64. VERITÀ NON DETTE

Nata e cresciuta in città, non sono mai stata un'amante della natura e, se è vero che possiedo il talento di mio padre, lo è altrettanto che non ho ereditato neanche una stilla della sua innata sensibilità da artista. Eppure, nemmeno io posso negare la bellezza di questo piccolo paradiso.

Una valletta rigogliosa annidata in mezzo a dolci colline, sulle rive di un lago dello stesso azzurro limpido del cielo e così immobile da sembrare un'uniforme lastra di cristallo. Il silenzio è riempito dal canto degli uccelli e dal fruscio del vento che stormisce tra le fronde degli alberi o solleva nell'aria turbini di foglie rosse e giallastre. Un gazebo di marmo bianco sorge al centro del prato con le sue colonne tortili e, sotto, si trova un tavolino intarsiato con gli avanzi del picnic ancora sparpagliati sulla tovaglia di raso celeste.

Con la schiena premuta alla corteccia di un ciliegio, mi porto una ciocca dietro l'orecchio e riprendo a intagliare il pezzo di legno da sopra le ginocchia sollevate. È di salice, quindi abbastanza tenero da poter essere lavorato persino da una principiante e con una lama piuttosto corta e sottile come la mia. Ho cominciato quasi per gioco, uno svago rilassante dopo un'ora passata in sella, ma adesso so benissimo che forma voglio dargli.

«Non si rovina così?»

Faccio spallucce, continuando a incidere piccoli solchi sulla statuetta. «Ce l'ho da dieci anni, carotino. Se non facessi una regolare manutenzione, ormai sarebbe uno spalmaburro piuttosto che un coltellino».

Sdraiato a terra accanto a me, Simon ridacchia con le mani incrociate dietro la nuca. «Sul serio? Lo pulisci una volta a settimana?» chiede divertito.

«Al giorno» lo correggo. «E, ovviamente, la sostituzione degli attrezzi quando si usurano. Non voglio che si senta trascurato».

«Non ti ho mai vista».

«Beh, non posso mica smontarlo davanti a tutti. È una cosa molto intima». Terminata la criniera, soffio via i trucioli residui ed esamino con attenzione il mio operato, girandolo prima da una parte e poi dall'altra. «Sembra anche a te una capra con la criniera, o è solo una mia impressione?»

Simon si solleva sui gomiti, portando il viso sopra la mia spalla. La lieve puzza dovuta alla cavalcata è quasi sparita, sovrastata dal profumo aspro delle arance che ha mangiato. «No, io penso che sia perfetto». Assalito da un intenso rossore, aggiunge in un sussurro: «Anche se avresti potuto evitare di fargli... insomma...»

«Ha la criniera, ergo è un maschio!» Gli prendo un ricciolo ramato tra le dita e lo tiro con fare dispettoso. «Prenditela con la biologia, carotino. O con il tuo antenato figo che ha scelto un leone per lo stemma di famiglia, e non una leonessa».

Lui scoppia a ridere di nuovo, tirandosi a sedere con le lunghe gambe distese davanti a sé. «Cosa ti fa credere che fosse figo?» domanda ironico, appoggiandosi all'indietro sui palmi.

Nonostante indossi un pesante maglione cremisi, non posso fare a meno di notare il modo in cui i muscoli delle spalle si tendono sotto la lana. Il giacchetto, invece, l'ha dato a me mentre mangiavamo, appena si è accorto che stavo tremando nella mia felpa. In un attimo, il senso di colpa che mi ha accompagnata per tutto il pomeriggio riprende a scalpitare nel mio petto.

Infilo in tasca la statuetta e mi metto a gambe incrociate, giocherellando nervosamente con il coltellino. «Simon, dovrei dirti una cosa».

«Se mi chiami per nome, deve essere grave...»

Il mio sguardo si incatena al suo. Occhi verdi, intensi, accesi dal sole come smeraldi incastonati tra lineamenti netti e sfuggenti insieme, così ricolmi di dolcezza da farmi male. «Sei un ragazzo stupendo, sul serio».

Il viso gli si incendia all'istante, diventando della stessa tonalità dei suoi capelli, e spalanca la bocca per lo stupore, senza però emettere nessun suono.

