60. LUX IN TENEBRIS ES

Se esistesse una classifica dei peggiori risvegli della storia, il mio di quella mattina andrebbe a braccetto con quello di Harry Potter che deve sopportare le grida stridule di sua zia che picchia alla porta del minuscolo ripostiglio pieno di ragni in cui dorme.

In questo caso, la fine del mio sonno straordinariamente sereno viene sancita da una cacofonia di voci urlanti e di passi frenetici in corridoio, a cui si aggiungono gli schianti di oggetti pesanti che vengono spostati e il frastuono assordante di un trapano che mi perfora i timpani.

Mi rovescio sulla schiena, stropicciandomi gli occhi appannati. La luce del giorno mi investe, ogni raggio pungente come un ago sulla pelle. «Lo sapevo» sospiro debolmente. «Ho visto troppi porno per poter andare in Paradiso».

«Signorina Storm!»

Con un sussulto ruoto di scatto la testa e mi ritrovo un paio di piedi, infilati in calzini spaiati, a pochi centimetri dal mento.

Kal è sdraiato sulla sponda opposta del letto, con la schiena appoggiata ai cuscini impilati contro la testiera e le braccia muscolose incrociate dietro la nuca. Indossa una semplice maglietta rosa fluo e pantaloncini verdi che gli lasciano scoperte le gambe lisce, distese lungo il mio fianco.

Quando faccio una smorfia di disappunto, il suo ghigno dispettoso si allarga. «Le devo comunicare che la Madre Padrona che governa questa dimora, diretta discendente di Adolf Hitler e allieva di Gengis Khan nell'arte delle torture, ha dato ordine di scendere immediatamente. Se non...»

«Leva le tue zampacce puzzolenti» bofonchio, dandogli una gomitata.

Kal piega le ginocchia, ridacchiando. Acciambellata sulla sua pancia, Sparrow si profonde in uno sbadiglio che le fa dilatare il nasino scuro. «Dicevo» riprende in tono solenne. «Se non saremo pronti per la partenza entro le otto in punto, incorreremo nella sua ira funesta e non ci sarà consentito godere delle comodità offerte dalla limousine, come la televisione o, peggio ancora, gli spuntini nel frigobar. Pertanto, sei pregata di muovere le chiappe».

Risponde alla mia occhiataccia con un sorriso beffardo. Dopo essermi stiracchiata, mi trascino fuori dal caldo abbraccio delle coperte e metto le ciabatte pelose riposte in un angolo. Appena il mio sguardo viene attirato sul blocco da disegno sul comodino, una morsa di delusione mi serra il cuore così forte da sbriciolarlo.

Un origami a forma di cigno, sull'album di famiglia regalatomi da Ian. È tutto ciò che mi ha lasciato. Uno stupido pezzo di carta che vorrei ridurre a brandelli per la rabbia.

Ha dormito con me e se n'è andato senza dirmi nulla. Sa che non ci vedremo per i prossimi tre o quattro giorni e non si è neanche preso il disturbo di salutarmi. Mi sarebbe bastato un «Ehilà, ci vediamo presto» oppure «Divertiti nel paesino sperduto in mezzo al nulla».

Non mi sembra di pretendere troppo.

Prendo il telefono, apro il suo contatto su WhatsApp e gli invio un rapido messaggio. “Per tua informazione, sei un idiota”. Poi noto il biglietto con un angolo incastrato sotto l'abat-jour; sopra, la sua calligrafia precisa e minuziosa.

Gli scrivo di nuovo: “Grazie per il numero, ma resti un idiota”.

«Tu hai dei trucchi?» Le parole di Kal vengono quasi sovrastate dal rumore atroce di una sega elettrica, che adesso ha preso a duettare con il trapano.

Mi tappo le orecchie, infastidita. «Mi spieghi che cavolo sta succedendo? Perché la villa è diventata la nuova fucina di Mordor?»

«Stanno allestendo la base per la guerra, soldato!» risponde, eseguendo un saluto militare. «Ah no, scusa. È un matrimonio».

«Già, anche peggio».

Borbottando tra me, afferro dalla valigia una felpa azzurra e dei comodi pantaloni a palazzo. Quando mi volto, incrocio lo sguardo di Kal e, dato che continua a non spostarsi di un centimetro, inarco un sopracciglio. «Non ho nessuna intenzione di mostrarti le mie grazie, verginello».

