61. L'UOMO CATTIVO PT.1
P.O.V. KLAUS
Dicono che se si ripete una bugia dieci, cento, mille volte, alla fine riusciremo a convincerci che sia la verità.
Studiando i grandi classici della letteratura europea, o anche autori meno noti per imposizione di Alizée, mi sono imbattuto nel pensiero dell'italiano Luigi Pirandello a proposito di questo argomento; secondo lui, il confine tra vero e falso è puramente soggettivo, perché la realtà non è che un gioco d'illusioni e ognuno ha una propria visione che non coincide con quella degli altri.
Quindi eccomi, alle otto di mattina, intento a fissare il soffitto nella casa del mio migliore amico mentre mi ripeto come un mantra sempre la stessa frase: "Posso farcela. Andrà tutto bene, posso farcela".
Accettato che non sono così idiota da convincermene, mando al diavolo il relativismo pirandelliano e mi alzo dal letto.
La mia nuova camera è un po' più piccola di quella alla villa. Quando sono arrivato –ovvero al mio rientro dopo la scappatella per andare da Keeley –, era talmente in disordine da sembrare ancora meno spaziosa. Dopo due ore di duro lavoro sono riuscito a darle un aspetto quantomeno decente, ma continua a essere piena di cianfrusaglie che la fanno somigliare al paradiso perduto di Kal.
Davanti alla scrivania, al posto di una normale sedia, c'è un trono di ferro con uno schienale formato da innumerevoli lame finte (spoiler: è scomodo da morire). Una fila di flipper è disposta lungo una parete intera, lasciando un piccolo spazio all'angolo per una statuetta di Iron Man a grandezza naturale.
Su un'anta dell'armadio è attaccata una spada laser e, accanto al televisore al plasma, spicca una collezione di spade dei personaggi del Signore degli Anelli. Gli scaffali sono stracolmi di action figure, tazze a tema e dvd e cofanetti che ho accuratamente suddiviso per genere e organizzati in ordine alfabetico. Di libri neanche l'ombra, ho notato con un certo rammarico.
Nel caso non si fosse capito, questo sarebbe il deposito di Alaric per le "cose fighe da comprare ma di cui non sa che farsene". Parole sue.
Esco dalla stanza e percorro l'ampio corridoio, ornato di arazzi a disegni orientali, che conduce in soggiorno. Aperto il frigo dell'angolo cucina, ringrazio mentalmente che ci siano almeno gli ingredienti necessari per dei pancake, essendo stato troppo spesso in questa casa per non sapere che metà delle volte è vuoto, e preparo la colazione per tutti e tre.
Ho appena messo la piastra sul fuoco, quando una voce sensuale mi coglie alla sprovvista. «Ric non mi aveva detto di avere un coinquilino così carino».
Mi volto di scatto.
Una ragazza mi sta rivolgendo uno sguardo ammiccante da dietro il bancone, una chioma di ricci scompigliati a incorniciarle il viso spolverato da residui di trucco. Con un paio di jeans aderenti che le mettono in risalto le curve e un'attillata camicetta blu navy mezza sbottonata, è senza dubbio piuttosto attraente. Ma è una bellezza sfrontata, totalmente diversa da quella magica e delicata di Keeley.
«Ciao» esordisco perplesso, aggrottando la fronte. «Tu saresti...»
«Sophia, l'amica di un amico di Ric». Mi fissa per un secondo, soffermandosi sui punti in cui la t-shirt bianca aderisce ai miei pettorali. Il suo sorriso languido, sbavato di rossetto, si allarga. «Klaus Hallander, vero?»
Annuisco, per niente stupito di essere stato riconosciuto. Sono le controindicazioni di avere una cicatrice sulla faccia, un cognome ingombrante e un'accusa di omicidio appiccicata addosso.
Bella la fama, sì.
«Beh, piacere».
Prendo una spatola e comincio a girare i pancake a uno a uno. Accompagnata dal fruscio dei passi sul tatami, Sophia mi raggiunge e si appoggia al mobile vicino ai fornelli, portando con sé un intenso aroma floreale che quasi mi stordisce.
Per educazione, cerco di non badare al reggiseno in pizzo ben visibile tra i bottoni slacciati. «Spero che tu non abbia fame. Le uova erano le uniche cose commestibili e le ho finite» commento disinvolto.
