57. LA NOTTE DEL FALÒ PT. 2

P.O.V. KLAUS

Un dolore martellante mi preme contro le tempie e devo fare del mio meglio per non inciampare nei fitti rami del sottobosco. La luna ha fatto capolino da dietro un vortice di nuvole, rischiarando l'aria nera con la sua luce argentea che si insinua tra le chiome degli alberi, chiuse a cupola sopra di noi.

Quando un rumore simile a un fruscio attira la mia attenzione, mi volto di scatto e punto la torcia del telefono nella direzione del torrente. L'acqua è quasi immobile, dello stesso colore d'inchiostro del cielo. Il riflesso di una falce cerea si staglia sulla sua superficie, appena increspata dal mite venticello che sembra sussurrare segreti dimenticati nella notte.

«Ehi». Un fascio luminoso mi investe, facendomi strizzare gli occhi. Elizabeth è ferma al centro del ponte con il cellulare in mano, le ombre che le tremolano sul volto attraversato da un sorriso. «Vieni? Ho bisogno del mio scassinatore di fiducia».

Annuisco e la raggiungo a passi felpati, non prima di aver lanciato un'ultima occhiata al tessuto di cespugli che serpeggia lungo la riva per accertarmi di essere sbagliato. Avrei giurato di percepire un movimento, ma è probabile che fosse solo una suggestione dovuta all'atmosfera immobile e sinistra. O magari era un coniglio; so che ce ne sono parecchi.

Nell'oscurità, il cottage inglese non è che una sagoma avvolta in un mantello d'edera di un verde talmente intenso da brillare, come un gigantesco smeraldo incastonato ai piedi di una collina ricurva. Ci fermiamo sotto la tettoia della veranda, sorretta da colonne in alabastro sbalzate con motivi floreali e figure di animali. Tra due pali di legno, poco distante, è sospesa un'amaca che oscilla al tocco delicato della brezza.

Elizabeth sbircia dalla finestra che, trafiggendo il muro di mattoni, si affaccia su un soggiorno rustico arredato con travi scoperte e mobili in legno grezzo. «È davvero inquietante» commenta a fil di voce. «Forse non è stata la migliore delle mie idee...»

Ridacchio, più che altro per nascondere la mia irrequietezza. «Non dirò "Te l'avevo detto", stai tranquilla».

Le sue guance si gonfiano in quel modo unico, speciale. Vorrebbe apparire arrabbiata o minacciosa, invece a me suscita sempre un moto di tenerezza. «Inizio a capire perché Jonas non ti sopporta».

Mi avvicino e le sfilo delicatamente entrambe le spille ornate di petali bianchi, per poi pettinarle i capelli - così lisci e morbidi da scivolare come seta - con le dita. In questo momento, il suo bellissimo biondo platino sembra intessuto di scintillanti fili di cristallo.

«Beh, Jonas non ha torto». Mi inginocchio davanti al massiccio portone di noce, quindi inizio a esaminare l'antica serratura in ottone. «Sei una sorella per lui. Io non vorrei che Leen frequentasse uno come me».

China in avanti, con la testa pochi centimetri sopra la mia spalla, Elizabeth emette uno sbuffo. «Giusto. Dimenticavo che tu sei il terribile bad boy e io la brava ragazza che ti sta facendo commettere un'effrazione».

Rimane qualche secondo in silenzio mentre armeggio con la toppa arrugginita. All'ennesimo tentativo fallito, impreco piano. «Tra parentesi, non credo proprio che ti basteranno delle spille per forzarla!»

Le rivolgo un ghigno sfrontato. «Sfida accettata» ammicco, e torno a concentrarmi sul mio obiettivo. Nel voltarmi, però, barcollo sulle ginocchia per un secondo e devo poggiare una mano sulle doghe crepate del pavimento. «Non è che posso staccarci le rose a questi affari?»

«Non osare!» La sento picchiettarmi sulla schiena con fare giocoso. «Mi spieghi come funziona, esattamente?»

Aggrotto la fronte, inserendo di nuovo la spilla nel buco. «Se vuoi derubare qualcuno, sappi che questa cosa si può fare solo con porte molto vecchie. Per le altre, persino a me servirebbero gli strumenti giusti, ad esempio il mio grimaldello bulgaro, altrimenti sarebbe impossibile con delle forcine».

