66. CICATRICI
P.O.V. KLAUS
Se qualcuno, camminando per le strade del borgo di Newham, si fosse concesso una breve pausa dalla propria vita frenetica e avesse guardato verso l'alto per un istante, avrebbe visto un bambino di sette anni in bilico sulla balaustra del terrazzo, con un libro tra le ginocchia e una gamba a penzoloni.
Nonostante il freddo, infatti, questo continua a essere il mio posto preferito per leggere. Anzi, il mio posto preferito di tutta la casa. L'unico che mi faccia sentire veramente felice; la paura di cadere non può reggere il confronto con la voglia di volare, e non ci sono prigioni abbastanza robuste da impedire alla mente di cavalcare libera sull'onda della fantasia.
O, almeno, questo dice la mamma.
«La carrozza avanzò per qualche metro e di nuovo si fermò. Oliver alzò gli occhi verso le finestre e lacrime di felicità gli striarono il viso. Ma ahimè! La casa bianca era deserta e, a una delle finestre, si trovava esposto un cartello: "Affittasi"...» Un versetto sommesso interrompe la mia lettura.
Un cucciolo dal manto arruffato, di un bianco maculato tranne le orecchie nere, sta allungando le zampette verso di me mentre tenta di mordicchiarmi i vestiti per tirarmi al sicuro giù dal balcone. Essendo un fagotto di appena dieci chili, però, è troppo piccolo per riuscirci.
«Tranquillo, lo sai che non cado» lo rassicuro, ottenendo in cambio un altro guaito lamentoso. «Uffa, va bene».
Stando attento a non scivolare sulla pietra del muretto, bagnata dalla pioggia di stamattina, butto giù i piedi infilati nelle scarpe e mi alzo. Il cagnolino mi segue dentro la camera, scodinzolante.
Secondo l'uomo cattivo, agli animali non serve un nome, di sicuro non a quelli che servono solo per la caccia, ma mi sembrava una cosa così triste che segretamente gliene ho trovato comunque uno: Argo. Proprio come il fedelissimo cane di Ulisse, che gli voleva così bene da aver aspettato il suo ritorno a casa per vent'anni, prima di morire. Magari gli porterà fortuna e vivrà per tanto tempo anche lui, sebbene dubiti che quello dell'Odissea fosse un setter inglese.
Ignorando la sensazione dei pantaloni appiccicati alla pelle, mi abbandono sul pavimento impolverato con la schiena premuta contro la sponda del letto. Quando Argo si avvicina e comincia ad annusare le pagine, sollevo il libro sopra le ginocchia, lontano dalla portata del suo tartufo umido.
«È una bella storia, sai?» Gli do un buffetto affettuoso sul musetto. «Si intitola Oliver Twist. Racconta di un orfano che è cresciuto in un brutto posto e una volta viene anche costretto a rubare, ma alla fine viene adottato da un signore buono e gentile che si prende cura di lui».
Lo stomaco mi si contorce al pensiero di quanto mi rivedo nel protagonista creato da Charles Dickens. Solo, infelice e rifiutato da tutti. Argo si accorge che mi sono intristito e mi lecca ripetutamente il mento, facendomi ridacchiare. «Ce ne andremo anche noi, un giorno. La mamma me l'ha promesso. Ti piacerebbe?»
All'improvviso, il rumore di un vetro infranto mi strappa un sussulto e la voce rauca di Vincent si leva dal piano inferiore: «COSA CAZZO SIGNIFICA? RISPONDIMI!»
Un brivido gelido mi invade le ossa. Tremando, il cucciolo cerca di insinuarsi nello spazio tra le mie gambe e la pancia, seppellendo la testolina sotto il mio maglioncino sfilacciato. Vorrei accarezzarlo per calmarlo, ma in un attimo mi sono trasformato in un fascio di nervi tesi e paralizzati.
Non sento la risposta di mia madre, ma solo un mormorio indistinto di cui non colgo le parole. Poi un colpo secco e uno strillo. Getto in disparte il libro e avvolgo Argo tra le mie braccia sottili, stringendolo forse un po' troppo forte.
«CON DUE BIGLIETTI? DUE? DI SOLA ANDATA?»
