61. L'UOMO CATTIVO PT.2

P.O.V. KLAUS

Dopo un istante di esitazione, lo raggiungo fuori dal Lucky House.

Una folata gelida mi scompiglia i capelli biondi e, infreddolito, mi stringo nella giacca che indosso sopra la camicia nera. Il cielo si è scurito, lo sfondo color piombo offuscato da una patina di nuvole pallide, e già si scorgono i dardi argentei delle stelle.

Eccetto per l'atmosfera natalizia, tutto in questa sera mi rievoca quella in cui è arrivata Keeley, quando sono tornato a casa in ritardo dopo essere stato per ore nel cottage. Al mio arrivo mi aspettavo di trovare solo una sgridata di Alizée, invece c'era lei, una ragazza sconosciuta con l'amore della mia vita racchiusa nei suoi occhi d'ambra.

«Hai intenzione di startene zitto ancora per molto?» mi incalza Vincent, mescolando la sua cioccolata.

Sebbene abbia usato un tono scherzoso, lo conosco fin troppo bene per non sapere quanto è facile irritarlo. «Dicevi sempre che dovevo avere il tuo permesso per parlare» faccio notare, scegliendo con cautela le parole.

Un lampo compiaciuto gli guizza sulla faccia deturpata.

In lontananza si sente il frastuono dei centri commerciali della Little Avenue, ma noi andiamo in direzione di una stradina allestita di mercatini, con le vetrine dei negozi splendenti di lucine colorate e fiocchi di neve di cristallo appesi ai lampioni. Non c'è molta gente in giro, ma mi rassicura comunque sapere che non siamo da soli.

«Odio l'America». Vincent si guarda intorno con una smorfia. «Gli Waylatt hanno origini inglesi. Anche mio padre lo era, ma si è trasferito oltreoceano a caccia di chissà che fortuna, invece si è ritrovato con pugno di mosche. Me ne parlava spesso, della sua Londra. Così iniziai a sentirne la mancanza, anche se non c'ero mai stato... ci sono luoghi, e persone, a cui apparteniamo e basta. Sei d'accordo?»

Tocco la lettera H incisa sul leone dell'anello, pensando ai miei fratelli, a mia sorella, a zio Matt. Pensando a Keeley, a Elizabeth. Coloro che amo più di quanto abbia mai amato me stesso, coloro che occupano i frammenti più belli della mia anima.

«Sì, è vero» mormoro. «Se ti manca tanto Londra, perché sei venuto?»

Vincent arcua un folto sopracciglio. «Per te» risponde, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «Per riportarti a casa».

«Chi ti dice che io voglia venire con te?» Non riesco a evitare di far trapelare una nota di risentimento.

«Non ti faccio una colpa l'essertene andato, Klaus. Eri un bambino e Maxwell Storm ti ha preso, ti ha rapito e portato via da me. Non avresti potuto fare niente». Vincent mi strofina l'indice su una guancia nella patetica imitazione di una carezza, e tutti i miei nervi scattano in allerta. «Ma ora sei cresciuto, sei grande abbastanza da poter decidere. E cosa mai dovrebbe trattenerti dagli Hallander? Magari hai sperato che Alizée e Ian ti avrebbero fatto da mamma e papà, trattato come se fossi loro, ma dubito che sia andata in questo modo. O sbaglio?»

Rimango in silenzio, scalciando via un sassolino che rotola fino a una pozzanghera. Quando passiamo sopra il ponte di pietra, getto un'occhiata al fiume, un nastro oscuro che gorgoglia tra le rocce e si perde nell'ultima striscia di fragile blu all'orizzonte, prossima a essere inghiottita da un grigiore spettrale.

«Che pena» continua Vincent, dopo aver bevuto un sorso dalla tazza. «Ancora elemosini briciole di affetto da una donna che non te ne darà mai. Una donna il cui amore è solo veleno...»

Un impeto di rabbia mi assale. «Io non voglio proprio niente da Alizée!»

