbastanza chiaro». Marciando a rapide falcate, Maxwell annulla i metri di distanza tra loro e gli si ferma di fronte. È meno della metà della sua stazza, eppure sembra sovrastarlo. «Non. Parlare. Delle. Persone. Che. Amo» ringhia, scandendo bene ogni parola.
«Sappiamo entrambi che non ti interessa di Klaus. Speri soltanto di guadagnare punti con tua figlia, riportandole il fidanzatino» mormora Vincent, agguantando un lembo della giacca aperta sulla maglia messa al contrario. «Ma voglio proporti una soluzione migliore: io mi tengo mio nipote e tu mi dai il registratore. Il mio uccellino farà il resto. In men che non si dica, i segreti degli Hallander saranno portati alla luce e finalmente faremo giustizia per tutti coloro che hanno ucciso. Michael, Elaine, Céline...»
Maxwell lo respinge con uno spintone. «Wow, che piano nobile» replica sarcastico. «Peccato che, anche se accettassi, mia figlia non mi perdonerebbe mai. Ci tiene parecchio al ragazzo».
Vincent scrolla le spalle. «Puoi sempre dirle che sei venuto, ma ce ne eravamo già andati. Se otterrò quello che voglio, non avrò nessun motivo di rimanere in questo schifo di Paese. Spariremo, e la tua piccola Keeley saprà soltanto ciò che vorrai farle sapere».
«E gli altri pargoli di Alizée?»
«Non li toccherò neanche. Voglio solo i miei nipoti, nient'altro».
Maxwell aggrotta la fronte, disorientato, ma poi sfodera un mezzo sorriso. «Lo hai scoperto».
«Tu come lo sai?»
«Mike me lo disse, durante la mia ultima visita in prigione, poco prima del suo suicidio. Mi disse anche che Jonathan Blackwood aveva minacciato di fare del male a William, per questo si era dichiarato colpevole al processo».
«Allora puoi capire perché lo voglio». Vincent assottiglia le palpebre, accigliato. «È uno Waylatt, è mio di diritto».
«Poche gocce di sangue in comune e la chiami famiglia». Maxwell scuote la testa, divertito. «Per fortuna gli Hallander hanno un'abbondante scorta di figli, allora. Glieli stai prendendo tutti».
«Non hai ancora risposto alla mia offerta» lo incalza Vincent, porgendogli la mano. «Abbiamo un accordo o no?»
Con un fruscio, una folata di vento spazza le foglie secche sul lastricato del cortile; mi deposita sul volto una carezza frizzante e si insinua nella camicia aperta, donandomi sollievo quando colpisce la pelle sudata del petto. Oltre le mura del cortile, i tipici rumori di New Orleans si mescolano al frastuono del traffico e, per un attimo, vengo rapito dalla musica jazz che riecheggia tra le grida concitate e lo sbatacchiare delle carrozze.
A giudicare dal sole sempre più alto, ormai devono essere le dieci di mattina. Ma più il tempo passa, più mi pare di sprofondare in un oblio sorprendentemente gradevole; riflettendoci adesso, non capisco da cosa fossi tanto spaventato. È così bello non avere nessuna preoccupazione, ed è anche una giornata magnifica. Se non fosse per queste fastidiose cinghie di plastica, sarebbe tutto perfetto.
«Potete slegarmi, per favore?» farfuglio in tono esile. «Tanto non vado da nessuna parte».
Maxwell si volta e mi guarda intensamente per qualche secondo, mordicchiandosi il labbro. È un altro vizio che ha in comune con Keeley. «D'accordo» sospira infine. «Prenditelo. Non è un mio problema».
Nel momento stesso in cui la mano destra di Maxwell –che ha tenuto semichiusa per tutta la durata della conversazione– stringe quella di Vincent, uno sfrigolio riecheggia nell'aria e quest'ultimo viene colto da uno spasmo incontrollabile. Ma è necessario un pugno dritto in faccia, dato con una violenza tale da farmi rabbrividire, per mandarlo ad accasciarsi a terra.
Cadendo, però, Vincent si aggrappa d'istinto alla manica dell'uomo e, grazie al suo peso, lo trascina giù con sé. Avendo sia la visuale ostruita dal tavolo che i riflessi rallentati dal sedativo, non capisco bene che cosa succede in seguito tra i due. Sento solo dei colpi secchi, delle imprecazioni e il suono distinto dell'acciaio che raschia sul marmo.
