59. SOLO PER STANOTTE
Mi sveglio un attimo prima dello sparo, con un terrore gelido che mi si annida nel petto. Le parole dell'uomo mi rimbombano ancora nelle orecchie, la sua voce orribilmente uguale a quella di Alaric mentre le pronuncia: «Ho l'ordine di non fare del male alla ragazza... ma questo non vale anche per te».
Forse per l'incubo ancora vivido nella mia mente, non mi accorgo subito di non essere sola. Eppure, quando sento un fruscio di pagine che spezza il silenzio, non mi spavento. Anzi, il suono di un respiro costante e leggero –familiare come se fosse il mio– mi infonde un profondo senso di tranquillità.
Sperando di farlo sembrare un movimento involontario, mi giro di lato in direzione della finestra e sbircio tra le ciglia. La camera è immersa nell'oscurità, tranne che per gli esili spicchi di luce argentea che filtrano dalle fessure della serranda. Abbastanza per illuminare la figura affusolata rannicchiata sul tappeto, con la schiena appoggiata al palo di legno del baldacchino.
Indossa solo una felpa scura, talmente larga che le mani gli spuntano appena dalle maniche troppo lunghe, ma poco lontano c'è un giubbotto fradicio abbandonato sullo schienale della sedia. Sulle gambe regge il mio blocco da disegno che sta sfogliando lentamente, fermandosi a fissare persino le bozze quasi fossero delle meravigliose opere d'arte.
Per me, invece, il capolavoro da ammirare è lui.
La sua pelle bianca sembra scintillare nel buio come marmo levigato, cosparsa di tante goccioline d'acqua simili a diamanti. I capelli risplendono di riflessi mielati, ancora lucidi e umidi per la pioggia, con una ciocca ribelle che muoio dalla voglia di scansargli dalla fronte. Le ombre danzano sul suo viso, facendo spiccare la cicatrice affilata. E quello sguardo tormentato di chi ha dimenticato cosa sia la pace.
In questo momento, mi ricorda uno di quei personaggi della letteratura romantica di cui mi raccontava mio padre. Eroi solitari che combattono contro un destino crudele al quale non vogliono rassegnarsi, pur sapendo che sarà sempre troppo forte per essere sconfitto. Si piegano, ma non si spezzano e, alla fine, si risollevano solo per essere colpiti di nuovo, allo stesso modo della ginestra scritta da Leopardi. Coraggioso ma fragile, disilluso ma ostinato, docile ma resistente, ugualmente vinto e vincitore del fato.
Il mio angelo nero, magnifico nella sua eterna caduta.
All'improvviso, Klaus si alza e ripone il blocco da disegno sul comodino, vicino allo scrigno chiuso che non sono ancora riuscita ad aprire. Si muove senza produrre il minimo rumore, con la solita grazia felina di un leone, e ogni suo gesto possiede una movenza fluida e armoniosa che coinvolge tutto il corpo slanciato.
Lo spio di sottecchi mentre si inginocchia mollemente per terra, accanto al fondo del letto, puntellando i gomiti sul bordo. Osserva i cuscini su cui tengo i piedi, le orecchiette da coniglio del pigiama alla rovescia e infine me; le sue labbra si increspano in un sorriso malinconico che lo rende ancora più irresistibile.
«Sei strana anche quando dormi» mormora affettuoso, e un brivido mi scende lungo la schiena nel sentire il suo accento inglese.
Prima di conoscerlo, non avrei mai creduto che si potesse desiderare qualcuno con quello stesso impeto disperato con cui un moribondo stringerebbe i suoi ultimi soffi di vita. Uno, ancora un altro, un altro e poi basta... ma, in realtà, non sarà mai sufficiente.
Non esiste resa possibile, se ciò che perderesti è anche tutto ciò che vuoi.
«Ti ho sentita, quella volta a Clayton. Eravamo in macchina e tu credevi stessi dormendo, allora hai cominciato a parlarmi. Di tuo padre, di tua zia, della paura di perdermi com'è successo con loro. Ho sentito tutto, anche quando hai detto di amarmi».