«Hai il cuore più grande che abbia mai visto, Simon, e probabilmente è per questo che era inevitabile che ti ferissi. Non sono brava ad apprezzare la bontà negli altri, me ne approfitto anche quando non voglio: vedo il bene che possono darmi e lo prendo, pur sapendo che non potrò mai restituirglielo. Ma non si può condannare qualcuno a essere in eterno la fune che non ti fa cadere nel baratro, solo perché hai troppa paura di scoprire cosa c'è in fondo. E tu meriti di meglio. Meriti una persona che stia con te per ciò che sei, non perché è la scelta più semplice da prendere, ma perché è quella che vuole. Meriti di essere amato per davvero».

Mordicchiandomi il labbro, allungo un braccio e gli raddrizzo gli occhiali che gli ricadevano storti sul naso. «Dovresti seriamente cambiarli».

Simon rimane a fissarmi immobile, qualsiasi traccia di emozione inghiottita di colpo da una maschera distante e impassibile. Poi rilascia un respiro profondo, spezzando finalmente quel silenzio atroce. «Lo sapevo fin dall'inizio, Keeley. Che non provavi per me quello che provo io, intendo. Persino mia sorella me lo avrà ripetuto centinaia di volte, dicendo che mi stavo solo illudendo, ma non ho dato retta né a lei né a me stesso».

Chinando il capo, comincia a strappare ciuffi d'erba attorno alle radici del possente albero dietro di noi. «Forse credevo che, almeno con te, sarebbe potuta andare diversamente».

Aggrotto la fronte. «Che vuoi dire?»

«Può sembrare stupido, ma non è per niente facile crescere con così tanti fratelli» replica, abbozzando un sorriso avvilito. «Senti sempre di dover dimostrare di avere qualcosa in più che ti renda speciale rispetto a loro, per ricordare ai tuoi genitori che ci sei anche tu».

Lo sconforto nella sua voce mi fa contorcere lo stomaco; la consapevolezza che parte del suo dolore sia colpa mia si abbatte su di me con la violenza di una mazzata. «No, te l'assicuro. Ho vissuto abbastanza con la tua famiglia da capire che la rivalità tra fratelli è tutto meno che stupida».

«La mamma ha sempre fatto preferenze tra noi, non è un segreto, e io non sono capace ad attirare l'attenzione. Di certo non avevo chance di competere con Liam o con Ed, i figli perfetti. E Kal fa così tanto casino che fin da piccolo era impossibile ignorarlo». Non c'è amarezza nel suo tono, solo tristezza. «All'inizio non mi importava di stare nella loro ombra, perché sapevo di avere una cosa che i miei fratelli non potevano portarmi via: Leen». Pronuncia quel nome con tenerezza. «Non è una cavolata quando si dice che il rapporto tra gemelli è unico. Nessuno dei due riusciva a fare a meno dell'altro, facevamo tutto insieme ed eravamo inseparabili ovunque andassimo. Quel legame mi faceva sentire speciale. Non lo ero per i miei genitori, ma per lei sì e mi piaceva... finché è arrivato Klaus».

Smetto di fissare Bucefalo che, lasciato libero, è intento ad abbeverarsi nelle acque placide del lago e torno a voltarmi verso Simon con le sopracciglia increspate. «Io e la rossa non siamo granché in sintonia, ma su questo non ho dubbi: ti vuole bene!»

«Lo so» annuisce, studiandosi la punta delle scarpe. «Ma a Klaus ne vuole di più. Gli si è affezionata fin dal primo momento che si sono incontrati alla villa. Quando Ed e Kal lo prendevano in giro o gli facevano i dispetti, era sempre lì pronta a difenderlo mentre prima lo faceva solo con me. Mi vergogno ad ammetterlo, ma ho detestato Klaus a tal punto che, per un po', ho sperato che la mamma lo rispedisse da dove veniva».

A poco a poco, inizio a comprendere il senso del suo discorso e il significato di quanto ha detto prima. Mi costringo a sfoderare un ghigno sarcastico, lottando contro la delusione che inizia ad attanagliarmi. «Ero una rivincita, quindi? Sarebbe un gran colpo di scena, visto che finora ero convinta di essere io quella che ti stava usando».

Simon mi scocca un'occhiata contrita. «No, sono stato sincero. Sempre. Quello che sto cercando di dirti è che non sarebbe giusto darti tutta la colpa, visto che io per primo non ho voluto vedere come stavano le cose». Si interrompe e sospira, spingendo in su gli occhiali con un gesto meccanico. «Sei innamorata di Klaus, vero?»