«Peccato, avevo un certo languorino. Scommetto che sono buonissimi». E, per avvalorare il complimento, intinge la punta del mignolo nei rimasugli d'impasto della scodella e lo porta alla bocca, emettendo poi un verso di apprezzamento. «Mmh sì, sei bravo. Chi ti ha insegnato a cucinare?»
Scrollo le spalle, senza premurarmi di nascondere un moto di fastidio. «Ho imparato da solo».
Probabilmente intuendo di aver sbagliato qualcosa, la ragazza cambia strategia. Si tira a sedere con le lunghe gambe accavallate e mi struscia il ginocchio con uno dei piedi scalzi. Irrigidito da quel contatto, approfitto della scusa di dover disporre i pancake nei piatti per allontanarmi.
Sophia assume un ghigno ironico. «Certo che è difficile flirtare con te. Che c'è, hai una ragazza gelosa?»
Non ho il tempo di rispondere che una figura in boxer spunta dal corridoio. Vedendo dei capelli neri e un fisico tonico, all'inizio lo scambio per Alaric, ma poi noto che ha la pelle chiarissima e grandi occhi azzurrognoli.
«Magari ha altri gusti, Sof» ridacchia, esaminandomi con un lampo di desiderio. «Mi riterrei molto fortunato».
«O magari voglio solo fare colazione» replico bruscamente.
«Da bravi, lasciatelo in pace! Nessuno di voi due è il suo tipo, ve l'assicuro!»
Alaric entra in soggiorno, saltellando mentre lotta per infilarsi dei pantaloni skinny. Nonostante questo e la maglia alla rovescia mi suggeriscano che si sia vestito in fretta e furia, ha già provveduto a domare la sua naturale capigliatura da istrice con il gel. «Anzi, è proprio ora che ve ne andiate. Su su, via».
«Non ci offri neanche la colazione?» obietta il ragazzo mellifluo, prendendolo per un braccio. «Non è gentile da parte tua, Ric».
Alaric si lascia trascinare verso di lui e gli deposita un bacio leggero sulle labbra. Attende un istante, quasi a volerne saggiare il sapore, infine si stacca con un'espressione vagamente delusa.
«Vi ho dato me. Direi che sono già stato molto generoso». Fa un cenno eloquente in direzione dell'uscita. «Saraba di».
Cinque minuti dopo, recuperato il resto dei loro abiti, se ne vanno entrambi; il ragazzo si dilegua, lanciando solo un'occhiata amareggiata ad Alaric, Sophia invece lo saluta con calore e si ferma per mostrarmi un sorrisetto, prima di sparire nell'atrio.
Rimasti da soli, ci guardiamo in silenzio per un lungo momento.
«C'è qualcun altro, o ti sei accontentato del threesome?»
Alaric si lascia cadere su uno sgabello. «Non giudicarmi! Ero in astinenza da quest'estate».
«Sì, ma... un threesome?» ripeto scettico.
«Non riuscivo a dormire. E in teoria avevo chiamato solo Noah, ma era con Sophia in un locale gay. Sarebbe stato troppo crudele lasciarla dove aveva zero chance di rimorchiare». Prende un piatto di pancake, su cui ho versato lo sciroppo d'acero, e ne inspira il profumo. «Giuro che ti sposerei solo per questi, amico».
Piego il capo di lato, accigliato. «Smettila, Ric. Ti conosco. So che le sveltine sono il tuo modo di fingere che sia tutto okay».
«Ti assicuro che non c'è stato niente di svelto, in questo». C'è una sfumatura seccata nel suo tono. «Se vuoi, però, la prossima volta invito anche te. Tu prendi la ragazza, io il ragazzo».
«So che ti comporti così perché stai male per Ed».
Lui finge di non sentire. «Tu il ragazzo, io la ragazza?»
«Ric!»
«Non so che ti aspetti, Klaus! Ti stai sbagliando!» sbotta sulla difensiva. «Io e Edric siamo usciti insieme, mi ha dato un chiaro due di picche e adesso sto andando avanti. Punto, fine della storia».
«Ah sì?» Inarco un sopracciglio. «Curioso. Quel ragazzo somigliava parecchio al mio fratellino. Fisicamente, intendo».
