57. LA NOTTE DEL FALÒ PT.1
P.O.V. KLAUS
Vampate di calore mi lambiscono il volto mentre osservo il fuoco danzare nel buio di una notte senza stelle. Le fiamme crepitano intorno alla catasta ammassata sulla riva, sprizzando scintille dorate e ciocchi ardenti nell'aria mite. Un gradevole venticello estivo trasporta l'odore di legna bruciata, accompagnato dall'aroma della carne che sfrigola sulla brace.
Intorno a me, un centinaio o forse più di ragazzi si stanno scatenando, creando una cacofonia di voci e grida euforiche. Alcuni ballano al ritmo sfrenato della musica, sparata a tutto volume dalle piccole casse disseminate sull'erba. Altri, tra cui Kal, si sono radunati nel bar ambulante, bevendo e mangiando (la prima, in particolare) sotto una tettoia di vimini. Altri ancora si tuffano dalla bassa scogliera che si affaccia sul fiume, giocano a pallone sul prato o si rilassano ai tavolini accanto alla griglia da barbecue e frigoriferi portatili.
Una coppietta mi passa davanti: la ragazza mi ammicca di sbieco e, con un risolino, si lascia trascinare dal compagno fino a che entrambi spariscono dietro agli alberi. Scuoto la testa, divertito, ripensando ad Alaric che ha fatto la stessa cosa con un concentrato di muscoli di nome Paul –lo ha definito un suo "amico", ma ho la sensazione che lo conoscesse da appena dieci minuti.
È successo mezz'ora fa e non sono ancora tornati. Una parte di me mi dice che dovrei andare a controllare, l'altra che è meglio non farlo, a meno che non voglia vedere cose che decisamente preferisco non vedere.
All'improvviso, qualcuno mi getta le braccia al collo da dietro. Un brivido mi scende lungo la schiena, ma subito mi rilasso nel cogliere il familiare profumo di shampoo al cocco mischiato a un'inebriante fragranza di gelsomino.
«Fratellone». Eileen fa capolino da sopra la mia spalla, reggendo in mano un bicchiere pieno di liquido ambrato. Deve quasi urlare per farsi udire nel caos generale. «Se non l'hai notato, sei a una festa! E alle feste, ci si diverte!»
Mi libero gentilmente dalla sua presa e mi volto. A giudicare dalla sua espressione fin troppo raggiante e il luccichio che sfavilla nei suoi smeraldi, non deve essere del tutto lucida. «Quanto hai bevuto con esattezza, sorellina?»
«Bevuto? Niente!» Quando cerca di scacciare un ricciolo ramato che, sfuggito alla coda di cavallo, la brezza continua a scagliarle sul viso, si accorge di stringere il suo drink. Spalanca la bocca ed esclama con falsissimo stupore: «Oh! Ma come c'è finito questo, qui?»
«Dov'è Simon?» chiedo perplesso. Nostro fratello non l'avrebbe mai lasciata da sola in quelle condizioni.
«L'ho perso in giro. Secondo me, è finito tra le grinfie di qualche smorfiosetta». Mi punta contro un indice accusatorio. «Voi maschietti Hallander avete pessimo gusto in fatto di donne. Altrimenti staresti già con Elizabeth!»
Un sorrisetto mi increspa le labbra, rendendomi conto che deve essere nella modalità che Kal definisce "Spara-verità", sintomo che è abbastanza brilla.
Poi, però, il pensiero degli sguardi languidi che inevitabilmente Eileen attira su di sé mi fa contrarre lo stomaco dalla preoccupazione. Dato che indossa solo un lungo abito scollato di un rosa pallido, sorretto da esili strisce di pizzo e lungo appena sopra al ginocchio, è pressoché impossibile che passi inosservata.
La verità è che ha sempre detestato che nostra madre le imponga un determinato codice d'abbigliamento per uscire, molto più rigido per lei che per noi; quindi, ogni volta che sgattaioliamo via di nascosto, non accetta nessun tipo di interferenza da parte nostra a riguardo.
Una comprensibile forma di ribellione che mi ha sempre spinto a evitare gli alcolici in queste occasioni, sfruttando la scusa di dover guidare, in modo da poterla proteggere.
"Certo, se non la perdessi di vista! Stupido!" mi rimprovero tra me.
«Speravi che lei venisse, vero?» Eileen sfodera un ghigno malizioso. «Anch'io. Per questo ti ho trascinato qui».
Inarco un sopracciglio, cercando di rimanere impassibile. «Di chi parli?»
«Ah! Ora è il tuo turno di fare il finto tonto?»