Chiudo gli occhi. Viaggio con la mente alle giornate trascorse a Greenwich Park, ai picnic con la mamma e alle nostre passeggiate lungo il Tamigi. Qualche volta siamo anche sgattaiolati fuori città, in campagna. Eppure in questo momento quei ricordi sono tutti sfocati, irraggiungibili.
Esiste soltanto la paura dalla quale non riesco a fuggire, come un'ancora che mi tiene inchiodato al presente.
«HO FATTO DI TUTTO PER AIUTARTI, STRONZA MALATA! HO DATO VIA TUTTO QUELLO CHE AVEVO PER TE E VUOI MOLLARMI? FANCULO!» urla l'uomo cattivo a squarciagola. Segue il suono di uno schiaffo, accompagnato da un altro grido. «E VORRESTI RUBARMI ANCHE MIO NIPOTE? LUI È MIO, NON TUO! SE VUOI ANDARTENE, LO FAI SENZA DI LUI! VATTENE PURE DAL TUO FRATELLINO, VEDIAMO SE...»
Nell'aria esplode un gran fracasso di oggetti che si spaccano o vengono lanciati in aria, impedendomi di ascoltare il resto.
Non so per quanto tempo rimango lì, immobile, con il volto affondato nel pelo del cagnolino premuto al mio petto. È calato il silenzio da qualche minuto, quando Vincent mi ordina di raggiungerlo con quel tono autoritario che mi riempie sempre di terrore all'idea di disobbedirgli.
Mi alzo e deposito sul letto Argo, che mi rivolge uno sguardo spaventato. «Stai qui. Non voglio che ti faccia male» sussurro, asciugandomi le guance sulla manica. Se si accorgesse che ho pianto, si arrabbierebbe tantissimo.
Esco in corridoio e chiudo la porta alle mie spalle, per sicurezza, quindi scendo la rampa di gradini scricchiolanti tenendomi al corrimano. Sto ancora tremando, ma mi sforzo almeno di regolarizzare il respiro. Il cuore mi balza in gola a ogni battito. All'ultimo scalino inciampo, ma vengo subito acciuffato da una presa d'acciaio che mi salva dalla caduta. Un istante dopo, mi ritrovo sbattuto al muro, con delle grosse dita che si serrano sulle mie spalle simili ad artigli.
«Scusa» balbetto di getto, senza sapere esattamente cosa ho fatto di sbagliato. «Mi dispiace».
L'uomo cattivo si china per porsi alla mia altezza. La sua faccia è deformata dalla rabbia e gli occhi sono due buchi neri che si conficcano nei miei, facendomi trasalire. «Lo sapevi? Sapevi che voleva portarti via da me?» Il suo alito puzza di fumo e di birra.
Abbasso la testa, cercando di assumere un atteggiamento sottomesso nella speranza di compiacerlo. Ho troppa paura per mentirgli, ma voglio proteggere la mamma...
«Sei un piccolo bastardo che non merita nulla, tale e quale a tuo padre» ringhia Vincent, afferrandomi per i capelli. Mi scaraventa a terra e mi sferra un calcio che mi mozza il fiato. «Se proprio doveva stuprare quella puttana Blackwood, poteva usare un maledetto preservativo!»
Mi trascino fino all'angolo del soggiorno e mi raggomitolo su me stesso per ripararmi il più possibile in caso di altri colpi. Di sopra, Argo ha preso ad abbaiare e sta raspando furiosamente sul legno della porta, determinato a venire in mio soccorso.
Vincent si mette un giubbotto pesante preso dall'attaccapanni, lo allaccia e mi punta un indice a pochi centimetri dal viso. «Ora vado al lavoro. Ma giuro che se ti azzardi di nuovo a nascondermi qualcosa, qualsiasi cosa, spezzo il collo di quella bestiaccia di fronte a te, chiaro? Tu devi fare quello che dico io, punto».
Annuisco freneticamente, incapace di parlare.
«E smettila di frignare sempre» aggiunge sprezzante, prima di andarsene richiudendo il portone con un tonfo.
Impiego qualche secondo a trovare il coraggio di muovermi. Ho ancora le fitte alla pancia nel punto in cui mi ha colpito, ma sono troppo abituato per badarci granché. Mi indirizzo a passo esitante verso la cucina. Nella mia camera, Argo deve essersi rassegnato.
