65. INCIDENTI PT.1
«Dobbiamo continuare a far finta di non esistere, secondo te?» mi chiede Alaric, appoggiato al coperchio del pianoforte.
«Io propongo di preparare dei popcorn e goderci lo spettacolo».
Faccio un altro disperato tentativo di riprendere la bottiglia di gin, senza alzarmi dallo sgabello, ma la solleva di nuovo fuori dalla mia portata.
«Guardate che vi sento!» Eileen getta una coperta su Jonas, sprofondato di nuovo nel sonno. Lo fa con un gesto noncurante, come per farci credere che non le importi davvero se stava tremando infreddolito sul divano.
Si volta verso di noi con le braccia incrociate sul petto. «Se osate dirlo a qualcuno, giuro che vi strangolo tutti e due».
Alaric sfodera un sorrisetto ironico. «Ti rendi conto che la nostra morte prematura farebbe soffrire ben tre dei tuoi fratelli?»
«Oh beh, Klaus soffrirà comunque» replica Eileen, scacciandosi un boccolo ramato dalla spalla. «Quando tornerà a casa, prima lo abbraccio e poi lo prendo a sberle!» Nonostante il tono brusco, il lieve tremito nella voce tradisce tutta la sua preoccupazione.
Ho sempre pensato di non avere nulla in comune con l'unica ragazza della cucciolata, ma forse persino noi due abbiamo un punto d'incontro. Anche se in questo momento siamo entrambe in bilico tra volerlo riavere sano e salvo con noi o poterlo uccidere con le nostre mani.
Un frastuono di passi che scendono le scale prende a rimbombare tra le pareti e, dopo qualche secondo, Kal irrompe in soggiorno peggio di un tornado. «VOI NON CI CREDERETE MAI!» urla trattenendo a stento le risate. «Sapete chi c'è di sopra? La cameriera! La tipa che piace a Liam!»
Mi porto una mano alla bocca, fingendomi scioccata. «No, ma non mi dire!»
Kal fa per ribattere, ma si blocca quando si rende conto della presenza di Alaric accanto a me. Aggrotta la fronte, ruota la testa e i suoi occhi neri si posano su Jonas, facendosi ancora più confuso. «Allora, le opzioni sono due: o Ric lo ha pestato di brutto o Leen è più violenta di quanto credessi».
«Oh, ma dai! Anche tu?» obietta Alaric indignato. «Scusate, ma che razza di opinione avete di me, voi Hallander?»
Lo guardo torva. «Quella di un guastafeste che mi ha rubato il gin».
«Ehi, anch'io voglio bere!»
«No, Kal! Scordatelo!» Eileen attraversa a passi spediti il soggiorno, confisca la bottiglia ormai mezza vuota e la ripone nel frigo bar. «Fra voi e zio Matt, questa sembra la sagra degli alcolizzati».
Kal, che già si accingeva a recuperare il bicchiere lasciato sul tavolo, emette uno sbuffo. «E saliamo a quota due guastafeste. Keel, rimarremo degli eterni incompresi» bofonchia, afflosciandosi su una poltrona. «Sei venuto per Ed, comunque?»
Alaric fa una smorfia. «Non tutto quello che faccio è per Edric». Appena si accorge delle nostre facce scettiche, aggiunge: «Okay, il 70% lo è. Non di più».
Kal sbadiglia, grattandosi la pancia piatta. «Dov'è Klaus? Di sicuro non si starà annoiando quanto me in questo posto».
«Ric ha detto che non è potuto venire, ma ci saluta» mente Eileen.
Le rivolgo un cipiglio interrogativo, che ricambia scuotendo il capo. È sufficiente a farmi capire che non ha nessuna intenzione di coinvolgere un ragazzino di quindici anni nella possibile scomparsa del fratello maggiore. Tutto sommato, non posso neanche biasimarla.
«Beh, non so cosa stiate combinando, ma muoio dalla voglia di vedere la reazione del nostro Willy quando vedrà che avete portato qui la sua cameriera!» Sogghignando, Kal intreccia le mani dietro la nuca e vedo i bicipiti che gli guizzano sotto la t-shirt su cui è stampata una vertiginosa spirale di colori. «Volevo dirglielo, ma è andato subito a cambiarsi».
Scatto in piedi come una molla. «È tornato?»
«Sì, poco fa. Ma non credo gli farà piacere sapere che Jonas...»
Non ascolto il resto della frase.