Klaus piega la testa di lato, facendo scivolare la ciocca bagnata sulla tempia. Non ho mai creduto alla storia delle farfalle nello stomaco, ma adesso ho la sensazione di avere un maledetto sciame. «All'inizio, pensavo di averlo soltanto sognato, ma dopo ho capito che era impossibile. Perché sarebbe stato un sogno bellissimo e io non ne faccio mai».
Nell'istante in cui solleva il braccio, serro le palpebre per non fargli scoprire che sono sveglia. Tuttavia, vengo tradita dal mio cuore che esplode al tocco dolce del suo indice –lungo e sottile, da pianista– sulla mia guancia. Una carezza lieve come un alito di vento sul viso, così calda da scottare.
«Ciò che non sai, però, è quanto avrei voluto stringerti in quel momento. Volevo baciarti e giurarti che sarei rimasto con te fino a che mi avessi voluto, ma sarebbe stata l'ennesima promessa infranta della tua vita. Perché non posso darti nulla di ciò che vorresti, Keeley. Forse non potrò mai».
Il materasso si piega un poco, segno che si è sporto in avanti, e vengo inondata dal suo odore. Profuma di pulito, di buono, di pioggia. Di dolore, di protezione, di amore. Profuma di casa.
«Se le cose fossero state diverse, se io fossi stato diverso, chissà. Magari saremmo stati felici, io e te» sussurra, posando le sue labbra sulla mia fronte.
È un bacio tenero, delicato, triste, uno di quelli in cui si cerca di imprimere tutte quelle parole che non saranno mai pronunciate.
Come un addio che mi brucia sulla pelle.
«No!» Con uno scatto, gli afferro il polso proprio mentre sta per alzarsi.
Klaus aggrotta la fronte, disorientato e sorpreso, ma non fa nessun tentativo di liberarsi. «Scusa, non volevo svegliarti». Piuttosto che dispiaciuto, però, dalla sua espressione parrebbe quasi sollevato.
«No, non sei stato tu» farfuglio con la voce impastata.
Mi costringo a mollare la presa, attraversata da un senso di disagio per aver ceduto al desiderio di parlargli, di toccarlo, anziché continuare a fingere di dormire. Ma c'era una parte di me, irrazionale e stupida, che era convinta che se l'avessi lasciato avrei potuto non rivederlo mai più.
«Ho fatto un incubo in cui Crudelia indossava un grembiule a fiori e mi cucinava una torta al cioccolato».
«Sembra terrificante» ridacchia inorridito.
«Mai quanto sentirla cantare “We wish you a merry Christmas”». Faccio una smorfia. «A proposito, lei sa che sei qui?»
«No, ogni tanto anche Alizée deve dormire».
«Non saprei. La teoria del vampiro non è ancora stata smentita» ribatto convinta.
Con un sorrisetto, lui torna ad accoccolarsi sul tappeto, premendo la spalla al palo del baldacchino. Non dice niente, eppure il silenzio che cala tra di noi non è imbarazzante o teso. Solo piacevole.
«Dove sei stato, oggi?» gli domando incuriosita, mettendomi a sedere. «E non rifilarmi scuse tipo un rapimento alieno, perché non è credibile».
«Dici che, se rapissero un ragazzo affascinante come me, non sarebbero così stupidi da restituirmi?» ammicca.
«No, dico che non sarebbero così stupidi neanche da prenderti. Ti sopportiamo a stento noi terrestri».
I suoi occhi grigi mi fissano intensamente, così scuri da sembrare neri. «Dovevo schiarirmi le idee. Non volevo far preoccupare i miei fratelli, ma avevo bisogno di stare da solo».
"Davvero pensa che io non fossi preoccupata?"
Anche se cerco di nasconderlo, l'indignazione mi fa ribollire il sangue e la domanda mi esce fin troppo aspra. «Che ci fai qui, comunque? Oltre a disturbare il mio stadio REM» borbotto, incrociando le gambe.