Quando si scosta le ciocche scure dalla fronte, ribelli e arruffate come sempre, noto che ha messo uno scintillante smalto nero alle unghie. Scrolla le spalle in segno di resa, deposita la micia grigia sul materasso e si alza, emettendo un gemito basso mentre si stira le ossa. «Sul serio, non hai nemmeno un ombretto?»

Faccio un gesto sbrigativo. «Tua sorella esiste per questo. Sciò».

«Ci ho provato, ma dice che dalla nonna non posso truccarmi e non vuole che le diano la colpa per avermeli prestati». Kal assume un'espressione implorante. «Ti prego, Keel! Aiutami!»

«Keel?»

Si getta in ginocchio, le mani intrecciate a mo' di preghiera. «Per favore, dai!»

«E va bene». Roteo gli occhi ambrati, gettando i vestiti sul letto con un gesto esasperato. «Facciamo una scommessa. Se tu...» Ci rifletto un secondo. «Ecco. Giuro che se in questi giorni riesci a far arrabbiare lo spilungone ti procuro tutti i trucchi che vuoi».

Kal increspa le sopracciglia. «No dai, è impossibile! Liam è l'incarnazione della calma zen! Facciamo con Ed?» propone fiducioso.

Nonostante tutti i dispetti e gli scherzi che gli fanno, non ho mai sentito Edric insultare davvero lui o Klaus, non in modo serio comunque. Quindi, mi sembra una sfida abbastanza accettabile. «D'accordo» annuisco. «Ma dovrai fargli dire almeno una vera parolaccia».

«Andata!»

«Bene. E ora smaterializzati fuori che non voglio traumatizzarti con cose mai vedute prima».

Kal si solleva, mi batte un pugnetto affettuoso sul petto e raggiunge la porta quasi a saltelli. Appena prima di richiuderla dietro di sé, però, fa capolino dalla fessura e sogghigna: «Scommetto che al biondino non l'avresti cacciato, eh?»

Purtroppo, non ho il tempo di cercare un oggetto contundente da lanciargli addosso che si è già dileguato.

Tiro un sospiro e vado a farmi una doccia bollente, nella speranza di lavare via anche il ricordo di questa notte, oltre al torpore del sonno. Invece, mentre mi cospargo il corpo di bagnoschiuma, il pensiero di Klaus mi invade la mente.

Immagino di sentire le sue mani su di me, le dita affusolate che mi accarezzano con delicatezza, i calli dei polpastrelli ruvidi sulla mia pelle, e i baci delle sue labbra morbide ancora più brucianti del getto dell'acqua. Appena un gemito sommesso mi sfugge dalla bocca, capisco che è meglio interrompere le mie fantasticherie.

Finito di asciugarmi i capelli, ritorno in camera e mi cambio. Osservo lo scrigno di mia madre per qualche secondo, sfiorando la chiave sbeccata che sporge dalla serratura. Come può essere così facile e, al tempo stesso, così difficile?

Rassegnata, seppellisco il bauletto in fondo alla valigia insieme all'album di famiglia che mi ha regalato Ian. Invio un messaggio con la targa al numero di Salim Okri, quello da cui mi ha chiamata l'altro giorno, senza specificare ovviamente che c'era mio padre alla guida. Al direttore, infatti, mi sono limitata a dire che avevo visto un pick-up seguirmi per tutta Clayton e che voglio scoprirne la ragione. Nient'altro.

Alla fine, con la valigia che mi picchietta contro il ginocchio e –non ho idea del perché io l'abbia preso– l'origami fatto da Klaus in tasca, esco in corridoio seguita da Sparrow. Subito un baccano insopportabile mi esplode nelle orecchie, tanto che la gattina rizza il pelo dalla paura e si affretta a rifugiarsi sotto il letto.

Rimango abbastanza disorientata nell'accorgermi di un gruppetto di tecnici intenti a discutere tra loro, indicando prese di corrente o armeggiando attorno a un monitor su una scrivania improvvisata.

«Ehi». Simon mi affianca, sorridente. Indossa una giacca verde salvia, aperta sopra un dolcevita di lana marrone, e un paio di jeans scuri risvoltati alle caviglie. «La valigia puoi lasciarla lì, se vuoi. Ce le caricheranno durante la colazione» spiega, accennando alla piccola montagna di borse che si sta formando sotto la finestra.

«Preferisco tenermela. Ma se avessi saputo che ci stavamo trasferendo, avrei preparato una playlist strappalacrime come colonna sonora» obietto perplessa. «Perché sono convinta che l'80% di quelle cose siano della rossa?»