La sua maschera d'indifferenza si incrina un poco, la forchetta rimasta sospesa a mezz'aria. «Io non direi. I suoi occhi non sono nemmeno lontanamente belli come quelli di Edric».
Cogliendo la mia espressione da "smettila-di-sparare-cavolate", un tenue rossore gli si insinua sul volto e si arrende. «Okay, sì. Soddisfatto? È spregevole da fare, ma sono andato a letto con Noah perché me lo ricordava. Credevo che mi avrebbe fatto passare questa... cosa che sento per lui».
Un profondo senso di vergogna torna ad assalirmi e prendo a rigirare l'anello con il leone attorno al dito. Spregevole. Ha ragione, lo è.
«Non si può sostituire una persona con un'altra» mormoro, perso nei miei pensieri.
Alaric sospira. «Lo so, ma non mi è mai capitato niente del genere. Mi innamoro e dimentico con la stessa facilità ogni volta. Non sono certo un tipo che si aggrappa ai sentimenti, soprattutto se non viene ricambiato. Eppure, quello che sto provando... è una tortura, maledizione!»
Prendo la bottiglia di latte dal frigo e accendo la macchina del caffè. «Hai pensato che, magari, Ed ti piace davvero? Senza giochetti o altro». Avvicino il bricco al beccuccio del vapore, iniziando a scaldarlo. «E lui ti ricambia, per la cronaca. Lo vedrebbe anche un cieco».
«Apprezzo molto che ti preoccupi più della mia non-relazione con Edric, piuttosto che della tua non-relazione con Keeley».
Lo stomaco mi si contrae in maniera quasi dolorosa, ma taccio e finisco di fare il cappuccino. Aggiungo un disegno a forma di cuore con la cannella e lascio la tazza sul bancone.
«Oh, ma che dolce!» esclama Alaric allegro, allungando la mano.
Gliela scaccio, sedendomi accanto a lui. «No, è per tua madre. Tu non lo meriti».
Per tutta risposta abbozza un sorriso canzonatorio. Di fuori le nuvole scure turbinano nel cielo e un tenue raggio di luce si infrange sulla sua carnagione olivastra. «Perdi la lingua solo quando si parla di Keeley, eh?»
La gola mi si inaridisce di colpo. Mi sbrigo a riempire un bicchiere di succo di pera (la gamma di scelta era limitata: quello o ananas), svuotandolo in un sorso. «Io e Keeley siamo amici. L'abbiamo deciso di comune accordo».
Alaric annuisce. «Me l'hai raccontato, sì. Ho un vuoto di memoria, aspetta: è successo prima o dopo esservi limonati sulla fontana? Proprio non ricordo».
Gli scocco uno sguardo truce mentre il telefono prende a vibrarmi nella tasca dei jeans. «Sapevo che avrei dovuto omettere quella parte» borbotto, sbirciando lo schermo.
Il cuore mi si torce nel petto nel leggere il nome del contatto, ma rifiuto la chiamata. Sarà la decima che ricevo da parte sua, a poche ore dalla partenza della mia famiglia, e mi sono costretto a ignorarle tutte. Non posso parlare con Matt, non adesso. Non ho mai avuto segreti per lui, non di quelli importanti comunque; forse perché la sua opinione è sempre stata un punto di riferimento per me, più di quella di qualsiasi altro adulto.
Di conseguenza so che, senza accorgermene, finirei per chiedergli un consiglio su ciò che sto per fare. Gli basterebbe dirmi che è una pessima idea e, probabilmente, rischierei di cedere. Ma non posso tirarmi indietro, non quando la verità che cerco da tutta la vita –e che Keeley cerca da tutta la vita, come Elizabeth prima di lei– è quasi a portata di mano.
Posso farcela. Andrà tutto bene, posso farcela.
«A proposito, i tuoi fratelli saranno già arrivati dalla...»
«Ric, tesoro!» lo chiama sua madre, irrompendo in soggiorno in uno sfregare di pantofole sul pavimento. La vestaglia di seta verde le svolazza alle spalle, allacciata in vita da un fiocco. «Cos'è quel disastro in camera tua? E che hai fatto alle lenzuola, per l'amor del cielo?»