Una serie di brividi mi scendono lungo la schiena. Ficco il coltellino svizzero nei jeans e mi alzo, investita da una folata di vento freddo che mi arruffa ancora di più la liscia chioma blu. «Innamorata è eccessivo» borbotto, chiudendo la cerniera della giacca.

Simon mi raggiunge, prendendo a camminare al mio fianco per la radura. «Mi sono accorto di come lo guardi, Keeley. Sei gelosa quando le altre ragazze gli stanno attorno e ti sei aperta con lui molto più che con me, non negarlo. Sono ingenuo, ma non stupido».

«Non l'ho mai pensato».

«Bene». Si ferma sulla sponda del lago, facendo vagare lo sguardo sulle montagne incappucciate di neve che si ergono all'orizzonte. Bucefalo si avvicina e gli struscia il muso lucido sulla guancia, strappandogli una leggera risata. «Deve essere destino, immagino. Klaus neanche ci prova, si comporta come se non gliene fregasse niente, ma alla fine è sempre lui che viene scelto. È migliore di me senza nemmeno sforzarsi di esserlo... un po' deprimente, eh?»

«Non è migliore di te. Anzi, se glielo chiedi, risponderà di essere il peggio del peggio dell'umanità». Faccio uno sbuffo stizzito. «Voi Hallander dovreste imparare che non è una gara! L'amore non è un trofeo da conquistare, men che meno quello dei genitori, e non dovete costantemente dimostrare di meritarvelo! Siete tutti diversi, né migliori né peggiori, okay?»

Simon ruota la testa verso di me, un lampo sorpreso che gli guizza sul volto. Le sue labbra sottili si increspano in un sorriso e, con un misto di esitazione e delicatezza, mi cattura un ciuffo di capelli che mi svolazzava sul naso e lo tiene imprigionato tra pollice e indice. «Non le somigli soltanto nell'aspetto, più ti conosco più me ne rendo conto. Ma spero che mio fratello ti ami per ciò che ti rende unica».

Mi irrigidisco. Le sue parole mi riecheggiano nella mente, più taglienti di un pugnale: "È sempre lui che viene scelto". «Tu» mormoro, colta da un dubbio. «Tu amavi Elizabeth?»

Lui sbatte le palpebre, attonito. «Cosa? No. Non ho mai provato per nessuna quello che... insomma, provo per te» balbetta timidamente, dando una carezza affettuosa al cavallo. «Ho avuto una cotta all'inizio, lo ammetto. L'avevo incontrata al Lucky House dove lavorava insieme a Jonas e ne ero rimasto affascinato, ma nulla di più. Poi ho scoperto quello che stava succedendo tra lei e Klaus, quindi ci ho rinunciato».

Deglutisco, tentando di scacciare il groppo incastrato in gola. «Certo, perché le piaceva il biondino».

Un'espressione disorientata gli spunta sulla faccia. «Aspetta... Klaus non te ne ha parlato?»

«Evidentemente no». C'è una sfumatura di minaccia nella mia voce che lo fa trasalire. «Tutti adorano il giochino di raccontarmi mezze verità, ti vuoi unire a loro? È divertente».

Simon si piega, raccoglie un sasso e lo lancia nel lago. Entrambi osserviamo i cerchi diramarsi sulla superficie dell'acqua cristallina e poi dissolversi; appena anche l'ultimo è scomparso, tutto torna immobile.

«Klaus ed Elizabeth stavano insieme. L'ho scoperto quest'estate, per caso: li ho visti baciarsi nel camerino prima di un loro concerto. Mio fratello non lo sa, credo. Elizabeth invece mi aveva notato sgattaiolare via, ma fece finta di nulla». Con uno scatto, scaglia un altro sasso che affonda dopo tre rimbalzi. «In seguito, mi spiegò che Klaus preferiva mantenere segreta la loro relazione per evitare che la loro vita sentimentale venisse bersagliata dai giornali, ma sospetto che la vera ragione fosse che non voleva problemi con nostra madre. Non approvava la loro amicizia, magari perché la riteneva di origini troppo umili per un Hallander. Aveva persino vietato di farla venire a casa da noi».

All'improvviso ho la sensazione di essere catapulta indietro nei ricordi dei momenti che ho vissuto con Klaus e una domanda –una domanda che mi sarei dovuta porre molto prima– mi sorge spontanea: guardava me e vedeva lei?