Mi stringo nelle spalle e mi abbandono sulla panchina, tornando a guardare il falò: una grande torcia fiammeggiante stagliata su uno sfondo d'inchiostro, dove il confine dell'orizzonte si annulla e acqua e cielo si fondono insieme.
Mi sfioro il petto con un gesto distratto e, sebbene il tessuto della camicia nera mi impedisca di sentire le cicatrici in rilievo, so che ci sono.
Eileen si accomoda sulle mie ginocchia, rovesciando per sbaglio un po' del suo cocktail. È un vizio che ha preso circa tre anni fa, nel momento in cui si è resa conto che era l'unica a cui permettevo di toccarmi.
«Scusa, non dovevo costringerti a venire. So che il fuoco ti dà fastidio, però ultimamente sei... strano. Credevo che Beth potesse sollevarti un po' il morale».
«Ti piace proprio organizzarmi appuntamenti al buio, vero?» sogghigno ironico.
Facendo un mugolio d'assenso, lei si porta il bicchiere alle labbra, ma glielo sfilo dalle dita prima che possa bere. «Cattivo» bofonchia, fissandomi imbronciata in perfetto stile Toby.
«Essere il Liam della situazione è uno sporco lavoro, ma qualcuno deve farlo, no?» E, per dispetto, assaggio un sorso di quello che scopro essere sherry dolce. Anzi, dannatamente dolce.
Di fronte alla mia smorfia, Eileen esplode in una risata cristallina e mi si accoccola con il capo posato nell'incavo del collo, sbadigliando come una bambina. «Mi piace un ragazzo, credo».
Corrugo la fronte, preso alla sprovvista da quella dichiarazione. «Okay. Sei chiaramente ubriaca».
«No, sono seria! È così carino e...»
«E ti ricordo che sono il tuo fratello maggiore» preciso, stringendola con fare protettivo. «Chiunque voglia stare con te dovrà sapere di essere in costante pericolo di morte, se dovesse ferirti».
«Non è questo il punto». Eileen si raddrizza, perdendo lo sguardo in un punto oltre di me. Sul suo viso illuminato dalle fiamme, con le lentiggini che brillano come minuscoli cristalli e i ricci intessuti di un rosso infuocato, affiora un'espressione avvilita. «È che ho paura che mi interessi proprio lui solo perché so che la mamma non lo approverebbe».
«Sono piuttosto convinto che...» Per qualche secondo, le strilla di una ragazza che viene presa di peso da un amico e gettata in acqua sovrasta il frastuono, coprendo la mia voce. «...che Alizée non approvi nessuna forma vivente, tranne sé stessa. Al massimo, sopporta l'esistenza del resto dell'umanità».
«Davvero non ti è mai sorto il dubbio che molte delle cose che facciamo, sapendo benissimo che non vuole, sia proprio per farla arrabbiare? Forse è vero che siamo incasinati... Oh, finalmente!»
Eileen si alza barcollando e inizia a sbracciarsi per attirare l'attenzione di qualcuno, in mezzo alla folla. «C'è anche la festeggiata, allora!» esclama, spumeggiante d'entusiasmo.
Mi giro di scatto, con il cuore che manca un battito e poi ne recupera altri mille, premendo violentemente contro la gabbia toracica quasi volesse uscire per andare da lei.
Anche con una sobria camicetta di seta color perla e una gonna scura che le sfiora le caviglie, Elizabeth è bellissima. La chioma biondo platino, trattenuta da spille con rose bianche, le ricade sulle spalle esili, dello stesso chiarore argenteo della luna che le mette in risalto l'oro degli occhi, conficcati nei miei.
Al suo passaggio, alcuni ragazzi non possono fare a meno di sbirciarla, abbandonandosi a qualche risolino beffardo nell'accorgersi di come questo la faccia arrossire.
Un fremito d'irritazione mi assale, accompagnato da un sentimento così intenso da bruciarmi il sangue nelle vene. Detesto il modo in cui la guardano, e detesto ancora di più sapere quanto la stiano mettendo a disagio. Una parte di me vorrebbe solo mandare tutto al diavolo e sbattere loro in faccia la verità, così da accertarmi di tenerli alla larga.
Ma le ho promesso di tenere il segreto, per ora; quindi, mi limito a serrare i pugni lungo i fianchi, ma rimango immobile.
«Cosa ci fate insieme?» obietta Eileen, sorpresa.
Impiego un istante a capire a chi si riferisca. Edric ci raggiunge per primo, camminando con le mani nelle tasche dei jeans, e mi rivolge un lieve cenno con la testa quando si ferma di fronte a noi.