Mi fiondo fuori dal salotto e comincio a salire a due a due i gradini che si arrampicano ad ampi cerchi contro il muro. Giunta in cima, imbocco il corridoio sulla destra e spalanco la porta in fondo senza tanti complimenti.
Liam si gira con uno dei suoi movimenti controllati. È immobile vicino al comodino, con addosso solo un paio di pantaloni eleganti piuttosto fradici. I suoi capelli castani sono umidi di pioggia e gocce d'acqua gli colano lungo i solchi netti degli addominali. «Non per essere maleducato, ma gradirei un po' di privacy».
«Spilungone, non è nulla che io non abbia già visto» faccio notare.
La sua stanza è sorprendentemente simile a quella di Klaus, alla villa. In ogni angolo regna quello stesso ordine al limite dell'ossessività, con una quantità incredibile di libri riposti con cura sugli scaffali, il letto rifatto senza nemmeno una piega e un profumo di pulito che aleggia nell'aria. Sulla scrivania c'è un microscopio e tutto intorno, ovviamente disposti secondo qualche rigoroso criterio, è pieno di fiale etichettate e contenitori per pinze, morsetti, pipette e altra roba da scienziati.
«Non voglio approfondire l'argomento» taglia corto Eileen, entrando a sua volta. «Da quanto non senti nostro fratello?»
Con la solita nonchalance, Liam prende un fazzoletto dal comodino, asciuga il vetro del suo orologio da polso e sbircia l'ora per un attimo. «Tre ore e trentasette minuti».
Lei tira un sospiro di sollievo. «Oh, grazie al cielo! Quindi sta bene?»
«Per quanto ne so». Si mette davanti allo specchio, prendendo a passarsi un asciugamano sul busto. «Non dovrebbe?»
Forse è solo una mia impressione, ma la sua risposta mi è parsa fin troppo... evasiva. Ad essere onesta, qualsiasi cosa Liam dica o faccia è difficile da decifrare per me; basti pensare che, dopo tre mesi, non ho ancora capito se gli piaccio almeno un po' o se mi trova insopportabile.
«È difficile da spiegare...»
«Io ho una buona capacità di sintesi» la interrompo, scansandomi per permettere a Liam di aprire l'armadio, che si rivela pieno di completi costosi su entrambi i lati. «Jonas ha visto il biondino a spasso con il suo zio psicotico appassionato di cioccolata calda. Se ne sarebbe volentieri fregato, ma dopo un'illuminante scazzottata si è ricordato che aspira al sesso bollente con vostra sorella. Morale: adesso giace svenuto in soggiorno insieme al ragazzo gelloso, che è in lutto per la tragica sorte toccata alla preziosa moquette della sua auto». Mi gratto il mento, pensierosa. «Credo di aver dimenticato un dettaglio».
«Lascia stare. È ubriaca». Eileen mi scocca un'occhiata talmente furiosa che ho quasi paura che voglia saltarmi addosso per strangolarmi. «Il punto è che non abbiamo idea di dove sia Klaus. Sappiamo solo che ha inventato una scusa idiota per incontrarsi con quel pazzo maniaco, da allora ignora le chiamate di Ric e si è come volatilizzato. Siamo preoccupati. Cosa ti ha detto quando avete parlato? Che sta combinando?»
Liam rimane in silenzio, infilandosi una camicia bianca con meticolosa lentezza. Nonostante la sua espressione non tradisca nessun sentimento, se non la pacata compostezza di sempre, sono certa di aver visto per un attimo un'ombra balenargli sul volto. «È fuori città. Lo riporterò a casa molto presto, hai la mia parola».
«Che significa "fuori città"? Fino a prova contraria, siamo noi quelli fuori città. Il biondino invece dovrebbe essere in città» insisto, sempre più stranita dal suo comportamento così elusivo. «E, non per fare insinuazioni, ma non dovresti essere un pelino più sconvolto da questa storia? Va bene che hai la capacità empatica di un vulcaniano...»
«Oh, ti prego, stai zitta!» Eileen mi supera con una gomitata e si avvicina al fratello. Pur essendo più bassa di almeno venti centimetri, in questo momento sembra sovrastarlo. «Tu odi mentire, quindi non farlo. Dov'è nostro fratello?»
Gli occhi glauchi di Liam si allacciano ai suoi verde smeraldo. «Devi fidarti di me. Per favore. Sai che farò tutto ciò che è in mio potere per proteggerlo».