Lui scoppia in una risatina. «Questo è niente, fidati. Una volta siamo partiti per una vacanza di un mese in Spagna e i suoi bagagli ci sono stati per miracolo nella stiva del jet».

«A proposito, cos'è questo casino? Pensavo dovessero installare un nuovo sistema di sicurezza, non trasformare questo posto in Alcatraz!»

«Sono i preparativi per il matrimonio». Simon scrolla le spalle. «Si festeggerà qui e ci saranno parecchie persone importanti, per così dire, quindi immagino che la mamma voglia renderla un po' più... insomma, accogliente».

Edric spunta dalla propria stanza, trasportando un grosso trolley che abbandona con pigrizia in un angolo. Il ciondolo del tridente di platino gli pende dal collo, seminascosto tra le pieghe della camicia bianca che gli mette in risalto i capelli color carbone.

«Buongiorno anche a te» lo saluta Simon scherzoso.

In quel momento compare Eileen, con addosso un golfino di cashmere beige su una lunga gonna plissettata e degli stivaletti bassi. Forse per lo sguardo torvo impresso sul viso, o magari per la cascata di boccoli ramati raccolta in uno chignon disordinato, ma ho l'impressione che oggi somigli a sua madre ancora più del solito.

Si avvicina e stringe il gemello in un abbraccio. «Uccidetemi, per favore. Oppure uccidete quell'arpia che ci ha generati».

All'improvviso, un grosso zaino a forma di Olaf (il pupazzo di neve di Frozen) viene lanciato in aria e atterra con un tonfo in mezzo agli altri bagagli. «Centro!» esulta Kal, mettendosi dei braccialetti fosforescenti intorno al polso. «Per la campagna non sono meglio i pantaloni, sorella?»

«Primo. Se mi hai rotto qualcosa nelle borse, ti uccido». Eileen lo fulmina con i suoi smeraldi. «Secondo. La mamma mi ha già tolto un fratello, non mi porterà via anche le gonne».

«Non troppo corte, mi raccomando. Lo sai che è "sconveniente per una signorina"» ridacchia lui, fingendo un discreto accento francese.

«E per un ragazzo è sconveniente lo smalto, eppure...» commenta Edric sarcastico.

«Lo so. Infatti, sono già pronto a essere inseguito di nuovo con una mazza da baseball».

Aggrotto la fronte. «A nessuno di voi piace granché andare dalla nonnina, o sbaglio?»

«Ci piace» precisa Simon con cautela. «Ma è davvero all'antica, per alcune cose. Peggio della mamma».

«Un eufemismo». Eileen fa uno sbuffo sarcastico, liberandolo dalla sua presa. «Vive in un paesino sperduto dimenticato da Dio, non ha una connessione Internet e la sua idea d'intrattenimento è farci raccogliere le olive o dar da mangiare ai suoi cavalli». Si stringe lo stomaco con entrambe le mani, facendo un verso di lamento. «Come se non bastasse, ho anche un ciclo terribile».

Simon si raddrizza gli occhiali, a disagio. «Beh, ehm, i cavalli sono carini».

«Puzzano».

«Io adoro i cavallini!» strilla una vocetta acuta, accompagnata da una sagoma minuta che sbuca da dietro l'angolo.

Tobias ci viene incontro di corsa, tenendo le manine sollevate per impedire al cappello da cowboy che porta sul capo di volare via, anche se è talmente largo che è più probabile lo faccia per evitare che gli scivoli sulla faccia.

Abbozzo un sorriso ironico. «Cosa sei, Indiana Jones?»

«Sì, era il mio costume per la festa a tema del mio compleanno. Avevo anche la frusta, ma me l'hanno ritirata perché... ehm, ho colpito per sbaglio papà» ammette il bambino con una punta d'imbarazzo.

«Sai che non potrai coprirti per sempre i capelli, vero?» fa notare Edric.

«Ovvio. Solo finché non ricrescono». Tobias si sistema la piccola sacca a tracolla, adottando un'aria fiera. «Comunque, Liam mi ha detto di dirvi che dovete sbrigarvi! Partiamo tra un quarto d'ora».

«E Liam dov'è, esattamente?» replica Eileen. «A progettare oscuri piani segreti?»

Il bambino aggrotta la fronte, senza capire. «In realtà, stava parlando con la cameriera che lo guarda sempre».

«Non è giusto che sia l'unico a divertirsi in questa casa». Kal emette un respiro rassegnato, avviandosi per primo lungo il corridoio. «Bando alle ciance. Io ho fame e abbiamo dei diritti sul frigobar da proteggere».