Non ho mai preso in considerazione la possibilità che la mia incredibile somiglianza con Elizabeth abbia potuto influire sul nostro rapporto. Ma se Alizée è arrivata a odiare addirittura il proprio figlio perché nato con l'unica colpa di avere il sangue di un mostro, non è assurdo pensare che l'amore possa seguire gli stessi meccanismi del disprezzo, soprattutto quando fomentato dal dolore.

"Non sono sicuro di provarlo veramente per te". Questo aveva detto nel parco, il giorno del festival medievale.

Non gli avevo dato importanza, scambiandola per l'ennesima scusa con cui rinnegava sentimenti che non voleva accettare, non più di quanto volessi io. Adesso però ripenso al suo sguardo pieno di tormento puntato a terra, incapace di sostenere il mio, e capisco che non era semplice sofferenza: si vergognava di sé stesso.

La suoneria di un telefono esplode nell'aria.

«È il mio» afferma prontamente Simon, frugando nella tasca dei pantaloni.

«Per forza, il mio è scarico. E comunque non sono tipo da ascoltare Katy Perry».

Ridacchiando, tira fuori il suo iPhone e controlla lo schermo. Quando lo vedo accigliarsi, cerco di sbirciare il nome del contatto, ma ormai ha già accettato la chiamata. Mi fa un cenno e si allontana di qualche passo.

«Ehm, ciao» esordisce Simon interrogativo, portandosi il cellulare all'orecchio. Sento il brusio della voce dall'altra parte della linea, sicuramente femminile. «Sì, lo so. Qui spesso non c'è campo. Ma perché mi hai...» Si ammutolisce, rimanendo ad ascoltare con le sopracciglia increspate.

Bucefalo mi rifila un colpetto con il naso, ma lo ignoro. «Chi è, carotino?»

Lui mi lancia un'occhiata fugace, facendo un gesto con la mano libera per invitarmi ad aspettare. Ha la mascella contratta e continua a spostare nervosamente il peso da una gamba all'altra. «C'è anche Ric?»

Anche se non c'è nessun motivo logico, un moto di preoccupazione mi assale. E un unico, martellante pensiero: Klaus.

«Okay, mi sono stufata di fare la bella statuina! Dimmi che...» Non mi sono ancora mossa che il cavallo nero come la pece mi dà uno spintone così forte da rischiare di farmi scivolare all'indietro nel lago. «E tu piantala, Brucocoso o come ti chiami!» grido, guardandolo in cagnesco.

In cambio ottengo solo uno sbuffo seccato che, ne sono certa, in linguaggio umano si potrebbe tradurre con un "Sarà bello il tuo, di nome".

«Va bene, ascolta. I miei genitori dovrebbero essere fuori per l'ora in cui arriverete, quindi possiamo vederci alla tenuta. Vi mando la posizione e... e ne parliamo» conclude Simon, riattaccando. Si gira verso di me e dice con finta disinvoltura: «Stai davvero litigando con un cavallo?»

«Non ci provare neanche, volpone!» Incrocio le braccia sul petto. «Spiegazione! Ora! Subito! Immediatamente! Sto finendo i sinonimi, quindi sbrigati».

Simon si rabbuia di colpo e si scompiglia i capelli con un sospiro rassegnato. «Klaus è scomparso».

«Okay, okay. Una cosa per volta». Eileen si massaggia le tempie, ritta e immobile accanto al tavolo del soggiorno. I boccoli rossi le ricadono liberi sulle spalle, risplendendo alla luce del tramonto come contorte lingue di fuoco. «Primo». Solleva l'indice smaltato di bordeaux. «Che cazzo significa che hai perso nostro fratello, Ric?»

Stravaccata sulla cassa del pianoforte, faccio dondolare i piedi a pochi centimetri dal pavimento. Dato che ho dovuto togliere le scarpe prima di entrare in casa, essendo tutte sporche di terra, mi rimangono solo dei calzini sfilacciati con "L'urlo" di Munch ricamato sopra. «Se non fosse impegnata con la cena, tua nonna ti rimprovererebbe per questo linguaggio scurrile, signorinella».

«La smetti di fare l'idiota?»

Mi stringo nella felpa. «Stando al mio fascicolo scolastico, tendo a reprimere le mie ansie e paure con un comportamento passivo-aggressivo dettato da un patologico disturbo d'attaccamento».

Sorreggendo Jonas sotto le ascelle, Alaric lo trascina di peso fino al divano in stile barocco e ce lo getta sopra senza tanti complimenti, provocandogli un mugolio di dolore che fa sussultare Eileen.
«Potresti anche smettere di fargli male» protesta quest'ultima in tono protettivo.