«Ah no?» Lui emette una risata sguaiata che mi fa sobbalzare. «Forza, allora dimmi che non sei geloso dei suoi figli, che non ti fa male sapere che ha voluto loro mentre ha buttato via te come spazzatura. Non una, ma ben due volte: diciotto anni fa, e adesso di nuovo. Dimmi che non hai passato questi sette anni desiderando solo di poterla rendere orgogliosa, di dimostrarle che sei degno del suo affetto. E, quando hai visto che non funzionava, che non ti avrebbe mai voluto bene come volevi, allora hai deciso di fare il bambino ribelle per attirare l'attenzione».

Il suo sguardo mezzo cieco è un contrasto di sadica compassione, come di qualcuno che spezza la zampa a un cucciolo e poi si intenerisce per i guaiti che lui stesso gli ha provocato. «Perché sei questo, Klaus. Da sempre. Un bambino che cerca la sua mamma».

Mi immobilizzo, i muscoli delle braccia tesi, lasciando scivolare giù lo zaino. Sento il sapore aspro della paura che si mescola a quello amaro dell'odio nella mia bocca. Per un folle momento vorrei soltanto poterlo colpire, gettarlo a terra e restituirgli tutti i calci e i pugni che mi ha dato quando ero troppo debole per difendermi.

Il problema è che sono ancora troppo debole per difendermi.

Perché, se anche non fossi terrorizzato da lui, rimarrebbe comunque un divario di stazza che equivale a un gatto che sfida un rottweiler.

«Hai un bel coraggio a criticare Alizée» sputo con amarezza. «Lei sarà anche ciò che è, ma almeno non ha mai finto di tenere a me».

Vincent si ferma all'imbocco del sentiero che si snoda nel parco, fiancheggiato da alti cespugli. L'erba falciata è lucida per la pioggia recente, un po' fangosa, ornata dal rosso e dal giallo tipici dell'autunno che ne mettono in risalto il verde ombroso, rendendolo ancora più intenso.

Gli occhi dell'uomo buono avevano quel colore, ricordo all'improvviso. Quando ci ho guardato dentro per la prima volta, rannicchiato in quella cabina armadio, mi è sembrato di entrare in un bosco oscuro pronto a inghiottirmi.

«Fingere?» ripete Vincent incredulo. «Non capisco come tu possa anche solo pensarlo. Ti ho preso con me quando nessuno ti voleva. Ero giovane, senza soldi, senza uno straccio di famiglia, ma quando Ian mi ha detto che ti avrebbe dato in adozione a meno che non avessi accettato di tenerti... L'ho fatto. Perché eri mio nipote, sei mio nipote. E nonostante tutto ciò che ho perso per colpa tua, mi sono preso cura di te...»

«QUELLO?» grido furioso, spaventando alcuni ragazzini che giocano sulle altalene, a una decina di metri di distanza. «Quello era prenderti cura di me?! Beh, se quello era il tuo affetto, io non lo voglio!»

L'occhio bianco gli si accende di uno scintillio sinistro. «Ti ho sempre voluto bene, Klaus. Lo sai anche tu. Sarei forse venuto fin qui, solo per te, se non fosse così?» insiste, parlando con la semplicità di chi sta spiegando che due più due fa quattro.

Le parole mi escono con l'impeto di un fiume in piena, mandando al diavolo quel che restava del mio autocontrollo. «No, non è vero. Come non è vero che ti sono mancato. Ti è mancato ciò che mi facevi. Ti piaceva, ti divertiva farmi del male! Se sei qui, è perché hai capito che sei solo, che non hai nessuno, e hai pensato di venire a reclamare il tuo cane ammaestrato per dimenticarlo».

Alla fine, sto ansimando e devo infilare le mani nelle tasche dei jeans per nasconderne il tremore.

L'ombra che balena sul viso di Vincent mi spinge ad arretrare di un passo. Serra le dita sul bicchiere di cartone, accartocciandolo, e rivoli scuri di cioccolata gli rigano la pelle macchiata dall'età. Eppure, continua a usare un tono sorprendentemente calmo. «E per i tuoi Hallander cosa pensi di essere? Uno di loro?»

