62. CASA BLACKWOOD

Fredda.

Se dovessi descrivere la tenuta in campagna dei Blackwood in due parole, sceglierei proprio queste: fredda e vuota.

Ad essere onesta, da fuori ho subito pensato che fosse splendida: un massiccio casale in pietra costruito in uno stile vagamente toscano, appollaiato sulla cima di una collina da cui si gode di un panorama mozzafiato. Attorno all'edificio, centinaia di ettari di terreni coltivati e di boschi rigogliosi si stendono oltre a una cornice di cipressi, con scintillanti reticoli di canali abilmente tracciati e una piscina sinuosa affacciata sulla valle.

Se ne ero rimasta affascinata, però, la bellezza del posto è scomparsa nell'istante in cui ho salito i gradini di granito che conducevano all'ingresso e varcato il portone nero dai battenti in ferro. Un freddo cupo pervadeva l'atrio spoglio e grigio, i rumori rimbalzavano contro le alte pareti bianche e, accanto a una scalinata serpeggiante, si trovava il più triste albero di Natale mai concepito –un abete finto tutto aggrovigliato, senza lucine né palline. In effetti, per essere la casa di una devota credente, le decorazioni natalizie sono pressoché inesistenti.

La sensazione che ho provato è stata spiacevole, come quando si cammina per un cimitero e ogni passo, ogni respiro, ogni suono sembra avere il potere di risvegliare i morti. Oggi, a distanza di un giorno e mezzo dal mio arrivo, non è ancora scomparsa, ma almeno mi rassicura che neanche i cuccioli Hallander sembrano realmente a loro agio, qui.

Mi ribalto sulla pancia, ignorando lo scricchiolio del materasso mentre passo l'indice sul cavallino di legno. È stato intagliato con la cura metodica tipica di un artista e il mio occhio allenato riconosce con facilità ogni dettaglio di quella tecnica familiare: le rigature morbide della criniera, le nervature sulle zampe, il fisico possente, le rifiniture della sella...

Per l'ennesima volta, mi rendo conto che qualcosa non torna.

Mio padre aveva una sorella maggiore che, stando alle parole di Gladys, è scappata di casa da ragazza, scomparendo dalla sua vita. Céline Dubois discendeva da una famiglia ricca, non certo una di Baker Street visti gli ambienti che frequentava, ha condiviso l'adolescenza con Alizée e mia madre (le foto nell'album ne sono la prova) e infine ha avuto un figlio che ha abbandonato in fasce. Considerato che Jonas ha la mia stessa età e che i miei genitori erano entrambi ventenni o più quando sono nata, i calcoli non tornano.

La conclusione più logica è che non possono essere la stessa persona.

Di conseguenza, la donna con cui ho trascorso gli ultimi sette anni era davvero Céline, la madre di Jonas. E su questo non ho alcun dubbio. Ma non poteva essere la Moira Storm che ha abbandonato la propria famiglia da adolescente, compreso il suo fratellino problematico.

Traduzione: Céline ha finto di essere mia zia.

Traduzione della traduzione: mio padre ha mentito. Di nuovo.

"Beh, comprensibile" penso con amarezza. "Difficile spiegare a una bambina che la stai lasciando a una vecchia amica della madre morta, e non a una sorella che conosci da tutta la vita".

Una fitta di dolore mi percorre il braccio e mi accorgo che sto stringendo forte la statuina. Apro le dita e la guardo, al centro del mio palmo arrossato; Klaus ha detto che apparteneva alla moglie di quella sottospecie di larva umana (altresì chiamato Vincent) che l'ha cresciuto.

Papà non l'avrebbe mai regalata a una sconosciuta. Per lui erano doni speciali, pensieri che riservava solo alla sua regina e alla sua principessa, ma non è da escludere che in passato ne facesse anche per qualcun altro. Magari per il figlioletto del suo migliore amico o per sua...

La porta si spalanca di colpo ed Eileen si fionda nella stanza. «Sono circondata di idioti» sbuffa, richiudendola con un colpo di tacco.

Quando mi giro, un brivido mi artiglia la schiena alla vista di una grossa chiazza purpurea che le incrosta la blusa verde salvia in corrispondenza del petto. Ci metto un attimo a capire che non è sangue, ma vernice, e scoppio in una fragorosa risata.

Lei mi lancia un'occhiataccia. La luce del giorno le illumina i lunghi riccioli che le ricadono sulle spalle e sul viso, anch'essi imbrattati di un rosso più scuro come gocce di sangue riversate su una cascata di fuoco. «Non è divertente, Keeley! Era anche nuova!»

«Capisco» annuisco, mettendomi a sedere sul letto. «Piangeremo la perdita della maglia numero... diecimila?»

«Non ne ho così tante!»