«Ah, visto?! Avevo ragione!» gongola Elizabeth.

Faccio una smorfia sarcastica. «Non proprio. Con questa posso farlo, dato che la serratura fa schifo. Per fortuna, però, non è troppo arrugginita, quindi non ho bisogno di un lubrificante WD40, che ovviamente non ho perché non avevo in programma un furto per stasera».

«Consideralo un appuntamento originale. E, per la cronaca, non prenderemo nulla. Voglio solo verificare una teoria che...»

Clack.

Con uno stridio, la porta si apre di scatto. Appena mi alzo, una fitta acuta mi punge il cranio e sbatto le palpebre, aspettando che la vista smetta di vorticare. Restituisco le spille ad Elizabeth, che le ripone nella borsetta senza smettere di fissarmi con un cipiglio preoccupato.

«Tutto okay?» mi chiede.

Annuisco, tirando un sorriso rassicurante sulle labbra. Lei si mordicchia il labbro, per niente convinta, quindi allunga un braccio per afferrare la maniglia, ma la scosto con gentilezza e sussurro: «Prima io».

Elizabeth rotea gli occhi ambrati. «Prego, mio cavaliere».

Varcando la soglia, una sensazione di gelo mi penetra fin nelle ossa. Un'insopportabile puzza di muffa mi invade le narici, mista al tipico odore stantio di un ambiente che è rimasto chiuso per troppo tempo.

Nel cono di luce del telefono, tra nugoli di polvere che aleggiano nell'aria, vedo un consunto divano di bambù posto davanti a una stufetta, contorti ammassi scuri che devono essere stati dei tappeti, mensole con dozzine di foto e una grezza scala in fondo che scende nel seminterrato.
Comincio a tastare la parete in cerca dell'interruttore, soltanto per scoprire che non c'è corrente o non funziona, a giudicare dal lampadario con corna di resina ancora spento.

«Ci avevo sperato». La voce di Elizabeth, intrisa di nervosismo, è poco più di un sibilo, eppure ha lo stesso effetto di un lenzuolo lacerato da un coltello.

Muovo alcuni passi in avanti, guardandomi intorno con la torcia. Al centro della stanza, si trova un rustico tavolo con motivi floreali intagliati sui bordi e gambe in stile classico. Sedie di vimini sono sparpagliate ovunque e i vari ripiani sono disseminati di vasi di porcellana con piante ormai rinsecchite.
Spifferi di vento si insinuano tra le fessure dei serramenti, ma i loro cigolii sono soffocati dal rumore delle assi sconnesse a terra quando ci sposto il piede sopra.

«Klaus». Elizabeth estrae un oggetto lungo e sottile da un baule pieno di cianfrusaglie, come bambole di pezza rovinate e macchinine per bambini, e me lo mostra con uno sguardo divertito. «Un giorno, voglio sentirtelo suonare!»

Inarco un sopracciglio, accennando al flauto che tiene in mano. «Ti amo, ma non succederà mai!» replico categorico. «E poi non c'è anche una favola con un uomo che suona il flauto per rapire dei bambini? È chiaramente uno strumento diabolico».

«Ovvio, hai ragione».

La risata che le scaturisce dalla gola mi suscita un piacevole nodo intorno allo stomaco. Non esiste musica più bella di quel suono così puro e cristallino, in una parola: perfetto.

Elizabeth rimette giù lo strumento, poi si raddrizza di scatto. «Aspetta, ma allora stai davvero leggendo la raccolta di fiabe che ti ho regalato!»

Avverto un calore propagarsi sulle mie guance e, mentre supero il bancone dell'angolo cottura, ringrazio fra me che non possa accorgersene.

Accanto al frigo, è appeso un orologio a cucù in camoscio di fattura tedesca; le lancette sono immobili, invece i pendoli a forma di pigna ondeggiano in un movimento flemmatico. «Non proprio, ma a Toby piacciono e...»

La voce mi si strozza all'improvviso.