Alaric si raddrizza, ansimante. «Questa insopportabile spina nel fianco ha vomitato nella mia Corvette». Pronuncia l'ultima parola con una certa gravità. «Ringrazia che io non l'abbia ancora preso a calci».

«Non si direbbe». Accenno ai segni neri sul volto del ragazzo. Ha anche il labbro spaccato, uno zigomo tumefatto e le nocche coperte di tagli e sangue rappreso. «Non l'hai picchiato tu, allora?»

«La tentazione c'è stata». Cogliendo lo sguardo torvo di Eileen, si affretta ad aggiungere: «Scherzo, non l'ho toccato».

Inarco un sopracciglio, maliziosa. «Perché ti interessa così tanto la salute dell'hater degli Hallander?»

«Non mi interessa» replica lei con una smorfia indignata. «Lo detesto, ma gradirei che non venisse malmenato in casa mia, se non ti dispiace».

Simon chiude piano la porta e gira la chiave nella serratura. «Non era Klaus il focus della conversazione?»

«Ecco, ci stavo arrivando». Alaric butta il giubbotto su una poltrona, rivelando una camicia di chiffon quasi trasparente, e si siede. «Ieri pomeriggio, Klaus è uscito intorno alle quattro e mezza. Mi aveva detto che voleva farsi un giro e di non preoccuparmi se non lo avessi visto tornare a dormire perché stava pensando di approfittare della vostra assenza per fare un salto alla villa».

«Fammi indovinare» intervengo, schiacciando un tasto del piano. La nota rimbomba lugubre tra le scure pareti del salotto. «Erano cavolate».

Eileen dardeggia gli occhi su Jonas, che si sta agitando nel sonno con un'espressione sofferente e una mano serrata sul costato. Per un secondo sembra riuscire a trattenersi, ma alla fine raggiunge il divano a rapide falcate e si appoggia sul bracciolo vicinissima alla sua testa.

Alaric mi fa un cenno d'assenso. «Stamattina, sono andato a controllare ma Carol mi ha detto di non averlo visto. Siccome non volevo mandarla nel panico, le ho mentito dicendo che mi ero confuso e che Klaus aveva avvisato che si sarebbe alzato presto» spiega, chiaramente frustrato. «Ho provato a chiamarlo un migliaio di volte, e niente. L'ho anche cercato nei posti in cui va sempre, compreso lo chalet di Céline, e niente di nuovo. È a questo punto che ho trovato Jonas... o il suo relitto, quantomeno».

Una figura slanciata si muove nell'angolo della stanza. «Beh, per la precisione, l'hai trovato grazie a me» bofonchia, cercando di districare la matassa di ricci spettinati.

Eileen corruga la fronte. Non sembra nemmeno consapevole di stare accarezzando i capelli color carbone di Jonas, che invece si è indubbiamente accorto del suo tocco a giudicare da come le si rannicchia sempre di più contro il fianco. «Non per essere maleducata, ma ancora mi chiedo come tu sia finita in macchina con Ric».

«Io mi chiedo ancora perché esista» commento sarcastica.

Poiché rimanere ferma sta diventando una tortura, mi alzo di scatto e comincio a studiare pigramente la collezione di armi da fuoco appartenuta a Jonathan Blackwood; la maggior parte sono custoditi in teche di vetro su pilastri allineati al muro, tranne un fucile sospeso sopra una mensola.

«Però ha ragione» s'intromette Simon esitante. È ricurvo su una sedia damascata che ha girato di traverso per poterci guardare. «A quanto ho capito, ha avvertito Ric che Jonas era passato alla villa».

Arianne annuisce, sfregandosi le mani sulle braccia. Deve essersi vestita in fretta, dopo essersi tolta la divisa da cameriera, perché indossa solo una maglia di raso abbastanza scollata e un paio di leggings. Non proprio indumenti adatti al rigido clima serale dell'autunno.

«È vero». Alaric allunga le gambe, fasciate da pantaloni attillati, davanti a sé. Quando riprende a parlare, dà l'impressione di scegliere le parole con molta cura. «Jonas si è presentato ubriaco alla villa, blaterando delle cose su Klaus e cercando... beh, Eileen. Probabilmente farneticava e basta, ma Arianne ha preferito chiamarmi per sicurezza. Era più o meno nello stesso stato di adesso, infatti non avrei voluto portarlo con me, ma si è infilato nella mia auto ed è svenuto, non prima di rovinare la mia bellissima e costosa moquette».