Emetto un finto colpo di tosse e indico la dozzina di borse sparpagliate sul pavimento a piastrelle. Nonostante i ripetuti tentativi di ieri, si è rivelato impossibile riuscire a ficcare nell'unico armadio a nostra disposizione tutti i vestiti che si è portata dietro. Il risultato è che abbiamo finito per creare all'interno una montagna traballante e potenzialmente mortale, ma anche così la metà delle sue valigie sono rimaste piene.

«C'è un sacco di altra roba utile, lì!» si difende Eileen, rovistando con cura tra le giacche appese. «Vorrei ricordarti che, se non fosse stato per il mio phon portatile, ci saremmo già prese una polmonite. È assurdo non averne uno in casa nel ventunesimo secolo».

Appoggio la schiena al muro, fissandola a gambe conserte. «Che hai combinato per conciarti in quel modo?»

«Io proprio nulla!» Eileen prende un maglione di lana violetto, luccicante di fili argentati. Fa una smorfia insoddisfatta, quindi lo rimette al suo posto e riprende la sua ricerca. «Kal stava inseguendo Ed con una pistola da paintball che ha preso chissà dove. Indovina un po' chi ha colpito, invece».

Ridacchio. Poi però mi viene in mente una scena simile nel mio appartamento a Clayton, con Alan che scappa e io che lo rincorro spruzzando vernice ovunque, e mi ammutolisco. Alan, un altro bugiardo a cui volevo bene.

Eileen getta una camicetta di seta sull'altro letto, parallelo al mio. «Perché hai il cavallino di Toby?» mi chiede con la fronte aggrottata.

«Gliel'ho rubato». Mi allungo verso il comodino e metto la statuina accanto alla lampada. Sento una voce che grida dal piano inferiore, ma le parole si perdono nella musica che riecheggia nell'aria, delicata e nostalgica. «Le due tigri si sbranano ancora?»

«Ci puoi scommettere». Eileen si toglie la blusa sporca dalla testa, svelando una canottiera rosa orlata di pizzo, e la butta a terra.

«Uuh, qui la situazione si sta scaldando» commento, sfoderando un ghigno. «Tua nonna non approverebbe». Sospiro rassegnata. «E pensare che ci ha costrette a dormire insieme per non farmi stare nella stessa camera con uno dei tuoi fratelli mascalzoni, invece sei tu che ti vuoi approfittare di me».

«Ma smettila!» Malgrado il tono brusco, sulla sua bocca si apre un sorriso divertito. «Non c'è niente di sconvolgente, si fa tra ragazze. Fino a prova contraria, hai tutto quello che ho io, no?»

Il mio sguardo si posa sulla profonda scollatura da cui si intravede l'incavo tra i seni generosi. «Mmh, forse tu qualcosina in più».

Eileen agita la mano con noncuranza. «Visto che siamo in argomento». Un brillio sfavilla nei suoi smeraldi mentre mi rivolge un cipiglio deciso. «Tu cosa indosserai per il matrimonio?»

Sbatto le palpebre, perplessa. «Non eravamo affatto in argomento».

«Sì, invece» replica lei, brandendo il pettine come un'arma. «Cose tra ragazze, ricordi?»

Sbuffo, tornando distesa supina sul letto. Il soffitto è dipinto di grigio chiaro cosparso di fiotti celesti; un effetto che lo fa apparire un cielo coperto da nubi color ferro. «Ecco perché non ho mai voluto amiche».

«Oh, andiamo! Deve esserci qualcosa di un po' più...» Si blocca per adocchiare la mia felpa troppo larga, le maniche arrotolate al polso, i jeans consumati sulle ginocchia. «Di più carino che ti piaccia, ecco».

In testa mi balena l'immagine dei miei genitori in una sala da ballo. Mia madre nel suo lungo abito dorato, splendente di perline e paillettes e incoronata di fiori candidi che si confondono con la chioma argentea. Bellissima e luminosa come una stella.

Nella mia fantasia, però, il ragazzo che sta danzando con me è meno trasandato di quanto lo fosse mio padre, lo smoking nero che gli risalta sulla pelle di un bianco avorio, le dita affusolate sulla mia schiena e i capelli dorati di un angelo.

«Allora?»

Porto un braccio dietro la nuca, tentando di scacciare Klaus dai miei pensieri. In un modo o nell'altro, ci si intrufola sempre! «Beh, adoro i maglioni natalizi» balbetto. «Sai, tipo quelli con le renne con un pompon al posto del naso. Quelli sono carini».

Eileen comincia a spazzolarsi i boccoli. «Ho capito. Ti dovrò aiutare a scegliere un vestito così sexy da far svenire il tuo cavaliere».

«Neanche per sogno» protesto, scuotendo con vigore il capo. «Non sono a mio agio con quelle robe. E poi non credo sia possibile far svenire un cavaliere inesistente. Non lo voglio nemmeno un cavaliere».

«Come ti pare». Lei solleva le spalle, litigando con una spessa crosta di vernice e bofonchiando insulti a Kal. «Per tua informazione, Klaus sarà anche un ragazzo diverso dagli altri sotto parecchi aspetti, ma gli piacciono le stesse cose che piacciono a loro» aggiunge con una nota maliziosa.