«È con Vincent?» domanda con un tremito che le attraversa la voce.
«Sì, ma non ci rimarrà ancora per molto».
Eileen arretra di colpo con l'aria di chi ha appena ricevuto un pugno più forte di quello che si aspettava. Si accascia sul bordo del materasso, affondando le mani tra i capelli ramati.
Io, invece, provo solo un'immensa rabbia. Una rabbia distruttiva, molto simile a quella che mi aveva travolta nello scoprire della presunta morte di mio padre, o che mi aveva spinta a gridargli contro quando ho avuto l'occasione di parlargli al telefono, nell'appartamento di Gladys.
Ho passato mesi interi a indagare con Klaus su questa faccenda. La notte in cui ci siamo baciati, mi ha anche detto che avrebbe fatto qualsiasi cosa per me, per rendermi felice.
Dovevo immaginare che questo, per lui, implicava anche accettare di affrontare il mostro da cui è terrorizzato da tutta la vita. Solo per darmi quella tanto agognata verità di cui è convinto che io abbia bisogno. Lo sta facendo per me, ancora più che per sé stesso.
«William».
Tutti e tre ci voltiamo di scatto.
Arianne è ferma sulla soglia, avvolta in un maglione azzurro a grandi trecce che prima non aveva. Ha anche raccolto i ricci scuri in uno chignon improvvisato, con alcune ciocche a incorniciarle il viso a forma di cuore.
Il suo sguardo sta timidamente sostenendo quello di Liam, eppure ogni tanto scivola a esplorargli il fisico statuario visibile grazie alla camicia aperta. Gli osserva le spalle larghe che confluiscono in un petto ampio e sodo, i muscoli marmorei del ventre, i fianchi ben definiti e le guance le si infiammano quando si scontra con la cintura dei pantaloni.
«Ah, ecco che avevo scordato». Con uno sbuffo, accenno al maglione che indossa. «Sei fortunata che sia della rossa e non mio».
«Gliel'ho dato io. Aveva freddo» spiega Simon, appoggiandosi allo stipite della porta. Appena si accorge del viso cereo della gemella, increspa le sopracciglia. «Che succede?»
Liam comincia ad abbottonarsi con fare agitato, senza riuscire a smettere di guardare Arianne nemmeno per un battito di ciglia. Per una volta, sembra davvero un adolescente impacciato alle prese con una gran bella cotta. «Come... perché sei venuta?»
«È una lunga storia» replica lei, stringendosi il gomito con la mano. «La versione breve è che volevo parlarti».
«Sono un po' impegnato, attualmente. Scusami».
Arianne fa una smorfia sarcastica. «Sì, la tua famiglia è la priorità assoluta e non vuoi distrazioni. Sei stato chiaro» esclama con una punta di delusione.
«Non sono state le mie esatte parole». Arrossendo, Liam si sistema di nuovo il colletto già impeccabile della camicia, come se fosse una sorta di tic nervoso. «Non ti ho mai definita una distrazione».
«Sì, beh, ho letto tra le righe».
Con un sospiro, lui tira fuori un completo blu reale e una cravatta a righe abbinata che inizia ad annodare con forzata disinvoltura. Stizzita, Arianne lo raggiunge a passo di marcia di fronte allo specchio, gli afferra un braccio e lo costringe a girarsi. «Puoi non ignorarmi, per favore?»
«Forse dovremmo andarcene» obietta Simon a disagio.
«Non ti ignoro». Con estrema delicatezza Liam scioglie la presa delle sue dita sulla manica, ma esita un attimo prima di lasciarla. «Ho delle questioni importanti da risolvere. E tu non dovresti nemmeno essere qui».
Annuisco. «Dovremmo decisamente andarcene. Ho già assistito ad abbastanza scene alla Titanic per oggi».
«So che sei preoccupato per tuo fratello, anzi per tutti i tuoi fratelli, ma hai diritto anche a pensare a te stesso. È questo che volevo dire ieri. Io non...» Arianne si blocca per guardarci, quasi si sia resa conto solo ora di avere degli spettatori, e sussurra a Liam con tenerezza: «Cinque minuti da soli. Non voglio altro».
«Io ci sto» borbotto, avviandomi verso l'uscita. «Ma vi ricordo che in questa casa si sente tutto tutto, birbantelli».