Eileen abbassa lo sguardo su Jonas e gli sfiora delicatamente un livido sulla guancia, con un misto di tenerezza e paura che la fa apparire stranamente vulnerabile. «Ha fatto qualcosa a mio fratello?» domanda in un sussurro.

«No, non proprio». Arianne cammina ticchettando sui tacchi degli stivali e apre l'anta di una vetrina. «È conciato così perché ha litigato con un certo Jack».

La osservo mentre tira fuori una bottiglia di gin e un'altra di acqua tonica dal piccolo frigo bar. «Prego, fai come se fossi a casa tua».

«Sta scherzando. Nessun problema» la tranquillizza Simon, sorridendo alla ragazza. «Perché avrebbe fatto a botte con il suo migliore amico, comunque?»

«Non è questo il punto». Afferro il bicchiere alto che Arianne ha appena riempito di gin tonic e, scansandomi per evitare la sua gomitata, lo vuoto tutto d'un fiato. Una vocina dentro di me –nell'area del cervello predisposta all'autoconservazione, forse– mi sta gridando che è meglio che io non sia completamente lucida, quando scoprirò cosa sta succedendo. «Sai dov'è il biondino o no?»

«Jonas diceva di averlo visto al Lucky House, ieri». Con evidente nervosismo, Alaric si fa scrocchiare le dita a una a una, aggiungendo in un soffio: «Con suo zio».

Segue una lunga pausa di silenzio, interrotto solo dal rumore della pioggia che inizia a picchiettare sulla finestra. Un vortice di nubi grigie si sta addensando nel cielo, scurendo le sfumature calde e rosate gettate dal sole morente.

«No... non è possibile». Eileen deglutisce, come se si stesse sforzando di respingere un conato di vomito. «Matt è qui».

Alaric non risponde, ma non ce n'è bisogno: tutti, persino Arianne, sappiamo a chi si riferisce davvero.

So che dovrei essere scioccata, eppure la sola cosa che riesco a pensare è che avrei dovuto saperlo. Quando l'ho trovato accovacciato a terra davanti a quella panchina, sconvolto e tremante, avrei dovuto insistere su chi lo avesse chiamato anziché discutere con lui su quel maledettissimo bacio. Quando è venuto a salutarmi nel cuore della notte e mi ha implorato di poter restare con me, avrei dovuto capire che aveva paura.

Avrei dovuto saperlo.

Avrei dovuto essere con lui.

Avrei. Dovuto.

«Non è vero». Agguanto la bottiglia di gin dal tavolo e ne bevo una lunga sorsata. Fuoco liquido che mi scende nel petto. «Non lo farebbe». Scuoto il capo. «Non lo incontrerebbe di sua volontà».

Simon mi si avvicina. «Keeley...»

«Non voglio nessun discorso d'incoraggiamento, grazie!» Mi allontano e tracanno un'abbondante quantità d'alcol. «Lo conosco, okay? Non farebbe mai qualcosa di così stupido. E poi Satana che va in una cioccolateria? Ha anche distribuito le caramelle ai bambini?»

«Keeley ha ragione» concorda Eileen con voce incrinata. Il suo viso ha assunto lo stesso pallore cereo della carnagione della madre, rendendo la somiglianza ancora più marcata. «Rivedere quell'essere è da sempre il peggior incubo di Klaus. Se erano insieme, deve averlo costretto in qualche modo. Lo avrà rapito o roba simile».

«Possibile, ma consiglierei di non saltare a conclusioni affrettate».

«Uno psicopatico violento ha mio fratello, Ric! Non posso non saltare a conclusioni affrettate

«Potrebbe averlo» la corregge Simon. Si inginocchia di fronte alla gemella e la abbraccia con dolcezza. «Non lo sappiamo. Non sappiamo niente di certo».

«Dobbiamo...» Eileen si blocca, soffocando un singhiozzo contro il suo collo. «Dobbiamo dirlo a Liam, appena torna. Magari potrebbe aver sentito Klaus».

Le dà qualche pacca sulla schiena per calmarla. «Sì, potrebbe».

«N-non sarà arrabbiato con noi, vero? Abbiamo provato a difenderlo con la mamma, ma...»

«Non è arrabbiato». Simon si stacca leggermente da lei. «Sta bene, d'accordo? È Klaus! Se la cava sempre! Ti ricordi quando lui, Kal e Ed si sono arrampicati sulla quercia per vedere chi di loro riusciva ad arrivare più in alto?»