Per fortuna, lo stridio della porta che viene aperta di scatto mi libera dall'obbligo di rispondere.

Eileen getta via il pettine con un sussulto. «NON SI BUSSA?!» urla stizzita, infilandosi di corsa la camicetta.

Edric rimane fermo sulla soglia, dardeggiando i suoi occhi azzurrissimi dalla sorella a me, e viceversa. Kal deve essere riuscito a beccare anche lui con la pistola da paintball, deduco dai granelli cremisi che spiccano sulle indomabili ciocche corvine. «Stavate parlando. Non credevo che ti spogliassi davanti a lei, scusa».

Assumo un atteggiamento volutamente sdolcinato. «Sì, siamo diventate piuttosto intime».

«La cosa più intima che c'è stata tra noi è la tua gomitata di stamattina per fare la doccia prima di me» borbotta Eileen, allacciandosi i bottoni di madreperla.

«Stai insinuando che abbiamo una relazione tossica?»

«Okay, basta. Qualsiasi cosa combiniate in questa stanza, non mi interessa». Un'ombra d'imbarazzo attraversa l'espressione di Edric. «La nonna vuole che andiamo a raccogliere le olive. In realtà, sono abbastanza sicuro che sia una scusa per tenerci fuori dai piedi mentre litiga con mamma e papà. Liam voleva intromettersi, ma lo hanno mandato a riparare il recinto dei cavalli».

Mi raddrizzo, interessata. «Sai di cosa parlano?»

«No, non ho l'abitudine di ascoltare le conversazioni altrui» risponde in tono allusivo. È chiaro che si stia riferendo a quando mi ha sorpresa a spiare lui e Alaric nella biblioteca della scuola.

Faccio scivolare giù le gambe dal letto. «Voi Hallander siete un pochino rancorosi, o sbaglio?»

«Non riescono a evitare di crocifiggere nostro fratello, anche se non c'è?» Eileen, immobile davanti allo specchio a tre ante vicino alla finestra, storce il naso. «E poi non ho voglia di raccogliere olive

«Beh, potete scordarvi che io lo faccia da solo con Kal!»

«E carotino?» obietto nel momento in cui la ragazza si volta per porre la stessa domanda. Anche se forse lei l'avrebbe chiamato per nome.

«Ha detto che doveva fare una cosa ed è sparito». Edric scrolla le spalle, tira la maniglia ed esce.

Eileen si volta verso di me, le sopracciglia che si inarcano in un misto di curiosità e disappunto. Prima che possa pormi qualsiasi domanda, finisco di allacciarmi le scarpe, controllo di avere in tasca il coltellino e mi precipito fuori.

Quando lo raggiungo, Edric sta scendendo gli stretti gradini di pietra che disegnano un'ampia spirale contro la parete spoglia. Lungo il corrimano è scolpito un elegante motivi d'uccelli e, a metà della rampa, una porta conduce a una stanzetta appartata che –mi ha spiegato Simon– un tempo era stata il pensatoio di Jonathan Blackwood.

Dal basso arrivano le note di un pianoforte, suonate con quella spontanea dolcezza che mi ricorda tanto Klaus. Posso quasi vederne la figura snella appollaiata sullo sgabello, le palpebre socchiuse e un sorriso bellissimo e malinconico che mi riempie del desiderio di potergli dare tutto l'amore che gli è stato negato.

«Mariage d'Amour». Edric intercetta il mio sguardo interrogativo e precisa: «Il brano. Mariage d'Amour, di Richard Clayderman. Spesso è attribuita a Chopin con il titolo Spring Waltz, ma è sbagliato».

Rizzo le orecchie per distinguere meglio l'eco della melodia. «A me sembra triste».

«Lo è. Ma anche romantica». Nella voce di Edric c'è una dolcezza che mi lascia sbigottita. «La immagino come una storia d'amore struggente, di quelle che ti spezzano il cuore solo per ricostruirlo più forte. Con i due innamorati che ballano e si promettono amore eterno, pur sapendo che non potranno mai stare insieme».

Lo fisso stupita per un secondo. «Non ti facevo così poetico».

«Io non sono poetico» borbotta lui, arrossendo.

«Oh sì, invece. Finalmente ti ho trovato un soprannome, Dante». Gli do un buffetto sul fianco, beccandomi un'occhiataccia. «In versione più figa, lo ammetto. Hot Dante, ti piace?»

«E piantala!»

Giunti ai piedi della scalinata, ci ritroviamo nell'atrio. È immerso nella penombra, tranne per le esili lame di luce che penetrano dalle feritoie sopra il portone e che si infrangono sulle piastrelle verde acqua. Scavalcando la sagoma ricurva dell'albero di Natale, decorato con vecchi angioletti dalle ali rovinate e nastri argentei impigliati tra i rami, la mia attenzione viene attirata dal buio corridoio scavato nel muro, a destra dell'entrata. O meglio, dal brusio della discussione che viene da quella direzione, sovrastato appena dalla musica.