Mentre ci incamminiamo anche noi, mi volto a fissare la porta vicino alla mia camera.

Per un attimo, provo ancora la stessa sensazione di quando ho posato la testa sul suo petto, avvolta dal calore delle sue braccia, con la musica del suo cuore che si intonava al mio. Ricordo che mi è sembrato tutto così incredibilmente... naturale.

I nostri corpi combaciavano alla perfezione, come se fossero stati creati apposta per completarsi a vicenda, e per una volta nessuno dei due aveva avuto paura. Di quella vicinanza, di quel contatto, di quel legame. Sarebbe stato assurdo quanto aver paura di respirare.

Durante il tragitto incrociamo diversi operai al lavoro; alcuni di passaggio con qualche scatolone in spalla, altri occupati a trapanare il muro, a montare nuove telecamere o trasportare mobili. Gran parte delle cameriere, invece, sono impegnate a montare delle sofisticate decorazioni natalizie, arricchendo l'ambiente gotico della villa con palloncini colorati, complessi disegni formati da lucine alle pareti, coni luminosi adornati di diamanti ai lati del pavimento, collane inghirlandate intorno alle colonne o alla ringhiera delle scale e un fascio di luci al led –simili ai rami di un salice– che sporgono dalle finestre.

Persino il divano in soggiorno adesso sfoggia una fodera cremisi con motivi di renne, pupazzi di neve e campane, e i cuscini di pizzo sono stati sostituiti con altri su cui è ricamato Babbo Natale sulla slitta o la scritta "Merry Christmas" piena di fronzoli. Manca solo una musichetta allegra a coronare l'atmosfera. Beh, quella e...

«Non c'è l'albero» esclamo, osservando le calze appese con cura al camino scoppiettante.

Essendo scolpito nella forma di un leone, è quasi comico il modo in cui oscillano all'estremità delle zanne di pietra: se ce n'è una per ogni membro della famiglia, perché in tutto sono dodici?

«Quello lo facciamo noi» risponde Simon. «Alla mamma non piace molto, ma papà è un cultore del Natale. Ogni anno compra nuovi gadget di tutti i tipi per l'albero e ci aiuta ad addobbarlo».

«Rigorosamente l'otto dicembre». Nonostante la voce di Edric sia impassibile, il lampo che gli balena sul volto tradisce il suo entusiasmo. È ovvio che adora questa festa. «Anche le decorazioni sono merito di papà, ovviamente. Ma la parte migliore è il giardino».

«E non dimenticare la...» Kal si interrompe appena varchiamo la soglia della sala delle colazioni, pervasa dal profumo di brioche calde, e grida emozionato: «ZIO!»

L'uomo seduto al tavolo rotondo rimane immobile, il viso nascosto tra le dita sottili con fare esausto.

Porta solo dei pantaloni di stoffa sgualciti che lo fasciano fino ai fianchi stretti, il che permette alle cameriere presenti –che teoricamente starebbero agganciando delle stelle luminose al soffitto– di ammirare il suo fisico scolpito e affusolato. La tenue luce del mattino che penetra dalla vetrata gli getta riflessi biondi tra gli arruffati capelli castani che, uniti alla sua carnagione bronzea, lo fanno somigliare a una statua d'oro.

Insomma, il tipico fascino degli Hallander.

Ad attirare la mia attenzione, però, è un serpente d'inchiostro che gli si arrampica a spirale sul braccio sinistro, culminante in una lingua biforcuta che si dispiega sul pollice. Anche sulla scapola, in cima alla schiena ampia e muscolosa, spicca un tatuaggio: tre segni di artigli così realistici da sembrare cicatrici nere ancora sanguinanti.

«Ehi, quando sei tornato?» gli chiede Eileen, prendendo uno dei cornetti dal vassoio.

Di nuovo, nessuna risposta.

Mi acciglio. «Sicuri che sia vivo?»

«Magari dorme». Simon si abbandona sulla sedia accanto alla gemella. «Soffre di insonnia, ma quando si addormenta non lo sveglia neanche un carro armato».

Kal si china sullo zio e gli sferra una pacca sulla spalla così forte da strappargli un sussulto. «BUONGIORNO!» strilla a squarciagola, per poi mettersi a sghignazzare.

Mi giro verso Simon. «Che dicevi, carotino?»

Edric si appoggia al bancone, riempiendo un bicchiere di latte. «Beh, lui è peggio di un carro armato».

«E che cazzo!» farfuglia Matt, buttandosi contro lo schienale.