«Stavo facendo una passeggiata e l'ho vista» spiega lui, scompigliandosi i capelli corvini. «Non mi sembrava una buona idea mandarla in giro da sola, vicino a un bosco».
«È stato molto gentile». Elizabeth abbozza un timido sorriso, ma le sue iridi non si spostano da me neanche per un battito di ciglia. Indica il mio bicchiere con il mento. «Da quando bevi, tu?»
Emetto un sospiro rassegnato, rovesciando lo sherry per terra. «La mia sorellina mi sta portando sulla via del peccato».
Liz ridacchia, poi si sistema le spille che porta ai lati della fronte in un gesto carico di nervosismo. «Ehm, Klaus». Si schiarisce la gola, impacciata. «Pensi che potremmo...» sussurra, paonazza dall'imbarazzo. Non riuscendo a terminare la frase, scocca una muta richiesta di soccorso a Eileen.
Quest'ultima sguaina un sorriso malizioso. «Vi lasciamo soli». Si avvicina e, mentre mi slaccia un paio di bottoni della camicia, mi bisbiglia all'orecchio: «Fidati, così la conquisterai, Santa Klaus». E, ammiccando, si dirige verso il bar.
Edric fa per imitarla, ma lo afferro per un gomito per bloccarlo. Inaspettatamente, sussulta come se gli avessi fatto male e si liscia la maglietta grigia all'altezza delle costole.
«Stai bene?» gli domando, lasciandolo.
«Sì, ho solo sbattuto. Che c'è?»
Esito un attimo, infine decido di non insistere. «Leen ha esagerato un po'. Non è che potresti...»
«La controllo io, tranquillo». Senza darmi il tempo di ringraziarlo, Edric ci saluta entrambi e si affretta a seguire Eileen.
«Vi somigliate parecchio» commenta Elizabeth, fissandolo andarsene. «Tutti e due volete sempre risolvere i vostri problemi da soli».
Ci allontaniamo dal falò e, uno accanto all'altra, procediamo lungo la sponda del fiume, nella direzione opposta rispetto alla scogliera. I rumori della festa si attenuano a poco a poco, il ritmo adrenalinico della musica che viene sostituito dal lieve fruscio degli alberi.
Presto, il silenzio è tale che posso sentire i rami secchi che scricchiolano sotto i suoi passi mentre i miei sono così felpati da produrre appena un sibilo.
«Tua sorella ti ha teso una trappola, eh?»
«Già. Non dirglielo, o mi ucciderebbe, ma a volte ha le doti persuasive di Alizée» replico sarcastico, massaggiandomi le tempie.
Un ronzio fastidioso ha iniziato a risuonarmi nel cervello, facendomi fischiare i timpani, ma ne attribuisco la colpa alla musica troppo alta di prima.
«Comunque, credevo non saresti venuta».
«Non volevo venire, infatti» confessa Elizabeth, incamminandosi sul molo. La piattaforma di legno è abbastanza spaziosa da consentirci di procedere affiancati, con il fioco bagliore delle fiaccole sferzate dal vento a scacciare l'oscurità. «Ma ho saputo che c'eri tu e dovevo parlarti. Ho bisogno del tuo aiuto per una cosa importante».
Per un secondo, il mondo intorno a me prende a vorticare, poi sbatto le palpebre e la nebbia che aveva invaso il mio campo visivo scompare; nonostante ciò, mi sento ancora stranamente intontito.
Aggrotto la fronte, imponendomi di restare concentrato. «Qualsiasi cosa».
Un intenso rossore le divampa sulle guance, rendendola ancora più adorabile. «Voglio andare allo chalet di Céline Dubois. E, beh, mi servirebbe il tuo talento ninja da scassinatore».
Ridacchio divertito, ma ho la sensazione che non stia affatto scherzando. «Sei seria? Tu vuoi andare in un casetta maledetta, sperduta nel bosco, nel cuore della notte?» ripeto perplesso. «Sembra la trama di un film horror. Di quelli che finiscono malissimo per i protagonisti».
Elizabeth piega il capo di lato, squadrandomi torva. «Primo, le maledizioni non esistono. Secondo, lo chalet non è lontano. Ci metteremo al massimo mezz'ora, i tuoi fratelli neanche si accorgeranno che siamo andati via!». Assume un'espressione implorante che mi stringe il petto, catturandomi come un pesce all'amo. «Ti prego! Se non fosse importante, non te lo chiederei!»
A questo punto, non ho possibilità di riuscire a rifiutarmi, non dopo tutto quello che ha fatto. Ha indagato sulla Walker Agency e, all'inizio dell'estate, ha accettato di venire con me a Clayton, senza pretendere di conoscere i dettagli sulla ragione per cui cercavo la donna che mi ha portato in America. Solo in seguito, le ho rivelato dell'uomo buono e di quel giorno, di sette anni fa.