«M-mamma?»
Lei è seduta al capo opposto del tavolo. I capelli castani le ricadono flaccidi sulle spalle ossute, ha la guancia tumefatta e tiene lo sguardo basso su qualcosa seminascosto sul suo grembo.
Rabbrividisco. «Mamma, stai bene?»
Avanzo ancora un po' e solo allora mi rendo conto che stringe in mano il collo di una bottiglia di birra. Si sta sfiorando il polso con i bordi taglienti, lasciando tanti piccoli taglietti superficiali. Un peso grosso come un macigno mi si conficca nel petto.
«No, mamma! Ti prego, no!» la imploro, correndo per fermarla. Non abbandonarmi, non anche tu. «Io ti voglio bene, non...»
Succede in un battito di ciglia.
Appena le sfioro il braccio, la donna che considero una madre si gira di scatto e un bruciore intenso mi esplode in corrispondenza dell'occhio destro, che mi affretto d'istinto a coprire per evitare di aprirlo.
«Scusa! Scusami, Klaus! Scusami tanto! Non volevo!» L'ultima cosa che ricordo, prima che si accasci sul pavimento, sono le sue iridi verde muschio che mi guardano con disperazione.
E capisco che era una bugia: esistono catene che possono imprigionare anche la mente, e quelle non sempre si possono spezzare.
La cameretta è dipinta con una scrostata vernice azzurra, abbinata alle lunghe tende di velluto blu che pendono rasenti al parquet. La scrivania è disseminata di fogli, colori a pastello, matite, gomme, album di figurine e statuine intagliate con grande minuzia. Su un tavolino basso è montata una pista per automobiline radiocomandate, sulle mensole sono esposte elaborate costruzioni Lego e al muro è appesa una bacheca a scomparti interamente dedicata ai Funko Pop delle sue saghe preferite e dei cartoni Disney.
A quanto pare, da piccola aveva anche un debole per Winnie the Pooh, a giudicare dal pupazzo gigante sul letto.
Ridacchio, facendomi strada tra le palline accartocciate sparse ovunque. In un massiccio cassettone aperto sono contenuti decine di dinosauri giocattolo, insieme a bambolotti dissezionati e gadget vari di Harry Potter. C'è anche un pigiamino di Serpeverde ripiegato senza troppa cura e mi chiedo perché non lo abbia portato con sé a Clayton.
I polmoni mi si svuotano nel notare un imponente armadio di noce alto quasi fino al soffitto, ma mi sforzo di concentrarmi sui disegni attaccati a entrambe le ante. Per avere al massimo dieci anni, era incredibilmente brava già all'epoca. Ignorando il dolore alla schiena, mi accovaccio davanti al comodino, su cui si trova una di quelle lampade che creano l'effetto di un cielo stellato, e prendo una cornice con dentro un biglietto di carta scarabocchiato nella grafia incerta di una bambina.
"Leggi della casa, dettate dalla principessa Keeley Storm.
Chi non le rispetta verrà bruciato tra le fiamme del Monte Fato".
Con un sorriso divertito, scorro il lungo —e assurdo— elenco di regole. Ha addirittura vietato l'ingresso ai "babbani" e imposto il divieto di ordinare una pizza margherita perché, cito testualmente, serve "più fantasia, cialtroni!"
«Klaus, vieni qui!» tuona Vincent, raschiando via quel poco di buonumore che avevo ritrovato.
Con un sospiro pesante, mi raddrizzo e mi sfioro attraverso la camicia nera la bruciatura sul torace, che continua a pulsare sotto la garza. Non sono del tutto sicuro degli eventi di ieri sera, dopo tutte le rivelazioni che mi ha fatto e la fine di quel giochino alcolico, ma per ora ricordare non è la mia priorità.
Esco dalla stanza di Keeley e cammino lungo il portico sospeso, delimitato sul lato esterno da ringhiere di ferro battuto arricchite da intricate volute.
Nel cortile centrale, il tavolo è stato allestito con una mezza dozzina di vassoi di pasticcini, donuts e brioche. Quattro calici d'argento brillano alla luce del sole, accanto a brocche di vetro ricolme di succo di frutta o spremuta. Malgrado soffi una lieve brezza frizzante, non è freddo e il cielo è tinto di un piacevole azzurro pallido.