Eileen balza in piedi. «Mi spieghi come cazzo fai a sbattertene in questo modo?» grida furibonda.
Mi paralizzo in prossimità della porta, arcuando un sopracciglio in direzione della ragazza. «Eh?»
«Sorella» la ammonisce Liam.
«No! Non difenderla! Klaus è andato da Vincent per colpa sua, lei è l'unica ragione per cui potrebbe aver fatto una cosa così assurda, ci scommetto! E, invece di preoccuparsi, pensa solo a bere e a fare battutine idiote!» Eileen mi fissa in cagnesco con lo sguardo gelido che ha ereditato dalla madre. «Che tu fossi egoista si era capito, ma credevo che almeno Klaus contasse qualcosa per te».
Una freccia che mi trapassa da parte a parte, questa è la sensazione. E la consapevolezza che ha ragione è un secondo dardo avvelenato che mi viene rigirato nella carne, scavando sempre più in profondità.
«Se vuoi trovare un colpevole, prenditela con me. Keeley non...»
Faccio un cenno a Liam per zittirlo. «No no. È tutto vero» replico, alzando l'indice. «Ma, da stronza egoista e insensibile, vorrei far notare che il biondino è adulto e vaccinato. Le sue decisioni sono le sue decisioni, punto. Non è affar mio se vuole farsi del male e sta usando me come scusa».
Bugie su bugie che sputo dalla bocca.
Forse somiglio a mio padre anche sotto questo aspetto: mentiamo agli altri, nell'illusione di proteggerci. Perché è la via più semplice, la scappatoia per i codardi che non vogliono ammettere di non essere invulnerabili, con la stupidità di chi si ostina a nascondere una ferita sanguinante, ignorando che l'emorragia lo ucciderà comunque anche senza poterla vedere.
Ma ehi, noi Storm siamo un'eterna contraddizione!
Mentre gli passo accanto per lasciare la stanza, Simon mi chiama per nome con un'espressione comprensiva. Lo ascolto a malapena, accelerando quando lo sento rincorrermi nel corridoio, ma alla fine riesce ad affiancarmi in cima alle scale. «Non lo pensa davvero, Keeley. Nessuno pensa quelle cose su di te».
«Tutti pensano quelle cose su di me, carotino» biascico in tono annoiato, scendendo rapida i gradini. «Sono bella e cattiva, che vuoi farci?»
Inseguendomi fino a metà rampa, Simon mi agguanta per il polso per fermarmi. «È ciò che mostri, non ciò che sei».
Mi libero con uno strattone così violento da andare a sbattere contro la porta in frassino che conduce al pensatoio. Non c'è un motivo specifico: abbasso la maniglia e mi rifugio al suo interno, girando la chiave nella serratura.
Mi ritrovo in un ambiente rettangolare delle dimensioni di uno sgabuzzino, angusto e insolitamente caldo. Addirittura ardente. L'unica fonte di illuminazione è un oblò velato da una cortina di velluto, che si affaccia su un'immensa valle irrigata di canali sormontata da un cielo grigio come il piombo su cui ammiccano le prime stelle. Nubi nere e dense continuano a riversare una pioggia furiosa, sovrastando con la sua melodia scrosciante i nitriti spaventati dei cavalli nelle stalle o i latrati irrequieti dei cani.
Butto a terra le cartacce che occupano la poltrona di pelle della scrivania, anch'essa invasa da libri e fogli sparpagliati ovunque, e mi ci abbandono sopra. Lo schienale emette uno scricchiolio inquietante, piegandosi tanto all'indietro da darmi la sensazione di stare per ribaltarmi. È anche terribilmente scomoda.
Lo sguardo mi cade di sfuggita su una foto impolverata vicino a una vecchia lampada. Ritrae una bambina -innegabilmente stupenda- agghindata in un vestitino bianco dai ricami argentei e una profonda scollatura sotto l'orlo di pizzo, malgrado sia ancora troppo piccola per avere qualcosa da esibire. Con lunghi boccoli ramati che le ricadono sulle spalle esili, il visetto dai lineamenti precisi e sfuggenti, le adorabili fossette sulle guance e un paio di luminosi smeraldi, promette già di diventare una ragazza di straordinaria bellezza.
Accanto a lei, un uomo calvo sulla settantina, basso e tarchiato, che riconosco come Jonathan Blackwood sta sorridendo all'imbronciata mini-Alizée. I suoi occhi, identici a quelli della figlia, scintillano di un affetto avido che non ha nulla di paterno. Somiglia più all'orgoglio di un amante degli affari a cui la natura e la genetica hanno arricchito il patrimonio con una moneta rara e dal valore inestimabile.