«Si chiama fase REM».
«Le uniche fasi che conosco sono quelle della Marvel, spiacente».
Klaus emette un respiro pesante, passandosi una mano sulla faccia. Quando la abbassa, noto un particolare che prima mi ero sfuggito: sembra terribilmente stanco. «Ascolta. So che partirete di mattina presto e volevo... È difficile da spiegare. Volevo salutarti, ecco».
China il capo. Se potessi leggergli nella mente, sono sicura che lo sentirei insultarsi per il modo in cui incespica nelle parole. «Quando ho visto che dormivi, non ci sono riuscito. Non volevo svegliarti, ma ti agitavi nel sonno e non potevo andarmene. È stato più forte di me. E poi sai, ho avuto una giornata terribile e stare con te... non so, mi rilassa. Immagino che lo troverai inquietante, e va bene se non vuoi, ma...»
Lo sguardo vulnerabile che posa su di me, da cucciolo bastonato, è una vera e propria pugnalata. «Mi chiedevo se potevo restare. Per un po'. Non molto, tranquilla. Ti assicuro che non ti accorgerai neanche di me. Non farò nulla che possa turbarti o...» Si ammutolisce.
La richiesta mi coglie così alla sprovvista che mi blocco, imbambolata con la bocca semiaperta. Impiego qualche secondo per riprendermi dal mio "bug emotivo" quanto basta per replicare esterrefatta: «Scusami, tu vorresti dormire sul mio tappeto?»
Klaus si stringe nelle spalle. «Beh, sul terrazzo fa freddo».
«Non dormirai sul mio tappeto, biondino!»
«Sulla sedia?»
«Scordatelo!»
Un lampo ferito gli balena sul volto. «Vuoi che me ne vada?»
«No!»
«Non ti seguo» commenta confuso.
«Quanto sei idiota!»
Mi sposto al centro del letto, concedendogli lo spazio sufficiente per potersi sdraiare senza starmi troppo vicino. «Vieni qui, forza, Nero Pellegrino».
«Sono bagnato» obietta subito Klaus.
«Non dovrebbe essere il contrario?»
Per tutta risposta, assume un cipiglio guardingo. «Non dovremmo. E lo sai».
«Perché no?» Arcuo un sopracciglio, sfrontata. «Anche gli amici fanno i pigiama party».
Esita per un tempo talmente lungo che ormai ho quasi perso le speranze. Ma poi si toglie la felpa, scoprendo una t-shirt bianca che gli fascia il fisico snello e longilineo, la getta sulla scrivania e si infila sotto le coperte, sdraiato sulla schiena.
«Klaus».
«Mmh?»
«Ti ricordi il pick-up che ci seguiva a Clayton?» Interpretando il suo mugolio per un assenso, proseguo: «Mi avevi detto di aver preso la targa. Ti ricordi anche quella?» Un altro mugugno. «Me la puoi scrivere da qualche parte?»
Sospirando, intreccia le mani dietro la nuca e si perde a osservare il soffitto con aria sfinita. «Perché ti serve?»
«E tu perché volevi dormire sul mio tappeto?»
Dopo una breve pausa di riflessione, Klaus fa uno sbuffo rassegnato. «Okay, ficcanaso, lo farò. Ora però buonanotte».
«Buonanotte, tesoro».
Rotolo dall'altra parte e mi copro fino al naso con le lenzuola. Per qualche ragione, sto tremendamente scomoda, quindi provo a rovesciarmi sulla pancia. Niente. Mi rimetto sul fianco in posizione fetale. Insomma.
«Che hai?» bofonchia assonnato.
«Niente, cerco la posizione giusta».
Continuo ad agitarmi ancora per almeno cinque minuti, ma alla fine mi ritrovo girata verso Klaus a contemplarlo con la stessa adorazione che si riserverebbe a un dio greco –non che ci vada molto lontano, comunque.