Fuori dalla finestra, vedo una figura famigliare stagliata tra due alberi. È troppo buio per distinguerne il volto, ma i contorni della sua corporatura massiccia accentuata dal pesante pastrano è sufficiente a congelarmi il sangue nelle vene. L'attimo dopo sparisce, abbastanza in fretta da farmi intuire che non c'è mai stato.

La vista mi si annebbia e una fitta particolarmente dolorosa mi provoca un capogiro, tanto che sbatto il fianco al bancone nel tentativo di recuperare l'equilibrio. Quando qualcosa mi sfiora la schiena, mi ritraggo con un balzo e serro i pugni, il cuore che mi galoppa nel petto.

Elizabeth ritira subito il braccio, perplessa. I suoi occhi mi studiano per un secondo, pozze di luce dorata in cui è riflesso il mio volto accartocciato in un'espressione stravolta. «Smettila di dirmi che stai bene, se non stai bene!» sbuffa stizzita.

Se mi insulta significa che ha davvero perso la pazienza, quindi non mi azzardo a mentirle di nuovo.

«Scusa, Liz» mormoro in tono fiacco, abbassando le palpebre. Di colpo, mi sembra di avere la testa incredibilmente leggera, anche se la parte peggiore sono le vertigini, quasi mi trovassi in bilico su una corda sospesa nel vuoto. «Sono solo un po'... stordito».

Esitante, lei allunga la mano e me la posa sulla fronte, come per verificarne la temperatura. D'istinto mi irrigidisco, avendo ancora tutti i sensi in allerta, eppure non riesco neanche a pensare di allontanarla.
«Non è che quel goccio di sherry è stato fatale?» suggerisce scherzosa.

Nonostante la debolezza che mi ha invaso, abbozzo un mezzo sorriso. «Questo, o magari perché sono stanco. Dormo malissimo senza di te».

«Ti ricordo che non dormiamo mai insieme. Tu hai il coprifuoco con le galline e mio padre non ha una vita sociale».

Elizabeth si sporge sulle punte dei sandali e mi deposita un bacio delicato sulle labbra, appena un soffio. Le circondo la vita per trattenerla contro di me, allo stesso modo in cui chi sta annegando si aggrapperebbe a una bombola d'ossigeno. È piuttosto magra, ma non fragile, e neanche minuta malgrado non sia particolarmente alta.

La sento far scorrere l'indice lungo il mio viso, seguendo la linea arrotondata della mascella, fino ad arrivare alla gola. Le dita, calde e morbide, scendono ad accarezzarmi il petto lasciato scoperto dai bottoni slacciati della camicia.

Pur essendo bellissimo, non posso evitare di rabbrividire, chiedendomi che cosa prova nel toccare le mie cicatrici.
Rabbia? Pietà? Le odia quanto le odio io?

«Va bene, basta!» Elizabeth arretra, rimettendo tra noi una distanza che mi rassicura e mi tortura al tempo stesso. Il suo atteggiamento determinato è talmente poco credibile da risultare esilarante. «Non ho nessuna intenzione di pomiciare con te in un posto in cui la cosa più romantica è una ghirlanda impolverata. Quindi, smettila di distrarmi!»

«Io?» obietto stupito. «Ma se tu mi hai...»

«Ssh, devo mostrarti una cosa! Poi torniamo dai tuoi fratelli e ti fai riportare a casa, chiaro?»

Con un respiro profondo, prendo a massaggiarmi le tempie. «Ha ragione Leen. Noi Hallander abbiamo pessimo gusto per le donne».

«Oh, ma stai zitto!» bofonchia, rifilandomi una gomitata.

A questo punto, tutto diventa confuso. Se dovessi scegliere un paragone, la mia mente annebbiata sarebbe un registratore difettoso che, sporadicamente, rimuove alcuni frammenti del film mentre altri rimangono imprigionati nel nastro della cassetta.

Io che lancio un'ultima occhiata fuori dalla finestra, prima di seguire Elizabeth giù per le scale di faggio, i gradini usurati dal tempo che strepitano sotto il nostro peso.