I suoi lineamenti duri si distorcono in un ghigno crudele che mi fa gelare il sangue. «Per loro, tu non sei diverso da quel gattino che hai trovato per strada e portato alla villa. L'hai fatto per pietà, perché l'hai visto ferito e ogni creatura ferita implora di essere salvata. All'essere umano piace che lo si supplichi, agli Hallander ancora più della media. Ti hanno tenuto con loro per la stessa ragione, ragazzino... Pietà. L'animaletto domestico da coccolare per dare fastidio alla mammina cattiva».

Scuoto freneticamente la testa, quasi con disperazione. La voce mi esce in un sibilo, strozzata. «I miei fratelli...»

«Fratellastri» mi corregge Vincent.

Se mi avesse dato uno schiaffo, l'effetto sarebbe stato uguale.

«Puoi evitare di dirlo quanto vuoi, ragazzino, ma non cambia che l'unica cosa che ti unisce a loro è una linea di sangue che tuo padre ha ficcato a forza nell'albero genealogico. Sei il loro fratellastro perché avete la stessa madre, e avete la stessa madre perché lui l'ha stuprata. E dallo stupro sei nato tu. Sul serio pensi che potrebbero mai amare la cosa che ha rovinato le loro vite? La cosa che gli ha tolto le già poche possibilità di avere una famiglia felice?»

Una stanchezza improvvisa mi travolge, spegnendo qualsiasi mia ribellione. A cosa servirebbe?
Dentro di me, in profondità, so che ha ragione. Non posso combattere contro una verità che conosco da sempre: è colpa mia.

Gli do le spalle e chino la testa, fissandomi la punta delle scarpe attraverso la leggera nebbiolina che mi brucia gli occhi. Sento la pressione calda delle lacrime che cercano di uscire, ma le allontano con un battito di ciglia.

No, non piangerò davanti a lui. Mai più.

«È ingiusto che tu debba soffrire tanto per le azioni di un altro. Lo capisco, fidati» sospira Vincent raddolcito. Lo percepisco muoversi furtivo, senza fretta, consapevole di aver già vinto. «Hai ferito tutte le persone che ami, Klaus. Non l'hai scelto, ma devi conviverci. Vuoi proteggerle, ma sei stato il loro male peggiore. Pensa a tua madre, non Alizée, tua madre. La mia Judi. Te lo ricordi il nostro segreto, Klaus? Ma certo, lo porti scritto sul volto, in fondo...»

La sua presenza è dietro di me è come un'entità invisibile che mi sovrasta. Me ne accorgo ancora prima che il suo petto massiccio si appoggi contro la mia schiena o che il suo indice ruvido tracci il profilo sottile della mia cicatrice. Mi irrigidisco, tutto il mio corpo snello che trema al contatto con il suo, largo il doppio e alto quasi quanto Liam.

«Oppure pensa a lei. A loro» mi sussurra, le labbra a un soffio dal mio collo. «Quanto meschino ed egoista devi essere per amare sua sorella, dopo ciò che le hai fatto. Distruggerai anche Keeley, come hai distrutto Elizabeth».

Quei nomi mi trapassano come frecce scagliate una dietro l'altra.

Per un attimo, le mie mani stanno di nuovo stringendo quella pistola, il mio dito sul grilletto, ma l'arma questa volta è puntata su una ragazza dai capelli blu. La fiducia impressa nell'oro del suo sguardo, però, è la stessa che aveva lei.

«Non voglio fare del male a Keeley» dico debolmente mentre dolore allo stato puro si riversa direttamente nella mia anima. «Non ho mai voluto farne a nessuno. Neanche ad Alizée».