Ne colgo ogni singolo dettaglio: il profilo morbido della mascella, la punta arrotondata del naso, i muscoli delle braccia, le goccioline sulla gola pallida, l'addome duro e piatto, il lembo di pelle visibile tra l'orlo della maglietta e i pantaloni...
Gli striscio accanto e gli scosto la ciocca dalla tempia. Con gli occhi chiusi e le lunghe ciglia dorate che gli ombreggiano le guance, finalmente rilassato e indifeso, è semplicemente perfetto. Devo compiere un grande sforzo per resistere alla tentazione di prendere una matita e cercare di catturare quella sua bellezza spontanea in un disegno.
«Dormi?» bisbiglio.
Per qualche secondo, l'unico rumore è il suo respiro, sempre più lento. Poi le sue labbra si schiudono e ne esce un verso che dovrebbe significare "No".
Gli affondo le dita nei capelli setosi e umidi che diffondono ancora l'aroma di shampoo al geranio. Con mia sorpresa non si irrigidisce come al solito, forse perché è troppo esausto per opporre resistenza. «Odori di manzo. E di cinese».
Nonostante sia stremato, un piccolo ghigno gli si dipinge sul viso. «Ric è giapponese».
«Ah. Odori di manzo giapponese, allora». Non ottenendo nessuna reazione da parte sua, lo richiamo: «Biondino. Devo dirti una cosa importante». Nada. «Sul serio, è importante!»
Due frammenti argentei iniziano a brillare tra le sue palpebre socchiuse e capisco che è in ascolto. Quando le mie iridi incrociano quelle meravigliose schegge di nebbia, il mio cuore compie un balzo e pensieri brucianti mi infiammano le vene.
Di colpo, divento terribilmente consapevole di quanta poca distanza ci sia tra noi, stesi sul letto, le nostre bocche a portata l'una dell'altra. Un calore elettrico mi si propaga nel ventre e, a giudicare dai suoi piani bassi in fermento, nemmeno lui è indifferente.
«Allora? Cosa devi dirmi?» mi sollecita in tono fremente.
«Hai... dimenticato lo spazzolino» ansimo.
Klaus mi guarda perplesso, infine scoppia a ridere. Percepisco ancora le vibrazioni di quella risata, quando mi accoccolo al suo fianco con la testa posata sul suo petto. Sta tremando, ma di nuovo si abbandona a me, docile e fiducioso.
No, il suo corpo decisamente non è indifferente.
«Solo per stanotte» sibilo con uno sbadiglio, cullata dai suoi battiti cardiaci che fanno eco ai miei.
Inaspettatamente le sue braccia mi circondano in una stretta rassicurante, addirittura protettiva, modellandomi contro il suo torace per farmi stare più comoda. Avverto la pressione di un bacio tra i miei capelli e la sua voce che ripete catartica: «Solo per stanotte».
P.O.V. KLAUS
Nonostante i timidi raggi di sole che strisciano tra le tende damascate, la notte è ancora padrona della camera. Il buio assoluto è stato sostituito da sfumature d'avorio e ombre nere proiettate sulle pareti. Anche se non posso vedere il cielo, la pioggia ha smesso di picchiettare contro le imposte, quindi deduco che il temporale deve essere passato.
Rannicchiata accanto a me, Keeley si muove con un borbottio. Non un lamento, piuttosto sembra che stia insultando qualcuno in quel suo modo a metà tra sarcasmo e serietà. Ha ancora la testa premuta sul mio petto, le gambe lunghe e nodose che imprigionano le mie. Il suo braccio sinistro mi stringe all'altezza della vita, come se avesse avvertito che sto per andarmene.