In altre circostanze, l'avrei definita una bella giornata.
«Eccoti» esclama Vincent, sbucando da una delle porte al pianoterra. Indossa una maglia sporca di polvere e ha le maniche arrotolate fino ai gomiti; deve aver appena finito di mettere a soqquadro la biblioteca. Devastare la casa è diventato il suo nuovo hobby, per qualche ragione. «Che stavi facendo?»
Percorro lentamente la scala di legno. «Esploravo in giro. Non pensavo mi fosse vietato».
«No no, puoi farlo. Ma questo posto è così grande...» Un ghigno gli si dipinge sul viso sfigurato. «Preferisco sapere sempre dove sei».
Devo attingere a tutta la mia forza di volontà per mantenere un'espressione impassibile. «Certo» replico nel tono docile che gli piace tanto, saltando l'ultimo gradino. Accenno a quella sorta di banchetto. «Aspettiamo ospiti o hai deciso di ucciderti con il diabete?»
Vincent scoppia in una risata raschiante. «È per te, in realtà». Mi circonda le spalle con un braccio e mi attira a sé, facendomi irrigidire. «Consideralo un modo per chiederti scusa. Ho esagerato, non capiterà mai più».
Il calore del suo respiro sul mio collo mi provoca un tale senso di nausea che devo schiarirmi la gola per ricacciarla giù. Non provo nemmeno a oppormi quando mi sospinge sulla poltrona più vicina, obbligandomi a sedermi.
«Ho preso anche i cornetti al cioccolato. Li adoravi da piccolo» dice, puntellando i gomiti sullo schienale. «Ogni volta che passavamo davanti a una pasticceria, ti fermavi a guardarli».
Aggrotto la fronte, sorpreso. Non credevo se lo ricordasse... chissà se il modo in cui mi strattonava lontano dalla vetrina lo ha rimosso o gli è soltanto più comodo non parlarne. «Quindi questa roba l'hai comprata o rubata?»
«Se l'ho comprata con soldi rubati, qual è la risposta giusta?» Sogghignando, Vincent si protende in avanti e mi sfiora i capelli con il naso. «Come vanno i postumi da sbronza?»
Cercando di non appoggiarmi alla schiena dolorante, prendo un piatto e comincio distrattamente a metterci dolciumi pescati dai vassoi, più per distrarmi che per appetito. Ho lo stomaco sigillato. «Meglio. Ho preso un'aspirina».
«Bene, voglio che ti godi la tua colazione». Mi sistema il colletto, pizzicandomi la pelle sensibile del collo. «Più tardi, avrai un altro bel regalo da scartare».
La nota eccitata che gli trapela dalla voce mi riempie d'inquietudine. «E sarebbe?» domando con apparente distacco.
Vincent tace per qualche secondo, poi mi posa il mento sulla nuca espirando. «Ho invitato qui il resto della nostra famiglia allargata».
Balzo in piedi, sgusciandogli sotto il braccio, quindi mi volto a fissarlo con uno sguardo gelido. «Che hai fatto?»
«Non capisco perché te la sei presa». Vincent increspa le sopracciglia, e mi appare sinceramente perplesso. «Ero convinto che saresti stato felice di avere William con noi. Non è il tuo fratellastro preferito?»
Con il sangue che mi ribolle nelle vene, accenno ai calici sul tavolo. «Quattro» sbotto, contraendo la mascella. «Io, te, Liam. Chi manca?»
«Puoi arrivarci, ragazzino».
Alla vista del suo sorrisetto subdolo, la mia mente si svuota completamente e per un attimo dimentico che non gli ho ancora strappato una confessione o che potrebbe sapere molto più di quanto sostiene su mio padre. Non mi importa neanche che è tre volte più grosso di me. Il mio unico pensiero è Keeley.
Quando gli sferro un pugno con tutta la forza che ho in corpo, l'impatto dell'anello contro l'osso produce un rumore secco. «Lei non la tocchi».
Colto alla sprovvista, Vincent barcolla e indietreggia di un passo. Mentre un cipiglio stupito gli si dipinge sulla faccia, si strofina lentamente la bocca e osserva la macchia rossa sul dorso della mano con una certa curiosità. «Wow! Non me l'aspettavo da te, piccolino».