Quando abbassa le mani dal viso, rimango letteralmente folgorata.

La foto che avevo visto in salotto non rende affatto giustizia all'incredibile tonalità blu oceano del suo sguardo, irradiato da zaffiri lucenti. Sono sicura di non aver mai visto un colore tanto profondo, sospeso tra il cielo e l'abisso, eppure c'è qualcosa di vagamente familiare in quegli occhi.

«Non si dicono queste cose, zio!» lo riprende Tobias. Un attimo dopo, gli è già salito sulle ginocchia e gli sta schioccando un bacino sulla guancia. «Ti abbraccerei, ma poi mi cade il cappello e non posso toglierlo. Scusa».

«Va bene, maghetto. Non ho capito perché, ma d'accordo». Matt gli dà un buffetto affettuoso, poi passa in rapida rassegna il resto dei suoi nipoti con l'aria di chi sta cercando qualcuno. Alla fine la sua delusione è quasi palpabile, sebbene sia sepolta sotto un sorrisetto che gli scava una fossetta sul mento.
Ci mette qualche secondo, prima di soffermarsi anche su di me. «Ah... il salmone».

Mi accascio su uno sgabello, depositando la valigia a terra. «Io mi sono sempre considerata un pesce gatto, in verità».

Lui scoppia a ridere. «Sei decisamente la figlia di Maxwell» dice, accennando alla mia felpa al contrario.

Sentirgli pronunciare il nome di mio padre mi paralizza dallo stupore.

Non mi sorprende che lo conosca, questo no; ormai ho accettato che le vite dei miei genitori erano intrecciate alla famiglia Hallander. Ma nessuno fino ad ora ne aveva mai parlato con tanta leggerezza, anche perché tutti sanno che è un argomento a prova di campo minato con me.

«Prima che tu lo dica». Strappo un morso da un croissant alla crema. «Lo so, somiglio a mia madre».

«Non l'avrei mai fatto. Mi dicevano lo stesso da giovane, riferito a mio padre, e lo trovavo piuttosto fastidioso». Si solleva, reggendo Tobias con un braccio, e mi porge la mano. «Matthew Hallander».

«Sì, ho sentito parlare di te». Quando gliela stringo, mi accorgo prima dei puntini scuri che gli costellano il braccio, probabilmente vecchi lividi lasciati dagli aghi a causa del suo passato di dipendenza. E poi della piccola scritta in corsivo tatuata in corrispondenza del cuore: "lux in tenebris es".

«Ah, peccato. Speravo di poter fare una buona prima impressione».

«Quando sei arrivato, zio?» domanda Kal.

«Un'ora fa, credo. Non ne sono sicuro. Sono reduce da un festino in aereo e sono molto confuso su qualsiasi cosa sia venuta dopo la tequila». Matt fa scendere il bambino e comincia a rovistare tra i cassetti. «Dove tenete la roba buona?»

Eileen spalanca la bocca, incredula. «Vuoi bere alle otto di mattina?»

«A me sembri già mezzo ubriaco» commenta Edric.

«Appunto, piccolo nerd» replica lui, da dietro uno sportello. «Impara che il modo migliore per farsi passare una sbronza è bere un altro goccio».

Edric scuote la testa. «Grazie per il pessimo consiglio».

«La mamma tiene l'alcol in cantina. È l'unica ad avere la chiave» obietta Simon.

«Non l'ho ancora incontrata e già inizia a rovinare la mia esistenza». Ancora in piedi, Matt afferra una brioche dal centro del tavolo e ne divora metà. «Ho visto Liam in giro, ma sono sicuro che mi manchi un nipote all'appello. Dov'è il nostro Mozart?»

Eileen gonfia il petto, pronta a esplodere, ma non ha il tempo di proferire parola che Ian fa il suo ingresso. Indossa una camicia azzurra che esalta i suoi occhi di ghiaccio, puntati su Matt, e un largo sorriso gli increspa le labbra.

«Fratellino. Sei arrivato, finalmente». Lo attira a sé, stringendolo in un caloroso abbraccio che viene ricambiato con una certa riluttanza. «Adesso la famiglia è davvero al completo».

«Già, proprio di questo stavo parlando». C'è una nota d'accusa nel tono di Matt.

«Klaus starà da un suo amico per qualche giorno. Ha litigato con Alizée, niente di che». Ignorando l'espressione della figlia, furente per il modo in cui ha minimizzato ciò che è successo, si affretta a cambiare argomento. «Se avessi saputo del tuo arrivo, avrei mandato la limousine a prenderti in aeroporto».