Con delicatezza, le accarezzo la chioma di capelli sparpagliata sul letto. Sono morbidi e lisci, di un blu scuro che sbiadisce verso la radice nel naturale biondo platino. Quando la guardo, il cuore mi si stringe al pensiero di quanto le somiglia, soprattutto ora che ha il viso addolcito dal sonno e i lineamenti ammorbiditi da cui è scomparso qualsiasi accenno d'ironia. È così tenera che vorrei soltanto abbracciarla in eterno, cullandola fino a che non la sentirò svegliarsi nella mia stretta.
Mi perdo a immaginare come sarebbe: le palpebre che si dischiudono e svelano i suoi occhi dorati, magari coperti da una velatura di bronzo dovuta al torpore. Uno sbadiglio e la sua voce assonnata che borbotta un "Buongiorno", accompagnato da qualche nomignolo buffo.
Sarebbe bellissimo poterle preparare la colazione e rimanere a contemplarla mentre divora un'abbondante quantità di cornetti, muffin, biscotti e leccornie varie, sentendomi il ragazzo più felice del mondo.
E potrei farlo, se la mia mente non continuasse a tornare su Elizabeth.
Sua sorella.
La sua gemella.
Colei che mi ha insegnato l'amore.
Non l'amore malato che mi descriveva Vincent, fatto di obbedienza e di regole, una dipendenza tossica che trovava la sua forza nel dolore. No, lei mi ha mostrato che ne può esistere un altro: quello vero, puro, totale.
Quell'amore in grado di farti toccare le stelle per la gioia o di trascinarti negli abissi per la disperazione. Quell'amore così potente da poterti nutrire di baci e carezze senza esserne mai sazio o da strapparti un sorriso da ebete anche per le cose più banali. Un amore senza condizioni, senza violenza, senza paura.
Solo il legame reciproco tra due anime che non vogliono lasciarsi.
«Riuscirò a darti le risposte di cui hai bisogno, ficcanaso» mormoro a fil di voce.
Faccio scivolare le dita sulla sua schiena attraverso il tessuto del pigiama, seguendone il profilo della colonna vertebrale da sotto la nuca fino a metà. «E ti terrò al sicuro. Da lui e da me. Nessuno dei due ti farà del male». Keeley si inarca leggermente e la sento emettere un brusco respiro, prima di affondare il volto nella mia t-shirt. «Te lo prometto».
Appena le sfioro il dorso della mano che ancora mi tiene il fianco, mi accorgo che è un po' infreddolita. A malincuore sciolgo dolcemente la sua presa –incontrando una certa resistenza, tanto che quasi mi conficca le unghie nella pelle– e, districate a fatica le nostre gambe, le appoggio piano il capo sul materasso.
Mi siedo sul bordo del letto e resto a osservarla per un infinito minuto mentre si raggomitola su sé stessa, cercando qualcosa che non c'è a cui aggrapparsi. Mi piego in avanti e le tiro su fino alle spalle il piumone imbottito per scaldarla, ma non riesco a trattenermi dal prenderle il ciuffo che le ricade sul naso e portarglielo dietro l'orecchio.
Attento a non esercitare la minima pressione, le poso la fronte nell'incavo del collo per inalare il suo profumo e tutto il mio corpo si tende in risposta a quell'odore buonissimo, segno inconfondibile della persona al quale sa di appartenere. Questo non cambierà mai, non importa la distanza che metterò tra noi o se deciderà di donare il suo cuore a Simon, o a chiunque altro.
Sono suo.
Sollevo la testa, fissandola. Tento di imprimermi dentro ogni dettaglio, solamente per scoprire che già conosco tutto alla perfezione. Le sopracciglia sottili, la fronte tonda, il naso dritto adorabilmente arricciato sulla punta e gli occhi all'insù come quelli di un gatto che le danno un contrasto d'innocenza e malizia.
«Mi sono donato a te, come avevo fatto con Elizabeth. O forse mi avete catturato da sole» sibilo, abbozzando un sorriso. «In ogni caso, ormai possiedi un pezzo di me e non potrei riprenderlo neanche volendo. E non lo vorrei comunque, perché l'unica cosa più terribile di non sentirmi completo sarebbe esserlo senza di... di voi».