Estraggo il telefono dalla tasca, lo accendo e subito compare la notifica di una chiamata persa proveniente da un numero sconosciuto di... New Orleans. La mia città.
Corrugo la fronte, stupita dalla coincidenza, ma poi la mia attenzione è attirata da un messaggio risalente alle quattro e mezza di pomeriggio, l'ora in cui stavo facendo il picnic con Simon. Il mio cuore manca un battito quando leggo il nome del mittente: Klaus.
"Richiamami. Dobbiamo parlare".
Con le mani tremanti, apro la rubrica e clicco sul suo contatto, portandomi lo schermo all'orecchio al suono del primo squillo. Anche il secondo va a vuoto. Sto quasi per rinunciare, ma poi il terzo si interrompe bruscamente e viene sostituito da un'esplosione di musica jazz mista a grida concitate che mi obbliga ad allontanare l'apparecchio per non rompermi un timpano.
«Klaus?» esordisco speranzosa.
«No. Ritenta».
Quella voce rauca, raschiante come carta vetrata, mi congela il sangue nelle vene. È del tutto sconosciuta, eppure mi riempie di un cocente senso di disprezzo. Anzi, disgusto allo stato puro. «Te lo giuro, Freddy Krueger con un sasso vuoto nella scatola cranica, se lo hai sfiorato anche solo con un dito...»
«Che cosa mi fai?» Una risata sguaiata sovrasta il frastuono di sottofondo. «L'influenza degli Hallander non ti fa bene, ragazzina».
«Passami Klaus, o quando vengo a New Orleans ti spacco quel poco di faccia che ti ha lasciato intatta mio padre!»
«Non posso. Il lungo viaggio lo ha sfinito e adesso sta riposando. Mi dispiacerebbe svegliarlo» ribatte Vincent in tono premuroso. «Sembra un angioletto».
Mi alzo di scatto, le gambe molli come gelatina che mi sorreggono a stento. «P-A-S-S-A-M-E-L-O!» ringhio, scandendo bene ogni lettera. «Perché ti assicuro che non avremo nessuna conversazione finché non saprò che sta bene».
«È proprio vicino a me. E no, non sta bene. L'ho fatto bere un pochino per renderlo più docile, ma ancora non ha imparato a reggere l'alcol. Al momento, sarebbe molto facile per me farci quello che voglio». Segue una breve pausa in cui avverto una paura artigliante strisciarmi nello stomaco, quasi bruciando. «Bene, questo per chiarire chi dei due è nella condizione di fare minacce».
Serro forte il pugno lungo il fianco mentre lotto contro l'impulso di scagliare via il telefono. «Mi hai mandato un messaggio, volevi parlarmi. Perché?»
«Un po' perché volevo conoscerti. Capire questa ossessione del mio nipotino per voi Storm, magari». Non posso vederlo, ma scommetterei che è appena affiorato un ghigno sul suo orrendo muso sfigurato. «A questo proposito, comincia a essere snervante che ci sia sempre qualcuno della tua famiglia pronto rubarmi ciò che mi appartiene».
«Sarà scioccante per il tuo cervello da primate, ma ti informo che le persone non sono proprietà di nessuno. Klaus non è una tua proprietà».
«L'amore è possesso, ragazzina. È egoismo. Quando amiamo qualcuno, quel qualcuno diventa nostro e non vogliamo condividerlo con il resto del mondo. E tu non gli vorrai mai bene quanto gliene voglio io».
La fermezza, la convinzione assoluta di cui sono intrise le sue parole mi lasciano esterrefatta. Non sta fingendo. Lo avevo sempre immaginato come un mostro che godeva a sfogare il suo odio ingiustificato su un bambino indifeso, ma non è soltanto questo.
No, lui ci crede davvero. Crede profondamente che quello che prova per Klaus e tutta la violenza, fisica e psicologica, che gli ha inflitto possano essere chiamati "affetto".
«Perdonami, sto divagando». Vincent prorompe in un colpo di tosse e lo sento sputare. «Ci sono due cose che voglio e, ironicamente, potresti averle entrambe. Portamele e prometto che non solo ti permetterò di parlare con il mio nipotino, ma lo lascerò anche venire via con te, se sarà ciò che preferisce. Cosa che non succederà mai, tra parentesi».