«Kal si è quasi ammazzato e Ed si è storto una caviglia. Klaus è stato l'unico a non farsi nemmeno un graffio». Eileen fa una risatina fragile, spezzata da un singulto trattenuto. «Che tre idioti».

Quando mi rendo conto di avere la vista annebbiata, mi giro di scatto in modo che nessuno possa accorgersene. Mi sforzo di regolarizzare il respiro, ma il cuore continua imperterrito a tuonarmi in gola a ogni battito. Infilo una mano in tasca, cercando freneticamente l'origami a forma di cigno, ma mi scontro solo con il freddo metallo del coltellino svizzero. Per un istante mi sembra di sprofondare, una sensazione di nausea e angoscia che mi avvolge come una tenaglia invisibile.

"Quel mostro non ti toccherà mai più, Klaus". Gliel'avevo promesso.

Avrei dovuto capirlo.

«Perdonatemi» sibila Arianne in tono colpevole, spingendomi a voltarmi. «È un momento orribile per dirlo, ma dovrei seriamente andare in bagno. Non so dove sia, non sono mai stata qui».

Simon si solleva, tirandosi su gli occhiali. «Ti accompagno. Se la nonna vedesse una sconosciuta girare per casa da sola, le verrebbe un infarto». Scocca un'occhiata imbarazzata ad Alaric. «Tu è meglio che non ti fai vedere per niente, invece».

«Già. Immagino che un bisessuale con origini orientali sia paragonabile all'Anticristo per una bigotta del suo calibro» ironizza lui, smorzando un po' la tensione.

Simon apre la porta, lasciando passare Arianne per prima. Si ferma a fissare me e sua sorella con un'espressione premurosa, come per accertarsi che stiamo entrambe bene, e infine esce richiudendola dietro di sé.

«Ricapitolando». Alaric sospira, afflosciandosi contro lo schienale della poltrona. «William aveva faccende non ben definite da sbrigare. Vostro zio si annoiava ed è andato a divertirsi. E i vostri genitori sono fuori per una cena con gente importante, giusto?»

«Hanno portato anche il tuo ragazzo, sì. Cioè, io non c'ero, ma è ovvio» biascico con indifferenza, abbandonandomi sul seggiolino del pianoforte. Bevo un altro sorso di gin. «Gli innamorati sono sempre così scontati!»

«Era un'innocente e disinteressata curiosità». Alaric indica la bottiglia che stringo, ormai a metà. «Hai esagerato un pochino con quello, non pensi?»

Per tutta risposta, gli faccio una pernacchia.

All'improvviso, Jonas emette un verso dolorante e si contorce sul divano. Eileen lo osserva con un lampo d'apprensione e tenta di alzarsi, ma si immobilizza quando lui le si accoccola in grembo come un bambino spaventato, affondando il volto contro la sua camicetta di seta.

«Rimani, ti prego» farfuglia con voce stremata. «Non lasciarmi anche tu».

«Ssh, tranquillo». Con una dolcezza incredibile, deposita la testa del ragazzo sul cuscino e gli passa un dito sul profilo del mento ben rasato. «Torno subito».

Io e Alaric ci scambiamo uno sguardo interdetto. Scrollo le spalle e ingurgito un altro sorso d'alcol; stavolta ne avverto a malapena gli effetti.

Eileen prende dei cubetti di ghiaccio dal freezer, li avvolge in uno strofinaccio e torna sul divano, sedendosi accanto al ragazzo. Quando si accorge che tiene qualcosa in mano, Jonas cerca subito di ritrarsi con fare guardingo, ma solo per ricadere all'indietro con un gemito.

«Stai buono. Non ti faccio niente». I loro occhi si incrociano e rimangono allacciati per un secondo interminabile, verde smeraldo contro verde dorato. «Fidati di me».

La bocca di Jonas si piega in un sorriso ironico. «Non ho molta scelta. Non riesco a muovermi».

«Il karma è un bastardo, eh?»

Eileen si china in avanti e gli appoggia cautamente il ghiaccio sullo zigomo gonfio mentre l'altra mano gli scosta una ciocca dalla tempia sudata con una carezza che gli suscita un fremito in tutto il corpo.

«Dove sono?» chiede in un sussurro, guardandosi attorno spaesato. «Non è la villa».

«No, ma è casa di mia nonna quindi sei comunque circondato di Hallander. Deve sembrarti il tuo inferno personale».