Uno scantinato dalle pareti rivestite di boiseries intagliati, dominato da una gigantesca libreria mezza crollata, sul fronte opposto di un camino di marmo venato che vomita polvere e fuliggine. La trave che in passato ha ucciso una ragazzina giace ancora lì, un relitto marcio pendente dal soffitto che nello schianto si è conficcata nelle piastrelle luride.

Vagamente, ricordo di aver acceso una delle applique attaccate ai muri e di aver pensato che quella doveva essere l'unica fonte di illuminazione elettrica non guasta in tutto lo chalet.

In maniera più nitida, invece, vedo Elizabeth che si protende verso gli scaffali superiori, cercando di afferrare un voluminoso raccoglitore incastrato tra i libri. La copertina in origine era gialla, forse, ma adesso si è consumata tanto da essere sfumata in uno sgradevole verdognolo.

«Vuoi un aiuto?» Sono a malapena consapevole delle parole che escono dalla mia bocca.

«No, no. Ce la faccio». La voce di Elizabeth giunge alle mie orecchie ovattata, remota.

Non è quella voce melodica e dolce che mi ha stregato l'anima. È distorta.

«Non vale salire lì sopra, piccoletta». Sono davvero io a parlare?

«E va bene» si arrende infine. «Potrei aver bisogno di un paio dei tuoi centimetri. Ma se mi prendi in giro, giuro che ti mollo».

In un lampo di lucidità, la osservo mettersi a braccia conserte. È stupenda, con i capelli argentei che catturano il baluginio della luna e i due soli incastonati negli occhi diventati il centro della mia galassia.

Un momento dopo - o sono passati dei minuti? -, sono seduto. Non so bene su cosa, se una sedia o altro, ma è davvero scomoda. Elizabeth è sulle mie ginocchia, intenta a sistemarsi la gonna, tra le cui pieghe è adagiato il raccoglitore. Una notizia galleggia da qualche parte al confine tra la coscienza e il sogno: un annuario scolastico.

«Le donne amano proprio sedersi sulle mie gambe» sospiro.

Non capisco perché sono così rilassato. Così calmo. Eppure, dovrei sapere di essere in pericolo. Lui c'è. L'ho visto. Ma era reale? Questo è reale?

«Chi altra ci sarebbe stata, scusa?»

Faccio un sorrisetto. «Eh, sapessi».

Elizabeth mi fissa per un secondo, poi si stringe nelle spalle con aria di superiorità. «Spiritoso, ma non sono gelosa di tua sorella».

Stiamo ridendo?

No, no. È tutto sbagliato. Non sono al sicuro. Era una bugia che non mi avrebbe più fatto del male. L'uomo cattivo è tornato a prendermi, so che è così.

«In questo annuario, ci dovrebbero essere i nomi di tutti coloro che si sono diplomati insieme a Céline alla Black High School. Nell'archivio della scuola ce n'è uno identico, l'ho trovato quando cercavo una foto da dare a Jonas di sua madre. Mio padre ne ha uno a casa e scommetto anche Alizée».

Annuisco, continuando a passare in rassegna le immagini degli studenti, accompagnate dai loro nomi. «Quindi, perché siamo venuti fin qui?» replico scettico.

La luce nella stanza comincia a sfarfallare, ma lei non lo nota. Come può non rendersi conto che si sta facendo tutto così buio?

«Perché in questo non c'è il nome di mia madre! Negli altri annuari era proprio qui, ma non c'è! Guarda!» Elizabeth picchietta il dito sulla pagina giallastra. È pallida e ha uno sguardo incredulo. «Non mi sono mai fatta molte domande su di lei. Ora, però, più ci penso e più mi sembra tutto strano. Possibile che non avesse nessun parente, nemmeno un amico, interessato a conoscere la figlia? Non sono mai neanche stata sulla sua tomba, dato che papà si rifiutava di portarmici! Senza contare che lui mi aveva detto di essere nato a New York, invece viene da Sunset Hills! Me l'ha detto la nonna di Jonas!»

«Piano, tigre». Increspo la fronte. «Non ti seguo».

Elizabeth si solleva di scatto, facendo piombare il raccoglitore sul pavimento unto con un tonfo. «Klaus, mia madre non esiste. Laurel Moore non è mai esistita».