«Non ho più undici anni» sibilo in tono freddo, guardandomi intorno.
Nei paraggi non ci sono coltelli, forchette o oggetti pesanti con cui potermi difendere, se provasse ad attaccarmi. Poiché non ho nessuna possibilità di riuscire a sopraffarlo fisicamente, le opzioni che restano sono due: entrare in una stanza a caso e cercare un'arma oppure fuggire dal portone principale. È distante solo una decina di metri, potrei farcela, ma c'è comunque il rischio che sia chiuso a chiave.
«Parti dal presupposto sbagliato». Vincent prende a tamburellare le dita sulla tovaglia cremisi man mano che mi si avvicina. «Non voglio fare del male alla tua Storm di riserva, non ne avrei motivo. Voglio solo una cosa che mi ha già assicurato di avere».
«O magari vuoi vendicarti per quello che ha fatto suo padre». Comincio ad arretrare in direzione del piccolo soggiorno.
Non è la stanza più accessibile dalla mia posizione, ma almeno ci sono già stato; inoltre, so che si trova accanto a un salotto più grande con un camino. E con un robusto attizzatoio.
«Mi confondi con Alizée. Io non punisco i figli per le colpe dei padri».
Mi fermo di colpo. «Quando ti hanno dimesso dalla clinica?»
«Che?» replica lui, interdetto per il cambio d'argomento.
«La clinica a Londra, quella in cui hai passato gli ultimi sette anni». Ruoto l'anello con il leone attorno all'indice. «Quando ne sei uscito?»
«Un mesetto fa». Vincent allarga le braccia come per abbracciarmi, senza smettere di ridurre la distanza tra noi. «La prima cosa che ho fatto è stata venire da te. Ti ho anche restituito il braccialetto, no?»
«E allora come sapevi che Elizabeth era identica a Keeley?»
L'uomo si sposta verso destra. A quel punto, capisco che mi era sfuggito un dettaglio: prima non ha visto arrivare il colpo, perché io sono mancino e il suo occhio sinistro è cieco. Per questo gli è più difficile tenermi nel suo ristretto campo visivo. «C'era una sua foto sui giornali. Qual è il...»
Scuoto il capo. «Impossibile. A novembre, Alizée aveva già fatto sparire ogni traccia di quella vicenda, pur di proteggere la reputazione degli Hallander. Persino Keeley ha scoperto di Elizabeth soltanto grazie a Jonas. Quindi ripeto: come sapevi che erano identiche?» Non aspetto neanche la sua risposta e proseguo: «Lo sai perché tu c'eri, quella notte. Eri allo chalet, me lo ricordo».
«Non eri lucido, Klaus».
Arcuo un sopracciglio. «Curioso, sono certo di non averti mai detto niente delle allucinazioni... ma non serviva, vero? Il drink che ho bevuto, sei stato tu a drogarlo. Ammettilo».
Vincent esita un attimo, infine scoppia in una risata sguaiata. «Io ho solo dato una spintarella a un ragazzino arrapato, nient'altro. Purtroppo, però, non lo ha bevuto la tua piccola... Eileen, giusto?» sghignazza, sputando poi un grumo di catarro rossastro a terra. «Sarebbe stato così poetico, se la peggiore paura di Alizée per la sua unica figlia femmina si fosse realizzata nello stesso giorno in cui lei ha rovinato la vita di Michael. Una giustizia divina».
Razionalmente, so che dovrei dare retta alla vocina nel mio cervello che mi ripete che sta soltanto cercando di provocarmi e che sarebbe da idioti abboccare. Ma sentirgli nominare mia sorella mi fa perdere il controllo.
Mi scaglio in avanti e lo colpisco di nuovo. Questa volta Vincent non si smuove di un centimetro, anzi la sua reazione è immediata: mentre ritiro il braccio, riesce ad agguantarmi per il polso e mi dà un manrovescio così violento da farmi cadere a carponi. Non ho il tempo di rialzarmi che un calcio mi manda steso sul pavimento di marmo crepato e un altro mi rovescia a pancia in su con un gemito.