D'istinto comincio ad avvicinarmi.

«Perché me l'aspettavo?» sospira Edric, alle mie spalle.

Lo ignoro e cammino a piccoli passi verso la porta sul fondo. È chiusa e robusta, ognuno degli otto pannelli ornato al centro dall'incisione di un'aquila dal becco ricurvo e gli occhi minacciosi. I suoni sono ancora troppo ovattati per distinguere con chiarezza cosa stanno dicendo dall'altra parte, ma sono certa di aver riconosciuto il timbro gracchiante di Jacqueline Blackwood. Giro delicatamente il pomello fino a che sento uno scatto sommesso e una linea verticale illumina il corridoio.

«... mio nipote! Questo comportamento è ridicolo!»

Quando sbircio dalla fessura, vedo un frammento della sala rettangolare. Nonostante il fascio luminoso che penetra dalla grande arcata di vetro, l'ambiente è scuro e freddo come l'imbocco di una caverna. Poltrone di cuoio imbottite decisamente all'antica, un armadietto di mogano accanto a una sedia a dondolo e Matt seduto al pianoforte nell'angolo. La semplice maglietta bianca, neanche troppo pesante malgrado le temperature, gli valorizza l'abbronzatura dorata e le sue mani si muovono sulla tastiera con movimenti agili e leggiadri.

«Non ti sto vietando niente, non è voluto venire e basta. Però è interessante che qui ci siano i tuoi veri nipoti e riesci soltanto a lamentarti per Klaus» replica Alizée tagliente.

Apro ancora di più la porta ed eccola, tutta impettita su una sedia all'estremità del tavolo. Ian è ritto dietro di lei, con un braccio puntellato sull'alto schienale di damasco e una maschera di forzata cortesia calata sul volto. Entrambi stanno guardando dritti davanti a loro, al contrario di Matt che invece ha gli occhi chiusi.

«Ancora te la prendi con quel povero ragazzo? Non ti è bastato cercare di ucciderlo quando era una creaturina indifesa?» ribatte Jacqueline, in un punto dall'altra parte della stanza.

Alizée impallidisce e si scambia una fugace occhiata con Ian, che è impietrito. «Volevo abortire, ed era un mio diritto». Le parole le escono così gelide da farmi rabbrividire. «E se davvero Klaus era un dono del tuo Signore, potevi benissimo tenertelo tu. Chissà perché ti sei rifiutata, invece; avresti avuto quel prezioso maschio che hai sempre voluto, no?»

In uno scalpiccio di sandali, Jacqueline compare nel mio campo visivo e ancora una volta rimango colpita da quanto poco le due si somiglino.

Certo, ha ottant'anni e riconosco che in passato è stata una donna piuttosto attraente –era in alcune foto dell'album di famiglia –, ma neanche allora poteva competere con la bellezza della figlia. Adesso, i suoi capelli sono crespi e grigi, senza più nessuna traccia del castano ramato che aveva un tempo, la faccia scavata dalle rughe e un corpo grassoccio avvolto da un abito scuro con un cardigan lavorato ai ferri. Gli occhi smeraldo di Alizée, passati poi ai gemelli, sono stati invece un'eredità del padre; infatti, i suoi sono di un anonimo marrone scuro.

«Che assurdità!» sta dicendo, agitando un indice tozzo a mezz'aria. «Ho rifiutato di crescerlo perché era tuo dovere, non mio. I figli sono responsabilità delle madri, non certo della nonna, e tu non sei mai stata in grado di assumerti le tue! Questa è la verità!»

In un gesto involontario, Alizée si porta la mano al petto per stringere l'aquila d'argento, dimenticandosi che oggi non indossa il ciondolo. Anzi, da quando siamo arrivati in campagna, non gliel'ho mai visto addosso. «Non azzardarti a darmi la colpa!»

«Il tuo è solo vittimismo, nient'altro! Io me le ricordo tutte le volte che permettevi a quello Waylatt di salire in camera tua, cosa credi? Si sa che gli uomini hanno i loro istinti, su. Se tu non l'avessi provocato...»

Alizée scatta in piedi con tale veemenza da far sobbalzare Ian, e Matt preme un tasto sbagliato producendo una nota che risulta stridente. Se ho mai pensato che lo sguardo di disprezzo che riserva a Klaus sia terrificante, quello che ha adesso è di gran lunga peggiore: disgusto allo stato puro. «Stronza ipocrita. Come osi farmi la morale, quando tu ti scopavi un ragazzino quindicenne che hai comprato con la droga?»

Matt rilascia un respiro pesante. «Così mi fai sembrare una prostituta d'alta classe».