Inizia a macinare passi avanti e indietro, incapace di restare ferma. «Gli annuari, le foto su di lei, la storia del cancro. Tutte balle di mio... di Stefan! Potrebbe averlo aiutato Alizée, per quanto ne so. Da solo non avrebbe potuto. Immaginavo che entrambi dovessero essersi dimenticati di taroccare l'annuario di Céline, in fondo era in uno chalet sperduto in un bosco. Per qualche motivo, volevano nascondermi chi fossero i miei genitori».

Aspetta... Questi sono passi che scendono le scale? Perché non li sente?

«Liz...»

«Capisco che sembra la storia di una telenovela mediocre, ma devi credermi!» C'è qualcosa di disperato nel suo tono. «Quando eravamo a Clayton, e sei stato arrestato, ho trascorso la notte in un albergo. O meglio, ci ho provato, ma non riuscivo a dormire perché il materasso era schifosamente duro ed ero preoccupata per te che... Non importa».

Fa un gesto frenetico e prosegue imperterrita: «Sono andata a farmi un giro in città e, come sempre, mi sono persa e sono finita in una stradina deserta, allora ho visto un'auto. Ho capito subito che c'era stato un incidente. Ho chiamato l'ambulanza, però per la donna era tardi; ci ho messo un po' a riconoscere che era Céline, avendola vista solo una volta di sfuggita, in una foto. Ciò che è assurdo è che la ragazza che era con lei mi...»

Il mondo scivola in un oblio di ombre e suoni.

Tutto si mescola in una scialba spirale di passato e presente. Un colpo, un grido. I calci alla pancia. Un bussare insistente. La mano ruvida che mi serra i capelli. Lo stridio di una sedia scaraventata via con violenza. La puzza rancida dell'armadio. Il sudore che mi impregna i vestiti. I crampi di fame allo stomaco.

Altri urli.

La paura, il dolore.

Due baratri neri di rabbia.

Elizabeth che sussurra qualcosa, in preda al terrore.

La voce dell'uomo cattivo dal piano inferiore della mia prigione. «Che cosa ti importa del marmocchio, Maxwell? Dovresti odiarlo quanto quella stronza di Alizée!»

Una pistola tra le mie mani.

C'è sempre stata? Quando l'ho presa? Non mi sembra che fosse nello scantinato... o sì?

«Sei un bambino cattivo, Klaus. E i bambini cattivi devono essere puniti».

Il mio dito sul grilletto.

«Fidati di me, Klaus. Vieni, e ti prometto che nessuno ti farà mai più del male» aveva detto l'uomo buono, quel giorno.

Mai più.

Sento le vibrazioni dello sparo in tutto il mio corpo.

Il mio angelo mi fissa ancora un istante, lo spettro del suo amore per me che ancora le aleggia sul volto, prima di accasciarsi a terra con le ali strappate.

E un unico pensiero: "L'ho uccisa io".

Quando la porta di mogano si apre, una vampata di aria calda mi investe.

Sulla soglia appare Alaric, un gomito appoggiato allo stipite e gli scuri capelli a spazzola che, senza gel, gli stanno ritti come gli aculei di un istrice. Nonostante indossi un paio di boxer a scacchi, corredati da una vestaglia color cappuccino, non credo stesse dormendo: piuttosto, ha lo sguardo assonnato di qualcuno che si è voltato invano nel letto per ore.

La pioggia continua a scendere a secchiate dal cielo fosco e gli ululati del vento gelido sono sovrastati solo dai rombi dei tuoni che, di tanto in tanto, squarciano la notte.

Chino la testa, scosso da tremiti violenti nei miei vestiti fradici. Ansimante, ricoperto di fango, con le ciocche di un biondo sporco appiccicate al viso bagnato e la pelle bianca di un cadavere, devo avere un aspetto osceno.

«Non so dove andare» sussurro debolmente, evitando di incrociare i suoi occhi.

Ho paura che, se lo facessi, vi leggerei tutta la frustrazione, la delusione e l'ansia che deve aver sopportato per il giorno intero. E se è furioso lui per il mio comportamento, figurarsi i miei fratelli...