«Lo so, piccolo mio. So che c'è qualcosa di cattivo in te, l'ho sempre saputo. Ma tu sei la mia famiglia, Klaus, e io voglio aiutarti. Posso aiutarti». Mi afferra i capelli in una presa che voleva risultare rassicurante, addirittura paterna, invece è solo possessiva. «Se verrai con me, i tuoi fratellastri non sapranno mai di Elizabeth. Neanche Keeley lo saprà mai. Ma se rimani, le tue uniche alternative sono mentirgli fino all'ultimo dei tuoi giorni, oppure lasciare che ti vedano per ciò che Alizée ti ha sempre accusato di essere. Uno sbaglio, un mostro... tuo padre».

«Se vengo...» Faccio una breve pausa per ingoiare un groppo alla gola. «Voglio la verità. Tutta».

«L'avrai».

Vincent mi cinge la vita con un braccio e mi trascina su una panchina, costringendomi a sedere al suo fianco.

Dal nulla, uno di quei ricordi che graffiavano per liberarsi affiora scavando fuori dalla fossa del passato. Rivedo un me bambino sulle sue ginocchia, accoccolato al suo torace, come se cercassi protezione in quello stesso aguzzino da cui volevo scappare. Rivedo l'uomo cattivo che fuma una sigaretta mentre mi accarezza i lividi, violacei sulla pelle avorio, bisbigliando qualcosa per tranquillizzarmi con il naso tra le mie ciocche color miele.

Nel presente, il silenzio tra noi è colmato solo dagli ululati gelidi del vento. Non so quanti minuti siano trascorsi, quando trovo finalmente la forza di spezzarlo.

«Michael» pronuncio infine. «Michael è vivo?»

Per la prima volta, la sua espressione muta in un'emozione del tutto inaspettata: sconcerto. Dura una frazione di secondo, ma è evidente che non aveva previsto una domanda del genere.

«Cosa te lo fa pensare?»

Rifletto attentamente prima di rispondere, deciso a non lasciarmi sfuggire informazioni che potrebbero anche solo lontanamente alludere a Keeley.

«Maxwell Storm. Ho parlato con lui» inizio a spiegare, sapendo che non si accontenterà di così poco. «L'ho chiamato dal telefono di Gladys. Lei è... era una sua amica. Quando Maxwell mi ha...» Soffoco a fatica il termine "salvato" e proseguo: «... portato via, era ferito e siamo andati da Gladys. Lo ha ricucito come meglio poteva, perché non voleva andare in ospedale, non so perché. Li ho sentiti litigare un po', ma poi Gladys ha accettato di portarmi da Alizée. Maxwell mi ha dato il braccialetto, quello che mi hai restituito, ed è partito prima di noi, dicendo che doveva incontrare una "vecchia conoscenza". Non ho mai capito di chi parlasse, ma ora deduco si riferisse a Michael, no?»

«Ne dubito» commenta Vincent, abbozzando un sorriso divertito. Molto divertito.

Gli lancio un'occhiata sospettosa. «Perché?»

«Tu come hai scoperto che la donna in questione era proprio Gladys? Si era presentata?»

«No, ma ho visto il suo tesserino, il simbolo dell'agenzia per cui lavorava. Sono riuscito a ricollegarla alla Walker Agency grazie a...» Deglutisco. «... a Elizabeth. Sono andato fino alla loro sede più vicina e ho saputo che una donna di nome Gladys Mitchell aveva lavorato per loro. Dalla foto ho visto che era identica a quella che avevo incontrato a Londra».

È tutto vero, dopotutto... giusto con alcune modifiche per estromettere un dettaglio che non posso assolutamente rivelare: il ruolo di Keeley.

«"Tuo padre è vivo"? Ha detto proprio questo?» sogghigna Vincent, neanche gli avessi raccontato la barzelletta del secolo. «Ah, Maxwell. Sempre a giocare con le parole, il bastardo».

«Hai promesso che saresti stato sincero» commento, a metà tra una protesta e una supplica. «È vero oppure no?»

«Oh sì! Tuo padre è vivo, eccome!» L'uomo cattivo scoppia a ridere, per poi incupirsi e aggiungere con un sorriso spento, amaro: «Michael invece non lo è». 

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