Con un sospiro, le sfrego il pollice sulla guancia morbida come seta, poi mi alzo e faccio scivolare i piedi nelle scarpe incrostate di fango secco. Mi rimetto la felpa di Alaric fin troppo grande, rimboccandone le maniche. Afferrata una penna dalla scrivania, scrivo su un pezzo di carta la targa del pick-up che ci seguiva a Clayton e glielo lascio sul comodino.
Noto di nuovo il grosso bauletto vicino all'abat-jour, con la chiave sbeccata che spunta dalla serratura arrugginita. Mi chiedo come ci sia finito lì, dato che non l'ho visto nella sua camera l'ultima volta che ci sono venuto, la notte della favola, ma non oso sbirciarne il contenuto.
No, devo fare ancora una cosa.
Prendo il blocco da disegno che stanotte ho sfogliato per almeno mezz'ora, il senso di colpa provocato da quell'invadenza che era soffocato dal fascino del suo talento. Vedere i suoi lavori è stato come entrare nella sua anima senza le barriere che ha costruito o varcare le porte sigillate di quel passato da cui voglio liberarla.
Anche se non mi sarei mai aspettato di trovarci dei miei ritratti...
Scacciando quel pensiero, strappo un foglio vuoto dal fondo, rifletto qualche secondo e getto nero su bianco quello che voglio che sappia, scoccando ogni tanto una fugace occhiata a Keeley, profondamente addormentata. Trasformo la mia lettera in un origami a forma di cigno, con l'inchiostro nascosto all'interno, e lo deposito sull'album rilegato in pelle rossa.
Quello so cos'è, anche se prima stava nella libreria dello studio di Alizée. Per un attimo, guardo il leone ricamato in argento al centro della copertina e, sotto, il motto degli Hallander simile a una promessa. Sempre e comunque.
“Gli è stato insegnato che la famiglia è sacra, e tu ormai ne fai parte” mi aveva detto Matt, sette anni fa.
Io non mi sono mai sentito uguale ai miei fratelli. Anche quando hanno cominciato a considerarmi uno di loro, ero sicuro di avere qualcosa di diverso. Quel "qualcosa" che ha sempre impedito ad Alizée di darmi persino le poche briciole dell'affetto che concede ai figli che, a modo suo, ama davvero. O a Ian di rivolgere a me lo stesso sguardo che leggo sul suo viso quando li guarda, pieno di una dolcezza che non mi spetterà mai.
Ora, però, sapendo quello che devo fare, capisco più che mai il significato di essere un Hallander: fare qualsiasi cosa per proteggere la propria famiglia. Essere disposto a tutto per chi ne fa parte, anche al di là del sangue. Compresa Keeley.
Forse, in fondo, sono sempre stato un Hallander, prima ancora che uno Waylatt.
Mi infilo il giubbotto appeso sulla sedia e attraverso a passi felpati la camera, anche se non resisto all'impulso di fermarmi per spostare contro l'armadio la valigia abbandonata in mezzo. Essendo aperta, esibisce un ammasso di felpe perlopiù rosse e azzurre buttate alla rinfusa e decine di paia di jeans arrotolati senza troppe cerimonie. Ridacchio nel constatare che quella ragazza non ha il minimo senso dell'ordine.
Quando apro la porta, attento a non fare rumore, un'ombra grigia scivola nella fessura e balza sul letto, per poi lanciarmi uno sguardo di rimprovero. Roteo gli occhi, divertito. Gatti.
«Fammi un favore» le sussurro, accennando a Keeley che sta biascicando delle parole indistinte. «Tienile compagnia».
Quasi mi avesse ascoltato, Sparrow le si avvicina e si acciambella sul suo petto facendo le fusa e prende a lisciarsi il pelo color cenere. Keeley avvolge la micia tra le sue braccia con una dolcezza disarmante, ricordandomi tanto una bambina che dorme con il suo pupazzetto preferito.