Alaric schiocca le labbra con disapprovazione. «Giuro che vorrei sbatterti fuori a calci, almeno impari a venire subito da me, la prossima volta». Rimane in attesa di una mia risposta per qualche secondo. Alla fine, scrolla le spalle e si scansa di lato, facendomi un cenno verso l'interno. «Ma non so dire di no al musetto tenero di un Hallander».

Mi precipito dentro di corsa, accolto dal tepore del fuoco che scoppietta nel caminetto. Poiché conosco le regole della casa, mi tolgo subito le scarpe incrostate di terra e le deposito nel mobile accanto all'ingresso.
Con i movimenti resi impacciati dalle ossa intirizzite, mi sfilo a fatica i guanti e getto il giubbotto logoro sull'attaccapanni. Sotto, la camicia mi aderisce al petto, rivoli d'acqua che colano dalla gola giù nell'apertura del colletto.

Mentre percorro il breve atrio colonnato, pregando fra me di non gocciolare ovunque, sento il tatami sul pavimento attraverso i calzini, una sorta di tappeto rigido e morbido insieme su cui è molto confortevole camminare.

«William mi ha chiamato, oggi. Già da questo ho immaginato che la situazione fosse grave» esordisce Alaric, seguendomi nel corridoio rivestito di pannelli di legno. È parecchio che non lo vedo così serio, quasi cupo. «So che hai litigato con Alizée per l'articolo. Ti sei rifiutato ancora di fare quella cavolo di intervista per sostenere la tua innocenza; quindi, da brava madre amorevole ti ha cacciato dalla villa. E fin qui capisco, tutto normale nella tua famiglia, no?»

Decido di ignorare la provocazione.

Il soggiorno è arredato in stile orientale, con le pareti marroni alternate al grigio caldo del tanjo, ovvero il tipico soffitto giapponese ornato di listelli e tavole di legno che si sovrappongono lungo i bordi, e impreziosite da tendaggi dorati.

Lascio scivolare lo zaino dal braccio, per poi restare immobile a lottare contro il bisogno di abbandonarmi sul divano, ornato di intagli e pomelli alle estremità. Ogni muscolo del mio corpo reclama riposo, ma non credo che Kaori, sua madre, sarebbe felice se le insozzo il tessuto di pelle pregiata.

Alaric coglie al volo il mio dubbio. «Tranquillo, lei ti adora. O meglio, adora le tue doti culinarie. Potresti fare un'orgia nella sua camera da letto e ti basterebbe prepararle un vassoio di ciambelle, per farti perdonare».

Mi concedo una breve risatina e, senza nemmeno rendermene conto, sono già crollato sprofondando tra la montagna di cuscini ricamati e cuscini cilindrici.

«Davvero?» Alaric si accascia su un angolo del kotatsu, il tavolino basso coperto da un futon. «Non hai intenzione di dirmi neanche dove sei stato?»

«Sbaglio, o sei di cattivo umore?» biascico, passandomi una mano sulla faccia.

«Sì, Klaus. Se permetti, sono di cattivo umore». La sua voce è venata di pungente ironia. «Ho avuto una pessima giornata. Questo perché il ragazzo che mi piace è un idiota e il mio migliore amico ancora di più».

Aggrotto la fronte. «Hai litigato con Ed?»

«Non si può litigare con chi non ti parla, no?» taglia corto Alaric, facendo spallucce. «Ma, a quanto pare, adesso sbaciucchia le ragazze che neanche gli piacciono, soltanto per accontentare la vostra...» Si blocca, come colpito da una rivelazione divina. Mi scocca un'occhiata di rimprovero. «Mi stai distraendo per cambiare argomento».

Mi lascio sfuggire uno sbadiglio. «Beccato» borbotto, stropicciandomi gli occhi. «Ti prego, Ric, possiamo discuterne domani? Sono esausto».

Alaric mi scruta con le palpebre socchiuse, quasi diffidente. «E va bene». Mi dà un colpetto sul ginocchio, facendo una smorfia quando si accorge che i pantaloni sono sporchi di fango. «Puoi usare una delle stanze libere. Non so se ti ricordi, ma l'unica senza cabina armadio è quella...»

«In fondo, a destra. Sì, grazie».