Solo allora la mia attenzione viene attirata da uno scintillio e mi rendo conto del significato del cenno d'intesa che mi aveva fatto Maxwell. Attingendo a tutta la mia forza di volontà, mi protendo il più possibile in avanti, tirando e strattonando quanto posso per smuovere la poltrona. Presto, i polsi cominciano a pulsare a causa delle stringhe di plastica che mi scavano la carne, ma accolgo il dolore con piacere, come fosse un getto d'acqua fresca che scaccia la stanchezza e mi restituisce un po' di lucidità.
Al primo tentativo sfioro appena il tavolo con il mento, al secondo arrivo fino al bordo del piatto. Al terzo, finalmente, riesco ad avvicinarlo quanto basta da prendere il manico blu dell'oggetto tra le labbra. Il suo sapore metallico è piuttosto fastidioso, ma sono troppo occupato a cercare di ruotare la mano, inchiodata al bracciolo, per badarci. Nonostante la fascetta che mi scortica la pelle, alla fine piego il palmo verso l'alto e, dopo un istante di esitazione, ci getto sopra il coltellino, imprigionandolo a stento tra le dita rese insensibili dalla mancanza di circolazione.
Con la testa che ancora mi gira, devo fare uno sforzo immenso per concentrarmi. Estraggo a fatica la lama sottile, procurandomi un taglio sulla punta del pollice, e inizio a sfregarla sulla cinghia. Malgrado i crampi alla mano, non demordo, e in breve la plastica si spezza.
Mi affretto a recidere anche l'altra e balzo in piedi di scatto. Subito perdo l'equilibrio e mi ritrovo a barcollare, con le ferite alla schiena che lanciano fitte di protesta a ogni movimento. Il mondo attorno a me è un vortice di immagini sbiadite, tanto che devo strizzare le palpebre più volte per metterle a fuoco.
Nella parte opposta del cortile, Vincent torreggia su un inerme Maxwell che si contorce sul pavimento. Lo sta prendendo a calci con una foga spaventosa, una raffica brutale che non gli concede neanche il tempo di proteggere i punti più vulnerabili.
E, a pochi metri di distanza, una pistola.
Non so a chi appartenga. Deve essere stata estratta all'inizio della colluttazione da uno dei due, ma l'altro è riuscito a disarmarlo spingendola via o facendola volare lontano dal luogo dello scontro.
Senza accorgermene, mi sono già incamminato, incespicando nei miei stessi passi, richiamato dall'arma come se io fossi una falena e quella l'unica luce rimasta sul pianeta. Man mano che avanzo, i ricordi strisciano fuori dai meandri della mia mente in cui erano stati relegati. Serpenti velenosi che mi sibilano alle orecchie quella verità che in fondo ho sempre saputo.
«Sono stato io» mormoro, sostenendomi al muretto del pozzo per non rovinare al suolo.
Con estrema lentezza, raccolgo la pistola e continuo a fissarla stordito. Ne ho impugnata una anche quella notte, nello chalet: una vecchia Beretta 92 semi-automatica, o così l'avevano classificata nel verbale della polizia. Era di Vincent, ma l'aveva messa giù per dimostrarmi che voleva solo parlare, riportarmi a casa; ero certo che non sarei mai stato in grado di usarla contro di lui. Invece ho sparato. Ho sparato, ma ero confuso e drogato e...
E ho sbagliato bersaglio.
«L'ho uccisa io» sussurro in tono stranamente apatico. «L'ho uccisa io».
«Sì, piccolino». La voce di Vincent pare raggiungermi dal fondo di un precipizio. «È quello che stavo tentando di spiegarti, prima che tu mi interrompessi».
Dardeggio gli occhi su di lui. Sta avanzando verso di me con un'andatura incerta, quasi zoppicante; in effetti, è conciato piuttosto male. Ha un brutto ematoma rossastro sulla guancia a cui si aggiungono numerosi tagli e graffi sparpagliati sul viso e un rivolo di bava misto a sangue gli sgorga dall'angolo della bocca.
«Quante altre prove ti servono per darmi retta? Per capire che, nel profondo, non sei diverso da tuo padre? Dal male nasce solo il male, Klaus» prosegue ansimante. Ha un respiro affannoso, simile a un rantolo. «Ma io posso aiutarti. Voglio aiutarti ad aggiustare ciò che c'è di sbagliato in te, è quello che ho sempre voluto».