Un mezzo sorriso mi spunta all'angolo della bocca. “Mi mancherai, bellissima rompiscatole”.
Dopo aver richiuso piano la stanza, mi ritrovo a fissare la porta di fronte a quella di Keeley. Vorrei disperatamente andare a salutare Leen, per dirle di non preoccuparsi e chiederle di non scatenare la terza Guerra Mondiale con Alizée solo per me.
Ma non posso rischiare: mi conosce troppo bene, forse anche più di Liam, malgrado non sia a conoscenza di cose che invece ho confidato a lui. No, capirebbe senza dubbio le mie intenzioni. E, testarda com'è, servirebbe un potere ultraterreno per persuaderla a lasciarmi andare.
Nel tragitto che conduce al soggiorno non incrocio nessuno, nemmeno una cameriera. Probabilmente, è ancora troppo presto e ciò mi permette di godermi il silenzio della villa sprofondata nel sonno, sebbene nella mia testa quei corridoi e quelle sale sono pieni delle grida di un branco di bambini scalmanati che corrono in tutte le direzioni.
Sogghigno, i ricordi che mi affollano la mente: Liam che mi insegna a radermi la barba; io e Kal che scappiamo da un Edric molto arrabbiato per l'ennesimo scherzo; le sfide a basket tra me e quest'ultimo per tentare di smontargli un po' del suo ego (sul serio, era terribilmente arrogante all'epoca); la mia giocosa rivalità con Simon nei giochi da tavolo, dato che era geloso del fatto che lo sconfiggevo sempre ai videogame; le serate davanti all'enorme schermo nella sala cinema, passate abbracciate alla mia sorellina; il torrone che Eileen e Kal hanno rubato dalla dispensa di Ian, quando hanno scoperto che non l'avevo mai assaggiato prima; noi tutti insieme che facciamo sfrecciare per la casa elicotteri e automobili radiocomandati, esasperando Carol...
«Buongiorno».
Con un sussulto manco l'ultimo gradino della scala e mi sbilancio in avanti, ma riesco a recuperare l'equilibrio appena prima di cadere sul pavimento. Mi giro verso la zona d'ombra del soggiorno da cui proveniva la voce.
Sebbene avessi capito già dal timbro che si trattava di lui, mi rassicura vedere la sua sagoma familiare seduta composta su una poltrona, accanto al camino spento.
«Giusto per non essere inquietante, eh?» replico ironico.
Si volta, arcuando un sopracciglio. «Sei tu quello che sgattaiola via alle cinque di mattina». Un piccolo oggetto gli scintilla tra le mani. «L'ho fatto aggiustare, per così dire. Se ne sei ancora sicuro...»
«Lo sono».
Lui si alza. Lentamente, quasi con pigrizia, mi si avvicina e riesco finalmente a distinguere l'espressione sul suo volto. Alla maggior parte delle persone sarebbe apparso calmo e controllato come sempre, ma dopo sette anni ho imparato a cogliere tutti quei piccoli segnali che rivelano le sue vere emozioni. La mascella contratta, la postura un po' più impettita del solito e gli occhi che assumono una tonalità talmente intensa da diventare verdi. È preoccupato.
Mi rivolge un cipiglio severo. «Promettimi che seguirai alla lettera le mie indicazioni».
Sfodero un sorrisetto, sperando sia convincente. «Quando mai non lo faccio?»
«Continuo a pensare sia una pessima idea, lo sai?» domanda, porgendomi il mio anello.
Lo prendo, studiandolo per un secondo. L'unico dettaglio fuori posto è la pietra d'onice su cui è incisa la testa di leone, leggermente sporgente rispetto a prima, ma solo un occhio molto scrupoloso potrebbe accorgersene. Di certo, non qualcuno che non lo ha mai visto.
«Lo so, ma è per la nostra famiglia. E la famiglia è sacra». Con l'indice, accarezzo la lettera scolpita in basso: H. Hallander. «Sempre e comunque. Giusto, fratello?»
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top