Lo dice con la disinvoltura che è il suo marchio di fabbrica, eppure c'è qualcosa di diverso nella sua espressione, nella tensione delle spalle o nella rigidità della postura, che mi suggerisce che è più turbato di quanto voglia apparire.

Ian prende la parola per la prima volta. «Ora basta! Stai esagerando, Jacqueline!» Essendo un uomo piuttosto tranquillo non ha nemmeno urlato, ma è chiaramente livido di rabbia, con i pugni serrati lungo i fianchi e una malcelata ostilità impressa sul viso. Si gira di scatto verso il fratello e sbotta: «Puoi smetterla con quel maledetto piano, dannazione?!»

Con mia sorpresa, lui obbedisce senza protestare e il suono della musica si affievolisce fino a spegnersi, creando uno dei silenzi più imbarazzanti a cui abbia mai assistito.

A infrangerlo è lo stesso Ian, che si è posizionato davanti alla moglie come per volerla proteggere. Secondo me, però, l'unica davvero in pericolo è la vecchietta. «Stavolta Klaus non è il problema, d'accordo?»

Matt spalanca le braccia. «Alleluia, gridiamo al miracolo».

«Puoi farmi il favore di startene zitto?» sibila Alizée, ottenendo in cambio un sorriso beffardo... e amaro.

«Chiedimelo con cortesia, milady, e potrei farci un pensierino».

Se Ian non l'avesse trattenuta tra sé e il tavolo, sfiorandole gentilmente un polso cerchiato dai braccialetti, sono convinta che si sarebbe avventata su Matt per colpirlo dritto in faccia.

«Lo ripeto per l'ultima volta. Non verrò a quel matrimonio, a meno che non accettiate di celebrarlo qui. Non metto piede in quella villa infestata dal diavolo, proprio no. Non dopo quella tragedia» sentenzia Jacqueline mentre spolvera i santini disposti su una mensola, in un bizzarro contrasto con il fucile da caccia appeso a due robusti ganci. «Non capisco perché ci tenete tanto, comunque. Mia figlia mi odia, non le mancherei».

«Certo. Io odio te, come no». Alizée fa una risata aspra, tornando seduta sulla sedia. «Se ti consola detesto anche lo sposo, ma purtroppo fate entrambi parte della famiglia e abbiamo un'immagine da preservare».

Un angolo della bocca di Matt si piega in un sorrisetto ironico. «Io sarei qui, eh».

«Purtroppo, lo so».

«Sentite, tutti abbiamo i nostri... trascorsi, va bene?» soggiunge Ian cauto. «Ma stiamo dalla stessa parte, Jacqueline. Quell'articolo è oltraggioso tanto per gli Hallander quanto per i Blackwood».

«Che melodrammatico» bofonchia Matt, incrociando le mani dietro la nuca. «Cosa ci sarebbe di scandaloso? La storiella di "Michael, il fratello perduto" è roba vecchia, così vecchia che non ci crederebbe neanche il mio amico Kevin... ed è un terrapiattista, per dire».

«Magari, invece, mi riferivo alla parte sulla tua presunta tresca con mia moglie». La voce di Ian ha un che di minaccioso.

Colgo un brevissimo sguardo tra i due fratelli, prima che Matt abbassi la testa, stranamente ammutolito.

«Se mio marito fosse ancora vivo, pace all'anima sua, nessuno avrebbe mai osato insultarlo con un articolo del genere». L'anziana sfiora una delle cornici sul ripiano.

«Già, ricordo i suoi metodi» replica Alizée ostile. «Comunque, verrai al matrimonio. E non preoccuparti per il fatto che ti odio, ormai sono abituata a stare con gente che non sopporto».

Matt si alza dallo sgabello. Il blu dei suoi occhi scintilla nel gioco d'ombre che gli aleggia sul volto. «Anche perché altrimenti dovremmo sterminare tre quarti dell'umanità. A essere ottimisti».

Ian lo squadra torvo per un attimo. «Non aiuti».

«E chi voleva aiutare?» Matt si inginocchia davanti all'armadietto di mogano e ne estrae una bottiglia di liquore. Prende un bicchierino, poi ci ripensa e lo sostituisce con un calice di cristallo. «Ma sarebbe carino se uno di voi mi chiedesse cosa voglio, o non voglio, visto che è il mio matrimonio. Così, giusto per ricordarvelo».

«Già, tuo e di una moglie fantasma di cui non si sa nulla» commenta Alizée con velenosa ironia. «Cosa c'è, questo è un altro dei tuoi trucchetti da circo? Ti annoiavi alle Hawaii e hai deciso di sposarti con la prima che passa?»

Matt riempie il calice di liquido ambrato e si appoggia alla seduta sotto l'arcata della finestra. Il sole gli fa risplendere i capelli arruffati, trasformandoli in un caldo castano dorato, e Jacqueline lo guarda con l'aria di chi vorrebbe qualcosa che gli è stato proibito di toccare.

«Sicura di non volere un goccetto, milady?» propone ad Alizée. «Dicono che l'alcol riscaldi, magari scongela un po' anche te».