Una smorfia inorridita si dipinge sul viso di Alaric, che allarga le braccia. Io, invece, scoppio in una fragorosa risata. «Mamma, quante volte devo dirti che è illegale entrare nella camera di un adolescente in fase ormonale, senza il suo consenso?!»
«Mi preoccupo! A quest'età siete così irresponsabili!» La donna si volta verso di me, sorridendomi. I suoi occhi a mandorla, color perla come quelli del figlio, sembrano brillare di luce propria: una luce che sprigiona dolcezza materna. «Ciao, caro. Come stai?»
Malissimo. «Ehm, tutto bene, signora Hayashi» dico impacciato.
«Ancora non hai perso questa abitudine» scherza lei. «Solo Kaori va benissimo. Ormai ti conosco come se ti avessi partorito io».
Quando si unisce a noi per fare colazione dietro il bancone, vengo pervaso dall'imbarazzo e cerco di mangiare il più velocemente possibile i miei pancake.
Avevo dimenticato ciò che si prova nel sentirsi un intruso in una famiglia a cui non si appartiene. Mi sono serviti mesi per liberarmi di quella sensazione con i miei fratelli, anche dopo che avevano cominciato ad accettare la mia presenza alla villa, sebbene non sia mai scomparsa del tutto. Impossibile, dato che lo sguardo di Ian e l'atteggiamento di Alizée mi ricordano ogni giorno quanto sia diverso da loro, inadeguato.
Mi fa male pensare che Keeley stia passando la stessa cosa.
«Grazie per il cappuccino, Klaus».
Mi riscuoto, rendendomi conto che la signora Kaori mi sta guardando con la tazza a pochi centimetri dalla bocca.
«Che ne sai che non te l'ho preparato io?» le chiede Alaric, ricevendo in cambio un'espressione bonaria.
«Di niente». Mi stringo nelle spalle. «Anzi, grazie a lei per l'ospitalità».
«Tesoro, non devi ringraziarmi! Figurati!» La donna si gratta una guancia, incerta. «Prima ho provato a chiamare tua madre, ma non mi ha risposto. Spero che i tuoi fratelli l'abbiano avvisata che sei qui, altrimenti immagino quanto starà in ansia!»
Nonostante sappia da anni che tra me e Alizée non c'è esattamente un rapporto idilliaco, continua a sostenere con tenacia che non esiste madre al mondo che non nutra affetto per una propria creatura. È stata questa sua filosofia a indurmi, per compassione, a omettere il dettaglio che andarmene non è stata una mia scelta, e che non sono sicuro sia temporanea.
«Ha ragione! Se dovesse succederti qualcosa, impazzirebbe! Povera, Alizée». Alaric mi rifila una gomitata alle costole. «Che disgraziato che sei, Klaus!»
Mi sforzo di trattenere un sorrisetto.
«Ma smettila!» La signora Kaori si pulisce con il tovagliolo. «Piuttosto, cerca di trovarti un bravo ragazzo come lui!»
«Mmh, lo stesso cognome va bene?»
Ridacchiando, mi alzo. Sparecchio il bancone e mi chino per sistemare tutto nella lavastoviglie, respingendo ogni tentativo della padrona di casa di farlo al mio posto. Sono sul punto di andare a farmi la doccia, ma non ho ancora lasciato il soggiorno che la mia attenzione viene catturata dalla conversazione in corso, nonostante la stessi seguendo appena.
«... vero, tuo padre sarà al matrimonio di Matthew» sta dicendo la signora Kaori comprensiva. «Ma non devi per forza parlarci, se non vuoi».
Quando mi giro, Alaric è afflosciato sullo sgabello e sta giocherellando con uno stuzzicadenti. Sul viso ha uno sguardo assorto che non ha niente del suo solito umorismo.
«Davvero?» gli chiedo stupito. «Non sapevo che sarebbe venuto».
«Ovvio» replica lui aspro, tirandosi in piedi. «Jason Hunter è troppo impegnato per fare il padre, ma non può perdere l'occasione di mettersi in mostra a un evento in cui ci saranno tutte le famiglie che "contano" a Sunset Hills. No?»