«L'avevo detto a Klaus. Ho dato per scontato che te l'avesse riferito, visto che sei il suo patrigno».

«Sì, certo» taglia corto Ian. «Hai avuto un ottimo tempismo, comunque. Così puoi venire con noi».

«Perché, state partendo?»

Simon corruga la fronte. «Non hai notato che Keeley ha la valigia?»

«Se vuole già scappare di casa, mi congratulo per quanto ha resistito» replica lui, facendomi l'occhiolino. «Dove dobbiamo andare, quindi?»

«Da mia suocera».

Una maschera d'orrore si dipinge sul viso di Matt, che si lascia crollare all'indietro sulla sedia. «Oh no! No, e ancora no! Posso sopportare una Alizée per volta e mi avanza come il cenone di Capodanno».

Ian gli puntella un gomito sulla spalla, fissandolo con serietà. «Voglio che ti comporti bene, Matty. Siamo in una situazione delicata e questo è sempre un brutto periodo per lei...»

«Che strano. Di solito, la tua mogliettina sprizza allegria e vomita arcobaleni» ribatte Matt ironico. «E comunque sei tu l'angioletto, ricordi? Io ho ruolo del fratello cattivo da interpretare».

«Si raccoglie quel che si semina» sentenzia una voce gelida, facendomi girare di scatto.

Alizée è ferma sulla porta, infilata in un elegante abito di velluto argentato incorniciato da guanti abbinati, stivali con il tacco basso e uno scialle maculato bianco e nero. La chioma di ricci è imprigionata in un'acconciatura impeccabile e, aggiungendo un profondo scollo a V e una sobria spolverata di trucco, per l'ennesima volta devo riconoscerle che è davvero bella.

Proprio come lo è Eileen, e come lo era mia madre. O anche Elizabeth.

Per un secondo, Matt rimane in silenzio a guardarla, ogni traccia di ilarità svanita dal suo viso. Il suo sguardo si sofferma sull'aquila d'argento che le sprofonda tra i seni, prima di salire a incrociare quello –più freddo che mai– della donna. Blu zaffiro conficcato nel verde smeraldo.

Alla fine, recupera tutta la sua spavalderia e sfodera un sorriso impertinente. «Salve, milady».

Alizée arriccia il labbro. «Avresti potuto scomodarti ad avvisare, invece di piombare qui come se fosse casa tua».

«Perdonatemi. Devo aver dimenticato le regole di Sua Maestà».

«E anche la buona educazione, a quanto pare». Indica con il mento il torace nudo dell'uomo. «Mettiti qualcosa addosso. Sei indecente».

«Indecente?» la incalza lui con un sorriso sornione. «Nessuna donna ha mai definito una simile meraviglia indecente».

«Magari questa prima volta farà calare il tuo ego di qualche tacca». La voce di Crudelia è un sibilo rabbioso.

«Disse la quintessenza della megalomania».

Ian gli scocca un'occhiataccia. «Matthew!»

«Sì, fratello. Devo fare il bravo, ho capito. Meglio non far cadere questo castello di sabbia che avete costruito». Matt si alza. «Meglio che vada a cambiarmi, allora. Lungi da me voler turbare la nostra Signora».

Con studiata lentezza si avvicina ad Alizée, esibendosi in un inchino volutamente teatrale che gli fa guizzare i muscoli lungo il corpo snello. Lei si irrigidisce in maniera impercettibile e, quando nel passarle accanto Matt le sbatte piano contro la spalla, si sfiora il ciondolo appoggiato sul petto.

«Proprio un idiota dovevi avere per fratello» sussurra sprezzante a Ian.

Ma quest'ultimo sta ancora guardando il punto vuoto in cui prima c'era suo fratello, quasi imbambolato. Ha la mascella contratta e l'aspetto di chi muore dalla voglia di prendere a pugni qualcuno.

Per qualche ragione, mi ritrovo a pensare alla frase scritta sulla pelle di Matt. Non sono mai stata brava in latino, ma sono piuttosto certa che la mia traduzione sia corretta, pur non capendo a chi possa essere dedicata.

Alla sua futura sposa, forse. Ma se così fosse dovrebbe essere un tatuaggio recente, dato che non torna a Sunset Hills da due anni e le reazioni di tutti all'annuncio del fidanzamento lasciavano dedurre che non sapessero della sua relazione. Possibile che nessuno di loro abbia detto nulla?

Lux in tenebris es.

Sei la luce nelle tenebre.

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