«Io non bevo» replica lei rigidamente. «E tu non hai risposto. Non ci resta che sperare che almeno sia davvero una donna... Da te, me l'aspetterei una simile oscenità».

Jacqueline sobbalza, facendo tintinnare le perle della sue collana, alla cui estremità pende un crocifisso. «Oh, Signore!» mormora inorridita, tracciandosi il segno della croce. «Che assurdità! Matthew non è certo uno di quegli... invertiti. A differenza di quello straniero a cui permetti di essere amico dei tuoi figli!»

All'improvviso, avverto un lieve sussulto al mio fianco e mi accorgo che Edric è inginocchiato non molto lontano, intento a sbirciare dalla fessura proprio come me.

E sarei io, la ficcanaso!

Non ho idea di quando sia arrivato, ma dal suo sguardo intuisco che deve aver fatto in tempo per sentire sua madre definire l'essere gay una "oscenità". I suoi occhi, della tonalità di un cielo limpido, sono puntati sulla madre e si sta stropicciando nervosamente un lembo della camicia bianca. Per qualche ragione, vengo assalita da uno strano senso di protezione nei suoi confronti.

L'ultima cosa che gli serve è ascoltare questa conversazione.

Afferro di nuovo il pomo ed esito; sto ancora cercando di decidere se fare irruzione o sgattaiolare via, quando Alizée si volta e chiede in tono algido: «Vi serve qualcosa, a voi due?»

Apro di più la porta, che emette un cigolio piuttosto comico. Al mio fianco, Edric mi guarda con l'aria di un condannato a morte che implora il boia di ucciderlo in fretta e nella maniera meno dolorosa possibile.

«Ehm, avevo sete» mento, sentendo tutti gli sguardi puntati su di noi. Indico la bottiglia di liquore sul tavolo. «Non posso sperare che sia bourbon, quello, vero?»

«È come avere un Maxwell al femminile» commenta Matt, sbellicandosi dalle risate.

«Per carità, quel delinquente! Avevo avvisato Elaine che era un poco di buono, un giovanotto tanto carino quanto irresponsabile, ma non mi ha ascoltata. Non mi sorprende che se ne sia sparito nel nulla, così» Jacqueline mi fa il sorriso più falso della storia. «Senza offesa, tesoro».

«No, figurati. Adoro che si insultino i miei genitori» replico sprezzante.

La signora Blackwood si porta una mano al petto, sconvolta. «Sei davvero maleducata, per essere una ragazza. Ma in fondo basta vedere come ti vesti e quelli». Accenna ai miei capelli tinti di blu scuro. «Non che mi stupisca, eh! Ormai il mondo va al contrario: le femmine si atteggiano da maschi e i maschi fanno le femmine. Povera me, dove finiremo!»

«Certo» taglia corto Ian, sbrigativo. Si incurva in avanti, posando gli avambracci sullo schienale di una sedia vuota mentre il suo sguardo premuroso si sposta da me a suo figlio. «Di che avevate bisogno, comunque?»

Sorrido. «Noi niente, ma qualcuno di una dentiera nuova, tra poco». Probabilmente me lo sono immaginata, ma giurerei di aver visto un lampo divertito guizzare sul volto di Alizée.

«Scusate, ce ne andiamo subito» farfuglia Edric. Mi strattona indietro per una manica, chiude piano la porta e mi trascina fino a metà del corridoio come se avesse percepito la mia voglia di continuare a spiare.

«Ehi, basta! Ho capito!» Cerco di liberarmi dalla sua presa, ma alla fine è lui che mi lascia andare. «Ora staranno parlando di me e di mio padre, ci scommetto».

«Lo so. Per questo è meglio che tu non li senta». Edric sospira, lanciando un'occhiata verso il soggiorno da cui non proviene nessun suono. «Ti farebbe solo male, fidati».

Il suo tono è talmente avvilito da provocarmi un moto di tenerezza. Gli cingo le spalle con un braccio, avvicinandolo a me, e il suo profumo al bergamotto mi investe; dopodiché, lo costringo a chinarsi quanto basta per potergli scompigliare i capelli neri, cosparsi di vernice.

«Dai, smettila!» si lamenta lui, divincolandosi.

Per dispetto, lo stringo più forte e gli strofino il pugno sulla sommità della nuca. «Potremmo creare una band: io, te e il biondino. L'invertito figo, il maschiaccio maleducato e il dono del Signore. Avremmo un successone».

Appena lo libero, Edric si ritrae e ci guardiamo negli occhi per un attimo, prima di scoppiare a ridere insieme.

«La rossa aveva ragione» esclamo, tappandomi il naso con entrambe le mani. «Puzzano».

Simon inserisce la pertica per bloccare la porta della stalla e si raddrizza gli occhiali storti sul naso. «Ma sono bellissimi! Non puoi negarlo!»

Ed è vero, non posso.