L'aria è fredda e pungente, carica di umidità, il cielo di un grigio opaco. Nonostante siano appena le cinque, è già calato il buio. Tra le tenebre, fitte e cupe, il vento sembra stridere come pietra sull'acciaio. Soltanto le luci rosse, verdi e blu che si abbarbicano sui terrazzi delle case o sugli alberi nei giardini conferiscono un po' di vivacità alla strada ancora bagnata per il temporale di stanotte.
A cavalcioni sulla ringhiera scivolosa, in cima all'ampia scalinata fuori da un palazzo, osservo il mio respiro trasformarsi in nuvolette bianche. Avverto gli sguardi dei pochi passanti, sotto di me, probabilmente convinti che sia uno dei tanti ragazzini incoscienti che fanno cose pericolose per divertirsi.
Non ho mai saputo molto sul padre di Alaric, a parte che ha divorziato con sua madre quando era piccolo e che viaggia in tutto il Paese per affari. Lui non ama parlarne, non più di quanto io ami parlare del mio passato; quindi, è nato tra noi questo tacito accordo di rispettare ognuno gli spazi dell'altro, lasciandoci una totale libertà di affrontare o meno l'argomento.
Non posso negare, però, che scoprire di Jason mi ha turbato. Non riesco a capire perché dovrebbe accettare di venire al matrimonio del fratello di qualcuno che ha smesso di considerare un amico da quasi vent'anni, e ancora meno il motivo per cui Ian lo avrebbe invitato.
Che ci sia lo zampino di Alizée? Che sia una delle sue contorte vendette per queste nozze organizzate a sua insaputa?
«Vedo che ti piacciono ancora le altezze».
Brividi gelidi mi affondano nella schiena come pugnali. Nonostante abbia già sentito la sua voce al telefono, dal vivo è ancora più simile a come la sogno nei miei incubi: cavernosa, dura e rauca, tipica di chi ha passato l'intera esistenza con il vizio del fumo.
Quando chino la testa, lo vedo.
È in piedi sul primo gradino, la sua figura vagamente rimpicciolita dalla distanza, anche se non abbastanza per nascondere la sua mole possente. Da bambino mi sembrava enorme: un ammasso di muscoli e cattiveria che poteva farmi qualsiasi cosa volesse.
Non è cambiato nulla.
Accorgendomi che sto tremando, mi affretto a scendere dalla ringhiera. Persino caricarmi lo zaino sulla spalla è uno sforzo immenso, nonostante dentro ci siano solo vestiti e poco altro. Sfioro la pietra d'onice incastonata sul mio anello, ricordando le parole di Liam: "Promettimi che seguirai alla lettera le mie indicazioni".
Man mano che percorro la gradinata, il profumo che proviene dal Lucky House allenta leggermente la morsa nel mio petto. C'è odore di cioccolata e nocciole tostate. Vincent invece è intriso della puzza di alcol e sigarette, quando allarga le braccia per accogliermi in un abbraccio.
«Mi sei mancato, ragazzino» mi sussurra all'orecchio. Giurerei che sembra sincero.
Rimango immobile, sentendomi fragile e insignificante nella sua stretta forte, assalito dalla stessa orribile certezza che avevo da piccolo. Quella che mi diceva che le sue grosse mani avrebbero potuto spezzarmi in qualsiasi momento, se avessero voluto.
«Sette anni. Davvero troppi». Sono a malapena consapevole che mi ha lasciato e mi sta guardando con tutta l'aria di chi esamina le condizioni di un oggetto prezioso che aveva ceduto in prestito. Un sorriso beffardo gli deforma il volto sfigurato dalle cicatrici, il naso storto e schiacciato. «Sei cresciuto bene, un po' magrolino forse. Che c'è, Alizée non ti dà da mangiare?»
"Di certo più di te" vorrei rinfacciargli.
La risposta mi muore in gola appena i miei occhi incontrano i suoi. Il sinistro è bianco, probabilmente un altro dei regali di Maxwell Storm; l'altro è nerissimo, senza nessuna distinzione tra iride e pupilla, profondo e spento come uno strapiombo affacciato sul vuoto.
«Vieni, piccolo. Abbiamo tanto da dirci, ma prima voglio prendere una cioccolata calda. È un secolo che non ne bevo una».
Il mio corpo si muove da solo, come un automa che reagisce d'istinto ai suoi comandi, e seguo Vincent fino alla porta saloon del bistrot, tenendo lo sguardo fisso su di lui.