Lui si alza. «Hai fame?» Supera il bancone e comincia a rovistare nei cassetti che, a giudicare da pacchi e vasetti che sgusciano fuori appena li apre, intuisco essere piuttosto caotici al loro interno. «Dunque, ho delle patatine alla cipolla... scadute da tempo immemore. Poi un... un qualcosa non ben definito. Un wurstel che non ho idea di cosa ci faccia qui. Ah!»

Solleva trionfante una confezione di noodles. «Saikebon, ecco! Non sono minimamente buoni come la yakisoba di mia madre, ma dovrebbero andare».

«Qualsiasi cosa. Basta che non sia pane». Con le gambe che lanciano fitte di protesta, mi costringo a tirarmi su. «Devo farmi una doccia, prima».

«Ottima idea, amico. Puzzi terribilmente». A quelle parole, un piccolo sorriso mi increspa le labbra. «Hai un cambio asciutto, comunque?»

Faccio un cenno d'assenso. «Nello zaino».

«Il tuo zaino che sembra aver fatto un tuffo in un acquario, intendi? Geniale!» Alaric scuote la testa con fare rassegnato. «Ti presto qualcosa di mio, allora. Anche se ti starà grande il triplo».

«Non hai solo quelle, vero?» Accenno alla sua vestaglia. «Altrimenti, preferisco dormire nudo».

«Oh, beh, non sei l'Hallander che vorrei nudo in un letto, ma mica mi lamento».

Questa volta, non posso evitare di scoppiare a ridere, cosa che sembra provocargli un moto di soddisfazione.

Alaric si indirizza verso uno dei corridoi laterali, incorniciato da teche di vetro nelle quali sono racchiusi preziosi vasi in porcellana abbelliti da fiori di bambù in arte ikebana.
«Ah, Klaus!» Quando si gira, la sua espressione si è tramutata nuovamente in una maschera severa. «Forse non ti importa granché di te stesso, ma ci sono molte persone che ti vogliono bene e si preoccupano. Qualsiasi cosa stai passando, i tuoi fratelli meritano di sapere che sei sano e salvo».

Fa una breve pausa, e aggiunge: «Tradotto: chiamali, randagio!» Ammiccando, esce dal soggiorno.

Con un sospiro, prendo il telefono dalla tasca. Non l'ho controllato per tutto il pomeriggio, sapendo benissimo cos'avrei trovato: ventisette chiamate perse e il doppio dei messaggi, in gran parte provenienti da Liam, Carol ed Eileen. Anche Kal e Simon non si sono risparmiati e giurerei che uno degli SMS potrebbe essere stato scritto da Toby. Quasi niente da Edric, come mi aspettavo.

Ma è il silenzio assoluto di Keeley che mi conficca un pugnale dritto al cuore.

Mi ripeto che è meglio così, che almeno lei non sentirà la mia mancanza, quando me ne andrò, che è giusto perché l'illusione di avere un legame diverso dall'amicizia è ormai crollata. È quello che voglio, giusto? Che vada avanti senza di me, verso il futuro migliore che posso donarle: quello in cui la mia unica traccia è un ricordo sbiadito.

Eppure, fa male. Dannatamente male.

Pulisco il telefono con un tovagliolo, tentando di capire cosa fare. Lo rigiro tra le dita per almeno un minuto, ma in qualche modo mi ritrovo sempre con il pollice pronto a premere sul suo contatto - infatti, Ian gli ha regalato un nuovo telefono, avendo rotto il proprio a Clayton.

Domani, Keeley partirà con la mia famiglia per andare in campagna dove abita nostra nonna, la madre di Alizée. Ci rimarranno solo pochi giorni, il periodo necessario a far dimenticare le voci che l'articolo pubblicato dal Sunset Times ha riportato a galla. Ciò che non sanno, però, è che non ho nessuna intenzione di essere ancora qui, al loro ritorno.

Ai miei fratelli non posso dire addio. Non ci riuscirei mai. E forse neanche a lei, ma glielo devo. Oppure sono io ad averne bisogno?

«Sì, devo parlarle» concludo, buttando il telefono sul tavolino. «Devo parlarle un'ultima volta».

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