Ai lati di un largo corridoio, si trovano due lunghe file parallele di box invasi di paglia, ciascuno con un abbeveratoio e un pannello scorrevole sul retro che, se aperto, conduce a un enorme cortile recintato.

Sia dentro che fuori, ci sono dozzine di esemplari di cavalli varie razze. Non ne riconosco neanche una, ma questo non mi impedisce di notare quanto siano possenti e stupendi. Tutti sfoggiano un manto diverso, dal tradizionale marrone al bianco immacolato, fino ad arrivare a quelli leopardati coperti di macchie. Alcuni hanno la criniera più folta, altri gli zoccoli pelosi e altri ancora una striscia candida sul muso.

Lascio ricadere le braccia lungo i fianchi, guardandomi intorno mentre il pavimento di legno crepita sotto i nostri passi. «Quanti cavolo sono?»

«Una trentina, forse meno». Simon si stringe nella giacca a vento, le guance arrossate a causa del freddo pungente. «La nonna non se ne occupa da sola, ovviamente».

Inarco un sopracciglio. «Ti avviso. Non sono evasa dai lavori forzati agli ulivi per pulire i regalini di Spirit and company».

Lui scoppia in una risatina nervosa, fermandosi davanti a uno dei box. «Non era proprio questa l'intenzione». Sposta il peso da una gamba all'altra, poi aggiunge in tono impacciato: «Avevamo concordato un appuntamento, ricordi?»

Un sapore amaro mi invade la gola, e capisco che è il senso di colpa per avergli nascosto quello che è successo tra me e Klaus in queste settimane. Il bacio in piscina, poi di nuovo sulla fontana e la notte che abbiamo passato insieme alla villa...

"Siamo solo amici, adesso" mi ripeto. "Solo amici".

Quando mi rendo conto che i suoi intensi occhi verdi mi stanno ancora fissando, in attesa, abbozzo un sorriso. «Nessun appuntamento, carotino. Una tapas».

Lo sento tirare un sospiro, come se avesse trattenuto il fiato per tutto il tempo. «Giusto, una tapas» annuisce sorridente. «Allora vieni, ti voglio pre...»

Non ha ancora finito che un muso spunta dalla finestrella del box e gli si struscia con affetto sul viso. Ridacchiando, Simon gli dà una grattatina dietro le orecchie. «Ecco, appunto. Questo è Bucefalo» mi dice, aprendo la porta per permettermi di vederlo meglio.

Il purosangue in questione è nero come la pece, dal fisico muscoloso e agile, con una stella bianca sulla fronte e uno sguardo fiero ma tranquillo puntato su di me; per quanto sia splendido, però, mi si accappona la pelle al pensiero di salire sopra a un gigante di almeno cinquecento chili.

Ingoio un groppo, mascherando la mia agitazione. «Senza offesa, ma Bucefalo è un nome orribile».

«Era il nome del cavallo di Alessandro Magno».

«Alessandro Magno aveva pessimi gusti, allora».

Dato che Bucefalo è già stato preparato con sella e finimenti –ora inizio a capire a cosa si riferisse, quando ha detto a Edric che aveva da fare–, Simon lo conduce fuori dalla stalla. Quasi non ha bisogno di tenerlo per le redini, lasciando che ci segua in totale libertà tra una carezza e l'altra.

Ci incamminiamo sul sentiero di terra battuta che si stende lungo un lussureggiante campo di grano, delineato dai profili dentellati delle cime degli alberi sulle colline. Malgrado la distanza, posso vedere le loro chiome gialle e rossastre che spiccano sullo sfondo cobalto del cielo.
A sinistra, invece, si trova il grande prato in cui i cavalli possono correre e saltare a loro piacimento; Liam è ancora occupato a riparare lo steccato del recinto, ma basta osservarlo per accorgersi che lo sta facendo con distratta lentezza.

Per una volta, il suo aspetto non è impeccabile: niente giacca né cravatta, la camicia di un bianco sporco, le maniche arrotolate fino al gomito e i capelli castani leggermente spettinati. In una mano impugna un martello con cui picchietta sui chiodi per fissare i robusti pali di legno. È così assorto che non si accorge della nostra presenza finché Simon non agita una mano per attirare la sua attenzione.

«Noi andiamo a farci un giro» grida mentre gli passiamo di fronte. «D'accordo?»

Non posso fare a meno di constatare che è buffo che i cuccioli Hallander sentano il bisogno di giustificarsi con Liam, o chiederne il permesso, più spesso di quanto facciano nei confronti del padre.

Lui mi guarda con pacato interesse, ma scorgo una sfumatura di condanna nella sua espressione che mi fa contorcere lo stomaco. Senza interrompere quel contatto visivo, si rivolge al fratello: «Certo. Ma non allontanatevi troppo, mi raccomando».

«Tranquillo, torneremo prima di cena».