I radi capelli grigi si sollevano appena al vento, che gli sbatte contro il pesante giaccone chiuso a metà da una cerniera lampo, e nuove rughe si sono aggiunte a quelle vecchie sulle tempie. Ricordi sepolti riprendono vita, cominciando a graffiare il legno marcio della loro tomba con artigli acuminati, ma lotto per ricacciarli indietro.
Quando entriamo, un'ondata di calore mi fa formicolare le mani congelate. Dentro ci sono solo dei gruppetti di ragazzi dell'età di Kal oppure bambini accompagnati dai genitori a prendere una cioccolata calda. Alcuni tra i più grandi si voltano a guardarmi o mi indicano e sento una cameriera truccata vistosamente sussurrare qualcosa di cui colgo solo qualche stralcio: “Hallander... della morte... quella povera ragazza!”
«Mio fratello veniva spesso qui» commenta Vincent nostalgico, appoggiandosi al bancone pieno di dolci. «Io ci sono venuto con Peter un paio di volte».
Sbatto le palpebre, perplesso. La tristezza è uno di quei sentimenti che non gli avrei mai associato. Anche alla morte di mia madre Judith, quella che legalmente era mia zia, l'ho visto scioccato, confuso e ovviamente arrabbiato, ma se aveva sofferto l'aveva fatto senza versare una lacrima.
Eppure, adesso, sono certo di aver colto del dolore nella sua voce e questo basta a risvegliare l'eco della speranza a cui una minuscola parte di me si è sempre aggrappata. L'illusione che possa ancora cambiare, che non è troppo tardi, che persino nell'uomo cattivo ci deve essere del buono.
Non faccio in tempo a decidere se chiedergli chi sia Peter o meno che mi ritrovo davanti Jonas.
Mi guarda per un secondo con un volto inespressivo, l'unico movimento è il guizzare di un muscolo della mascella, prima di rivolgere la sua attenzione a Vincent. Riesco a cogliere una malcelata smorfia d'orrore alla vista dei segni che gli solcano le guance, dandogli l'aspetto di un veterano scampato alle schegge di una bomba a mano.
«Una cioccolata» ordina quest'ultimo con fare vagamente soddisfatto. «E per mio nipote...»
Scuoto la testa, facendo cenno che sono a posto. Jonas si acciglia nell'accorgersi di come mi ha definito, scocca un'altra occhiata a me, poi allo zaino e infine si allontana sibilando a denti stretti: «Arriva subito».
Vincent prende dalla tasca un portafoglio logoro. Al suo interno intravedo una carta d'identità stropicciata decisamente non sua, svariate tessere e la foto di una donna che regge una neonata con la sua identica chioma castana.
«L'hai rubato» bofonchio in un sussurro.
«Se è un problema, paga tu».
«Non ho soldi con me».
Lui ridacchia, gettando una manciata di monete tintinnanti sul bancone. «Alizée. La solita spilorcia». Con un gesto studiato mi sfiora il collo, paralizzandomi. «Devo fare una cosa. Aspetta».
Si incammina verso il lato opposto del locale, dove è affissa al muro la Bacheca di Cupido –una bacheca su cui sono ritratte immagini di coppiette felici che si sono conosciute qui. Solo allora mi rendo conto che sto trattenendo il fiato e prendo una grande boccata per calmarmi.
"Posso farcela".
«Che bella compagnia» dice Jonas, di ritorno con un bicchiere di cartone fumante. «Non credo che la tua famiglia sappia chi frequenti».
Quando incrocio i suoi occhi verde dorato, non ci trovo alcuna traccia di scherno, solo una distaccata curiosità. «E io non credo che a te interessi» ribatto sferzante.
«Per niente». Jonas scrolla le spalle robuste, ma c'è qualcosa di forzato nella sua indifferenza. «Sai, avevo detto al tuo fratello-bodyguard che forse ci prendevi gusto a farti pestare. Non pensavo di aver ragione».
Aggrotto la fronte. «Hai parlato con Liam?»
«Ecco fatto!»
Vincent prende la tazza di cioccolata, per poi ringraziare Jonas con un mezzo sorriso che lo fa rabbrividire visibilmente. Quindi si volta e si avvia verso l'uscita senza nemmeno girarsi a controllare che io lo segua.
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