"Bugiardo parassita, strozzati con le tue budella!" vorrei gridargli addosso. Il pensiero di cosa potrebbe fare a Klaus, però, mi trattiene. «E se invece ti denunciassi? In questo secolo, il rapimento è un reato, deficiente».
Va bene, mi è sfuggito.
«Rapimento? Guarda che è venuto di sua spontanea volontà. In effetti, non ho fatto proprio nulla di illegale a parte qualche piccolo furto, ma non dovrebbe essere un problema per chi è innamorato di un potenziale assassino, no?» sghignazza, facendomi fremere dalla voglia di ficcargli il mio coltellino tra le gambe.
«Klaus è innocente».
«Cerco un oggetto» prosegue, ignorandomi. «Di tua madre. Un registratore, per l'esattezza. Non lo trovo a casa vostra, quindi ci sono due alternative: o lo hai tu o lo ha il tuo papà».
Aggrotto la fronte. Anche Ian mi aveva chiesto di un registratore, il giorno in cui mi ha regalato l'atelier alla villa, anche se ancora non ho capito se lo abbia fatto per un proprio interesse o glielo aveva ordinato Alizée. «A che ti serve un aggeggio vecchio di vent'anni?»
«Mmh, vediamo. Se ti dicessi», un verso simile a un grugnito strozzato gli scaturisce dalla gola, «che la tua mamma lo aveva con sé al suo matrimonio? E che è sparito nel nulla, dopo quella misteriosa e del tutto casuale caduta per le scale?»
Mi irrigidisco, appollaiandomi sul bordo della scrivania, ma non riesco a trovare il coraggio di aprire bocca.
Mia madre.
«Prima che tu mi possa accusare di chissà cosa, ti avviso che non c'ero nemmeno a quelle nozze. Ma è curioso che tutte le persone troppo legate agli Hallander abbiano la tendenza a morire in bizzarre circostanze, non pensi?»
Scuoto la testa con foga e sibilo furibonda: «Per quanto ne so, questa potrebbe essere solo una stupida favoletta che ti stai inventando!»
«C'è un modo molto semplice per scoprirlo» commenta Vincent beffardo. «Ammesso che tu abbia quel registratore, certo».
«Potrei averlo» mormoro cauta. «E l'altra cosa che vuoi? Qualche punto in più di quoziente intellettivo?»
La risposta mi coglie alla sprovvista.
«William».
Spiazzata, non ho neanche il tempo di metabolizzare il concetto che ha già riattaccato. E mentre il mio cervello lavora febbrilmente per superare il guasto improvviso, la domanda mi sorge spontanea: e che c'entra Liam, adesso?
Ed è allora mi ricordo del registratore.
Ficco il telefono in tasca, spalanco la porta e torno sulle scale, rabbrividendo quando vengo travolta da un'ondata di freddo. Nell'atrio, Kal sta cercando in ogni modo di impedire a sua nonna di entrare in soggiorno per apparecchiare, sparando una scusa meno plausibile dell'altra.
Io però mi precipito verso il piano superiore, correndo a rinchiudermi nella camera mia e di Eileen. Sapevo che non l'avrei trovata, dato che nel corridoio riecheggiano ancora le sue grida provenienti dalla stanza di Liam. Non sento la voce di nessun altro, ma non ho dubbi che stiano litigando. Per Klaus.
Scavalco le varie borse disseminate in giro fino a gettarmi sulla mia valigia e prendo a rovistare furiosamente, scaraventando a mezz'aria tutte le felpe e le maglie che mi intralciano nella ricerca. Appena le mie dita incontrano il legno, afferro il robusto scrigno, giro a fatica la chiave arrugginita e, con il cuore che mi galoppa nel petto, rovescio tutto il contenuto sul mio letto.
Avendo trascorso dieci anni a vagheggiare su quali fossero i tesori che mia madre aveva ritenuto abbastanza importanti da essere custoditi all'interno di quel bauletto, nella mia mente si erano create aspettative forse fin troppo alte. E anche per questo probabilmente rimango piuttosto delusa, o meglio confusa.
Una fialetta di vetro vuota, un'elaborata spilla in oro rosso che ha perso gran parte degli zaffiri bianchi che vi erano incastonati, un brutto pettine verde fluo mezzo sdentato, un rametto rinsecchito dalla forma di una bacchetta, la pagina giallastra di un libro ormai illeggibile, i cocci di quella che deve essere stata una tazzina, una boccetta con un ciuffo di capelli biondo platino, un rossetto praticamente sciolto, una bussola dall'ago rotto che ticchetta...