«Abbastanza». Jonas tossisce, fissandola con disperazione. È come se temesse che, se avesse smesso anche per un solo istante, si sarebbe potuto risvegliare dal sogno più bello della sua vita. «Ma per ora non è tanto male».

Eileen arrossisce bruscamente e deve schiarirsi la gola per recuperare la voce. «È vero che hai visto mio fratello con suo zio?»

«Sì».

«E sei andato alla villa per dirmelo?»

«Sì».

«Perché? Credevo non ti importasse nulla della mia famiglia» lo incalza lei, spostando l'impacco fradicio sul livido sulla mascella.

«Infatti, non mi importa della tua famiglia». Jonas socchiude le palpebre, trae un respiro profondo e le riapre. «Ma di te sì». Con una smorfia, riesce a puntellarsi sui gomiti in modo da portare il viso all'altezza del suo. «Ho perso una sorella e mi ha distrutto. Non voglio che capiti anche a te». Solleva un braccio a fatica e le asciuga una lacrima rimasta sospesa sulla guancia. «Odio vederti soffrire».

Nonostante tenti di nasconderlo, il desiderio bruciante con cui Eileen continua a guardargli le labbra è più eloquente di quanto lo sarebbe un'insegna al neon con su scritto "Ti voglio". «Klaus è innocente, Jonas. Non avrebbe mai fatto del male a Elizabeth. Mai».

«Non ne sono certo. Ma non credo che lo volesse, questo no». Con una serie di gemiti sommessi, lui si tira a sedere stando attento a sfiorarla il meno possibile, quasi avesse paura di poterla rompere. «Jack aveva drogato il tuo drink, quella sera, al falò. Il drink che poi ha bevuto Klaus».

Eileen si paralizza, scioccata. Io, invece, sono così stordita che la mia unica reazione è ingoiare l'ennesimo sorso d'alcol.

Alaric balza in piedi dalla poltrona, aggira il pianoforte e mi strappa la bottiglia. «Cosa ha fatto quel deficiente?» sbotta corrucciato, respingendo ogni mio tentativo di riprenderla.

«Avevo bisogno di bere e Jack mi ha invitato in quel locale di suo zio, la Taverna. Se lo è lasciato sfuggire per sbaglio. Ha detto che è stato un incidente, che non era una sua idea e che voleva solo aiutare suo fratello Raf a farti sciogliere un po'. Stronzate. Quel bastardo voleva approfittarsi di te e osava anche giustificarsi». Senza volerlo, Jonas le crolla praticamente addosso con la fronte adagiata sulla sua spalla, troppo esausto per rimanere dritto. «Giuro che l'avrei ucciso. Ucciderei chiunque provi a farti del male».

Eileen lo cinge per i fianchi con delicatezza e lo costringe a stendersi di nuovo sulla schiena. «Per questo ti ha ridotto così?»

«Sì, beh, lui è messo peggio» ribatte sulla difensiva, facendola ridacchiare. «C'erano anche dei suoi amici. Se non fossi stato ubriaco e in inferiorità numerica, avrei vinto io».

«Oh, certo. Puoi smettere con questo fragile ego maschile, per favore?»

Eileen gli afferra un lembo della felpa incrostata di terra e sangue e solleva il tessuto fino a scoprirgli il petto. Osserva con attenzione –anatomica attenzione– il torace scolpito che si alza e si abbassa, i muscoli levigati dell'addome che si tendono a ogni respiro sotto la pelle segnata di lividi violacei. Devo ammettere che ha un fisico impeccabile: tornito e armoniosamente modellato.

«O-okay, qui puoi fare da solo» bisbiglia, affrettandosi a coprirlo e passandogli il fagotto con il ghiaccio. Quando lo sbircia di sottecchi, nota lo sguardo indecifrabile sul suo volto e arrossisce. «Volevo solo controllare... lascia stare. So che non avrei dovuto».

Non ha neanche terminato la frase che Jonas si è già sollevato con uno scatto impacciato e, attirandola a sé con entrambe le braccia, posa le labbra sulle sue. È un bacio dolce e casto, che viene subito ricambiato con la stessa docile tenerezza di chi ancora non riesce a dare un nome al sentimento che prova, ma sa che è sbagliato e non gli importa, perché è l'errore più bello che avrebbe mai potuto commettere.

«Scusa, morivo dalla voglia di farlo da tantissimo tempo» sussurra con un sorriso, prima di ricrollare tra i cuscini.

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