Torno a guardare la pistola e la rigiro tra le mani. È fredda, dura, terrificante; l'ultima cosa che Elizabeth ha visto. «No...» Un groppo alla gola mi impedisce di aggiungere altro, quindi mi limito a stringere il manico della pistola e puntargliela contro.
Vincent si immobilizza, ma non c'è la minima traccia di paura nella sua espressione. Solo un vago stupore. «Non mi farai del male, non puoi e non ti conviene. Sono tutta la famiglia che ti rimane, o meglio che ti rimarrà quando confesserai ai tuoi adorati Hallander quello che hai fatto. Ti vedranno per il mostro che sei e li perderai».
«Mi hai insegnato che i cattivi devono essere puniti» mormoro, arrancando all'indietro con il fianco appoggiato al pozzo per non cadere. «Io e te siamo uguali. Se le ho fatto del male, è colpa tua. Perché quello che vuoi aggiustare in me, sei stato tu a romperlo. Sono così per colpa tua!»
«Non lo farai». Un ghigno beffardo gli spunta sulla faccia, facendo scintillare l'iride scura e vuota. «Sei cresciuto, ma rimani lo stesso bambino terrorizzato che se ne stava nell'armadio finché non gli davo il permesso di uscire. Sei troppo debole, per questo non lo farai».
Una furia cieca, una furia che non ho mai provato prima, mi assale. Con il cuore che mi tuona nel petto, abbasso la sicura. Sto tremando convulsamente, eppure riesco a tenere la presa sull'impugnatura ben salda. Il lampo di timore che, per un momento brevissimo, gli guizza nello sguardo mi provoca un moto di maligna soddisfazione che mi pervade fin nelle ossa.
Per una volta, è lui a essere spaventato.
Per una volta, è lui a essere impotente.
Un lamento improvviso mi strappa un lieve sussulto; mi ero dimenticato che non eravamo soli.
«Questa giornata non potrebbe fare più schifo». Accartocciato a terra, Maxwell si rovescia sulla schiena mentre prende a tastarsi le costole con una smorfia dolorante. Poi, cautamente, si tira su sulle ginocchia. «Non per fare il guastafeste, ragazzino» soggiunge, lanciandomi un'occhiata esausta. «Ma non hai ucciso proprio nessuno».
Increspo le sopracciglia, frastornato. «No, ti sbagli. Io...»
«Non è morta».
Mai avrei creduto che tre semplici parole potessero essere tanto devastanti.
Nove lettere che hanno il potere di cambiare tutto in un battito di ciglia. Quattro sillabe che pongono fine al tormento che mi logora da mesi, agli incubi che mi torturano una notte dopo l'altra. Una fiammella di speranza a cui mi aggrappo all'istante con ogni cellula del mio essere, senza dubbi né domande, consapevole che non si può bruciare ciò che è già ridotto in cenere.
«Stai mentendo» grugnisce Vincent.
Maxwell lo ignora, continuando a rivolgersi a me. «È con Peter. O Stefan, come si fa chiamare adesso. Era in coma, ma si è svegliata». Rilascia un respiro profondo, visibilmente stremato. «Non è morta».
"Elizabeth è viva".
Lo ripeto all'infinito nella mia mente come un mantra. Quella rivelazione avrebbe dovuto riempirmi di felicità e di sollievo, cancellare tutta la rabbia e la sofferenza che mi sento dentro, darmi quella pace che non ho mai davvero avuto. Ma c'è qualcosa che mi impedisce ancora di deporre l'arma, un sentimento graffiante che mi si dibatte con unghie e artigli nelle viscere, un veleno che mi incendia il sangue.
E alla fine capisco: io voglio ucciderlo.
Vincent esplode in una risata rauca che mi fa trasalire, spingendomi ad aumentare la pressione sul grilletto. Allarga le braccia e sghignazza, sputando un grumo di sangue a terra: «Oh, la famiglia Waylatt è finalmente riunita!»
Seguendo la traiettoria del suo sguardo, ruoto la testa così velocemente da farmi dolere il collo.