«Questo me l'aspettavo, invece». Vincent si siede su di me, schiacciandomi sotto il suo peso fino a togliermi il respiro e bloccandomi le braccia con le ginocchia. «Sono deluso, Klaus. Davvero. Speravo di farlo in maniera diversa».
A ogni movimento le ferite sulla schiena mi scatenano una serie di fitte lancinanti, ma continuo a dimenarmi furiosamente nel tentativo di scrollarmelo di dosso. Alla fine, mi ritrovo senza fiato, intento ad annaspare alla ricerca d'ossigeno. Avverto le energie venir meno a poco a poco e il cranio che minaccia di scoppiare, finché sono costretto ad arrendermi.
Vincent si solleva un poco, allentando la pressione sulla cassa toracica quanto basta per permettere all'aria di arrivare ai polmoni. «Immaginavo che stare con Alizée ti avrebbe reso più... ribelle, ma non importa». Mentre mi stringe la mandibola con una mano, mette l'altra nella tasca dei pantaloni, ne estrae un flaconcino e lo apre con i denti. «Tornerai a essere obbediente, vedrai».
Mi ficca in bocca due pastiglie e me la chiude con il palmo, tappandomi anche il naso per indurmi a deglutirle. Per poco non mi strozzo ed esplodo in un colpo di tosse, prima di sentirle scendere giù per la gola.
In pochi minuti, il mio cuore –che prima batteva all'impazzata– inizia a rallentare, accompagnato da una crescente sensazione di stordimento.
Appena Vincent si scansa, rotolo di lato e riesco ad alzarmi a fatica, pur avendo le gambe intorpidite. Ma lui subito mi cinge con fermezza sotto le ascelle e mi rigetta malamente sulla poltrona, facendomi urtare il fianco allo spigolo del tavolo imbandito di dolci.
Un freddo refolo di vento mi investe, staccando le ciocche bionde che aderivano alla fronte imperlata di sudore. Il sole risplende di un vivido color arancio, accendendo di riflessi perlacei le bianche colonne ricoperte di incrostazioni.
«Cosa... cosa mi hai dato?» biascico, strizzando le palpebre.
«Un sedativo, giusto per ammansirti un po'. Dovrebbe agire in fretta». Vincent si inginocchia accanto a me e mi lega i polsi ai braccioli con delle fascette di plastica resistente. Aveva già preparato tutto, non c'è altra spiegazione. «Ti voglio buono, quando William si unirà a noi. Muoio dalla voglia di conoscerlo».
Abbozzo un mezzo sorriso, sentendo il mio corpo farsi ogni secondo sempre più rilassato. «Attento, potrebbe prenderti alla lettera».
«Non sei venuto da me solo per chiedermi di tuo padre, vero?» mi incalza lui, ignorandomi. «Volevi trovare delle prove per collegarmi alla morte della tua Storm numero uno, ecco il perché di tutte quelle domande. E quando ti ho mandato a procurarmi le sigarette, ero certo che avresti contattato William e lo hai fatto. Questo mi fa pensare che tu abbia un piano, magari qualcosa addosso per registrarmi». Un lampo ferino gli guizza sul volto. «Temo che dovrò controllare».
Provo a dare uno strattone alle fascette, ma i muscoli ormai non rispondono più ai miei comandi. E poi sono troppo esausto per combatterlo. «No, non toccarmi» protesto debolmente, accorgendomi che Vincent mi sta slacciando la camicia.
Arrivato all'ultimo bottone, si ferma. Con uno sguardo bramoso, osserva il mio fisico scoperto, soffermandosi sui nuovi lividi che si stanno formando sul fianco e sulla pancia. Stuzzica con un dito la fascia che copre la recente bruciatura, sotto la clavicola, per poi accarezzarmi le cicatrici tonde sul petto.
Lo vedo fremere di piacere e, se non avessi la mente tanto annebbiata, in questo momento proverei ribrezzo o paura. O entrambe.
Invece, sento solo quella stessa impotenza che si impossessava di me quando ero piccolo e mi caricava sulle sue ginocchia. La consapevolezza di essere in totale balia di un mostro che non solo vuole, ma desidera farmi del male.
«Scusate l'interruzione» esordisce una voce vagamente famigliare. «Ma solo a me sembra un incredibile déjà vu?»
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