Non capisco il significato di quasi nessuno di questi oggetti che, per quanto orribile da dire, mi lasciano quasi indifferente.
Poi però mi ritrovo tra le dita sudate la statuina intagliata di un lupo bianco e i miei occhi cominciano a bruciare, sapendo che è stato mio padre a donargliela. Una lacrima calda mi riga la guancia quando sfioro il coltellino svizzero dal manico viola su cui è incisa una breve frase che è come una pugnalata: "Vuoi sposarmi, mia regina?"
Ma il colpo di grazia è quello rimasto incastrato sul fondo inclinato dello scrigno, quella lettera tutta stropicciata, chiusa da un sigillo di ceralacca con un cuore alato che racchiude le iniziali E-K. Il suo nome e il mio.
Nessun registratore.
Mi rannicchio sulle gelide piastrelle del pavimento tra i due letti, la schiena premuta al comodino e le braccia intorno alle gambe, rilasciando fiotti d'aria dalla bocca nel tentativo di riprendere fiato. Sto respirando, eppure mi sembra di soffocare nel mio stesso ossigeno.
Rovescio il capo all'indietro, fissando il soffitto attraverso la vista annebbiata. È verniciato di grigio ferro venato d'azzurro per creare l'effetto di un cielo plumbeo, così straordinariamente simile alla tempesta che infuria nelle iridi di Klaus. Posso quasi vederle, due nebulose pozze d'argento punteggiate di zaffiro che quando ride brillano come stelle.
Peccato che lo faccia raramente.
Ricordo di avergli fatto il solletico una volta. In cima alla torre, immersi nella neve, sotto le stelle. Il suono della sua risata mi aveva incantata. Era così limpido, così spensierato, così puro.
La risata del bambino che non è mai potuto essere.
«Sei triste?» bisbiglia una vocina esile.
Abbasso lo sguardo, raddrizzandomi quanto basta per accorgermi di una figura accanto all'armadio. Devo strizzare le palpebre per metterla a fuoco, ma la statura minuta e il cappello da cowboy non lasciano molti dubbi.
«Da quanto sei qui?» mugugno, senza riuscire a trattenere un singhiozzo.
«Da quando sei entrata. Mi stavo nascondendo». Tobias si stringe nel suo maglioncino di lana, guardandomi con i suoi occhioni verdi. Sono lucidi, come se avesse pianto anche lui. «I miei fratelli litigano. Non mi piace quando la gente litiga».
Mi scosto le ciocche blu appiccicate al volto bagnato, asciugandomi il naso sulla manica della felpa. Tobias si avvicina a passetti timidi. Incoraggiato dal mio silenzio, si arrampica sul letto di Eileen e scende dalla parte opposta con un saltello buffo che mi strappa un sorriso.
Si inginocchia vicino a me, mi dà un bacino sulla guancia e posa la testa sulla mia spalla, facendo scivolare a terra il cappello. Adesso, i suoi capelli corvini sono tagliati molto corti, con un ciuffo arruffato appiattito sulla tempia. Mentre i miei singulti si placano a poco a poco, gli deposito il mento sulla nuca e avvolgo il suo corpicino con un braccio.
Fisicamente non è diverso da qualsiasi altro bambino, eccetto che per la sfumatura bluastra delle sclere, ma abbracciandolo ho sempre la sensazione di poter percepire tutta la sua fragilità. Non debolezza, solo fragilità.
È sorprendente quanto si possa essere forti, anche avendo delle ossa di vetro.
«Grazie» gli sussurro all'orecchio. «Ne avevo proprio bisogno... fratellino».
Toby fa un risolino, accoccolandosi ancora di più al mio fianco con un atteggiamento decisamente trionfante.
Non so per quanto rimaniamo in quella posizione. Potrebbe essere passato un minuto come un'ora, quando la porta della camera viene aperta. Mi è sufficiente un'occhiata a Simon per avere la certezza che non sta portando buone notizie. È di un bianco cadaverico.
«Dobbiamo andare in ospedale» dice in tono assente, come di chi non è ancora pienamente conscio di quello che sta succedendo. «Mamma, papà e Ed hanno avuto un incidente».
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top