Rimango in silenzio qualche minuto per godere del bellissimo paesaggio, respirando a pieni polmoni l'aria pulita e incontaminata (okay, anche un po' puzzolente) della campagna. Infine, dopo essermi accertata che siamo abbastanza distanti, mi lascio andare alla curiosità.

«Tu sai perché lo spilungone è così... serio, ultimamente? So che lo è sempre, ma da quando siamo partiti è più silenzioso del Re della Notte nel Trono di Spade». Mi gratto il mento, riflessiva. «O di Mr. Bean. Ora che ci penso si vestono anche allo stesso modo».

Simon dà un buffetto sul collo di Bucefalo, che procede sbuffando in mezzo a noi. «È preoccupato per Klaus, credo. Non gli piace perderlo di vista, soprattutto da quando suo zio è in città». Mi sbircia per un istante. «E tu?»

Aggrotto la fronte, scansando una ciocca che il vento continua a spingermi sulla faccia. «Io, cosa?»

«Sei preoccupata per Klaus?» La sua voce è serena, addirittura comprensiva, e questo non fa che accrescere i miei sensi di colpa.

Faccio spallucce. «Invidiosa, più che altro» lo correggo con forzata indifferenza. «Non è giusto che il biondino si sia risparmiato l'agonia di venire qui. L'altro giorno la tua nonnina voleva costringere me e la rossa a lavare tutti i piatti della cena perché lei era stanca e, cito testualmente, "Mia figlia non muove un dito in casa per non rovinarsi le unghie". Cioè, Alizèe sarebbe sua figlia, non mia. Vabbè, hai capito».

«Lo so. Per poco non sveniva quando si è offerto papà di farlo».

Scuoto la testa, scioccata. «Ma perché non si compra una lavastoviglie, scusa? E, già che c'è, magari anche un altro albero di Natale. Quello che c'è è più deprimente di un salice!»

«Cos'hai contro i salici?» chiede ammiccando.

«Nulla, ma se si chiamano "salici piangenti" tanto allegri non sono».

Simon ridacchia. Rallenta il passo fino a fermarsi, imitato subito dal cavallo, e si mette a trafficare con le briglie. Approfitto di quei momenti di distrazione per studiare bene il suo viso, immaginando di doverne registrare ogni dettaglio per uno dei miei ritratti.

I capelli ramati che sembrano bruciare ai raggi del sole, il ricciolo adorabilmente arrotolato dietro l'orecchio, le minuscole pietre di lentiggini incastonate sulle guance, i lineamenti netti e decisi, non troppo affilati, le ciglia lunghe. Un sorriso spensierato gli increspa le labbra sottili e i grandi smeraldi brillano dietro le lenti.

Anche sforzandomi, non riesco a trovare nessuna somiglianza con Klaus; persino il fisico è diverso. Pur essendo entrambi snelli e slanciati, quello di Simon è più robusto e spigoloso, ma privo di quella grazia innata, quell'agilità felina dell'altro.

«Perfetto». Simon finisce di sistemare le cinghie del sottopancia e, tirandosi su, si stiracchia. Mi lancia un'occhiata curiosa. «Stai bene? Che c'è?»

«Lenticchia» dico all'improvviso.

«Cosa?»

Prendo a giocherellare con il coltellino, ma rabbrividisco appena sfioro un oggetto di carta nella tasca. L'origami. Non sapevo neanche di averlo portato. «Se il tuo soprannome non fosse carotino, sarebbe "lenticchia"».

«Buone, le lenticchie» sogghigna, anche se appare abbastanza disorientato. «Allora, sei pronta?» E accenna a Bucefalo che sta scalpitando impaziente.

«A una morte lenta e precoce? Sì sì». Mi mordicchio il labbro, ricambiando lo sguardo del nero purosangue. «Mi odia, ne sono sicura».

«Non è vero» replica lui bonario.

«Sì, invece. Gli animali mi detestano sempre».

Simon rotea gli occhi, divertito. Allunga una mano e mi attira delicatamente a sé, aiutandomi a montare in sella per poi salire a sua volta dietro di me con il movimento fluido e sicuro di chi ha una certa esperienza. Mi passa le braccia attorno al corpo per prendere le redini, ma io sono troppo distratta per badarci, sbalordita da come tutto abbia un altro fascino in groppa a un cavallo.

La consapevolezza di essere seduta su una creatura vivente che potrebbe tranquillamente scagliarmi via peggio di un frisbee, se volesse, è terrificante. Ma quando Bucefalo si lancia al galoppo, sfrecciando verso l'orizzonte ammantato di luce dorata, con il vento gelido che mi ulula nelle orecchie e il cuore che mi tuona nel petto, mi abbandono a un urlo catartico.

Uno spirito selvaggio mi pervade, l'animo indomabile di qualcuno che è nato per essere libero e lo rimarrà per sempre. E, mentre una parte di me si chiede se anche Klaus si sente così nel contemplare il mondo dall'alto, finalmente scopro cosa si prova a volare senza ali. 

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top