Il bianco portone d'ingresso è spalancato. Liam sta varcando la soglia con la sua solita camminata controllata, vestito con un elegante completo blu e una cravatta a righe. Chiunque sarebbe stato ingannato dalla sua espressione abilmente costruita, ma il suo viso è un libro che ormai conosco a memoria e non mi è difficile leggere la preoccupazione che nasconde dietro quella calma imperturbabile.
Accanto a lui c'è un uomo dai capelli castani e una barbetta ispida che si scruta attorno, tenendo Vincent sotto mira con la pistola. Indossa una camicia di flanella sotto un giubbotto antiproiettile e ha un'aria severa e guardinga che non possedeva l'ultima volta che l'ho visto, mentre parlava con Keeley nel giardino della villa. Per essere un comune agente della Walker Agency, Alan Cooper appare fin troppo a suo agio e padrone di sé stesso; si direbbe che sia addirittura abituato a trovarsi in situazioni di potenziale pericolo.
«Fratello» esordisce Liam pacato, avvicinandosi dall'altro lato del tavolo per non passare accanto a Vincent. «Non ne vale la pena».
Gli occhi cominciano a pizzicarmi e li strofino frettolosamente sulla manica della camicia, senza abbassare l'arma. "Se lo merita!" vorrei gridare, ma non riesco a emettere neanche un suono. Mi sento un vulcano sul punto di eruttare, sputando fuori un tornado di emozioni confuse, ricordi sepolti e una rabbia repressa per troppi anni.
«Anche se lo uccidi, non cambierà niente. Non cancellerà il male che ha fatto né il dolore che ti porti dentro. Non ti aiuterà a dimenticare, ti darà solo un altro motivo per odiarti». Giunto a meno di un metro di distanza, Liam rallenta. Parla sottovoce, cosicché solo io possa udirlo. «Sta già morendo, Klaus. È malato, per questo è venuto. Guardalo. Lascia che muoia come ha vissuto: da solo».
Con la pistola che mi scivola dalle dita sudate, mi volto a fissare mio fratello. Il suo sguardo è quello di sempre: oceano azzurro e verde in cui non ho mai avuto paura di annegare, un rifugio sicuro che mi culla tra le onde.
Il guardiano che veniva in mio soccorso quando mi svegliavo nel cuore della notte, in preda al terrore, e mi portava sulla cima della torre, aspettando per ore con me al freddo, in silenzio, in attesa che mi calmassi.
A volte gli raccontavo i miei incubi ed era talmente bravo ad ascoltare che, alla fine, è diventato l'unico al mondo al quale sono stato disposto a raccontare del mio passato. Ogni sfaccettatura, anche quelle pieghe che avevo relegato nell'oscurità pensando che potessero inghiottirmi. Tutto, tranne la storia della mia cicatrice.
«Dammela e torniamo a casa, fratello. Dalla nostra famiglia». Liam si ferma e mi tende la mano. «È finita».
Le sue labbra si increspano in un sorriso rassicurante che mi fa ripensare al nostro primo incontro e alla sensazione di protezione e di fiducia che mi aveva suscitato fin da subito.
Obbediente, gli consegno la pistola e mi lascio cadere sul pavimento. Porto le ginocchia al petto e le cingo con le braccia, cercando di placare i tremiti febbrili che mi scuotono il corpo. Per un secondo osservo il mio anello, il leone inciso sulla pietra nera e la H degli Hallander.
Charles Dickens scriveva che la famiglia “non deve solo consistere semplicemente in coloro con cui condividiamo il sangue, ma anche in coloro a cui daremo il nostro”.
Avrei dovuto capire prima quanto avesse ragione.
«Klaus».
Rovescio la testa all'indietro e, attraverso la vista annebbiata, un'immagine galleggia di fronte a me. Una chioma blu scompigliata dal vento e un viso dai tratti delicati che, per la prima volta, non celano nemmeno l'ombra dell'ironia sfrontata che ho imparato ad amare di lei. I suoi occhi dorati, luminosi e caldi come piccoli soli, sono conficcati nei miei.
Mi alzo in modo da trovarci uno dirimpetto all'altra. È più bassa solo di pochi centimetri, quindi siamo quasi alla stessa altezza, i nasi così vicini da sfiorarsi. Nell'istante in cui affondo il volto nell'incavo della sua spalla, stringendola a me con delicatezza, un profumo intenso mi penetra nelle narici. Il suo profumo.
Sì, non sono mai stato così bene.
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