Tutto solo per me.
«D'accordo» mi arrendo. «Posso sapere almeno il motivo?»
«Ecco, non so spiegartelo bene, non ancora, ma...» Fa una breve pausa, alla ricerca delle parole giuste. «Credo che il mio passato e il tuo siano legati. E non solo».
Devo fare uno sforzo enorme per ignorare le fitte sempre più insistenti al cranio; per fortuna, il fragore delle onde che increspano il fiume ha un effetto rilassante. «Cosa intendi?»
Giunta all'estremità del pontile, Elizabeth si ferma. Quando si volta verso di me, il suo sguardo indugia un istante sulla mia camicia aperta sul petto, deglutisce e lo solleva fino a incrociare il mio.
«Ti fidi di me, Klaus?»
La sua voce è così piena di dolcezza che la risposta mi scivola via quasi di sua spontanea volontà. «Assolutamente sì».
Faccio un passo in avanti e mi abbasso leggermente per pormi alla sua altezza. Sento qualcosa dibattersi dentro di me, ogni fibra del mio corpo che mi grida di annullare la distanza tra noi: non ho mai desiderato tanto intensamente il tocco di qualcuno, come con lei.
Socchiudo le palpebre, inalando il suo profumo alle mandorle. «Perché, alla fine, mi ritrovo sempre a fare ciò che vuoi?»
Un sorriso magnifico sboccia sul suo viso, e capisco che sarei disposto persino ad andare e tornare dall'inferno, pur di vederla felice. «Perché mi ami».
Incapace di resistere, la avvolgo tra le mie braccia e la attiro contro di me con delicatezza. Elizabeth mi posa una mano sul fianco mentre l'altra sale ad accarezzarmi una guancia e mi scansa dolcemente il ciuffo biondo dalla fronte, per poi insinuarsi tra i miei capelli. C'è sempre una tenerezza rassicurante nei suoi gesti, una premura tale da scacciare gli incubi che lottano per riemergere e la paura che si portano dietro.
«Non sai quanto» mormoro, unendo le nostre labbra.
A quel contatto, è come se una miriade di stelle esplodessero nel cielo e tutto ciò che vorrei è baciare in eterno il mio angelo caduto.
Una nebbia fitta striscia per le strade di Sunset Hills, flagellate da una pioggia pungente che si abbatte sull'asfalto nero con la violenza di piccole pietre di cristallo che si infrangono. Stringendomi nel giubbotto fradicio, spalanco il cancello di ferro con un calcio e procedo sul sentiero di ghiaia che svolta dietro a una delle cappelle.
Immerso nella bruma, il cimitero ha un'atmosfera spettrale.
Ombre bianche di lapidi si ergono nel campo e scheletri pallidi di alberi piegano i loro rami al vento gelido e spietato che mi congela i polmoni a ogni respiro. La cattedrale gotica è una sagoma sbiadita di colossali pareti di pietra, con torri scure e guglie grigie rischiarate dai lampi.
Tiro fuori la mano dalla tasca dei pantaloni inzuppati e, sentendo le dita rigide e insensibili malgrado i guanti di lana, sistemo la bretella dello zaino che mi scivola dalla spalla.
La tomba di Elizabeth si trova in fondo al cortile, sotto a un grosso cedro che sembra quasi volerla proteggere.
Non so cosa mi fossi aspettato, ma di certo non una semplice lastra di marmo sormontata da una croce, con il suo nome e le date di nascita e di morte incise sopra una breve scritta: “L'amore resisterà alla morte e il tempo non lo vincerà”.
A parte un vaso rovesciato di crisantemi, probabilmente dono di Jonas, non ci sono altri fiori; sulle prime, penso che sia piuttosto insolito, perché so che Stefan le porta dei ciclamini tutte le mattine, poi però concludo che devono essere volati via per il maltempo.
Quando metto giù lo zaino e mi inginocchio sull'erba fangosa, scosso dai brividi, la mia schiena lancia una fitta di protesta, intirizzita per il freddo penetrato fin nelle ossa.
Ma il dolore fisico non è nulla, se paragonato allo squarcio che mi sta lacerando il cuore. Una ferita sempre più profonda che non ha mai smesso di sanguinare.
Sollevo il vaso di crisantemi, ripulisco alla meno peggio il terriccio caduto e deposito una viola del pensiero. Mi aspettavo che il vento la trascinasse lontano un attimo dopo, invece resta ferma, con i petali bagnati che risplendono di un colore vivido e intenso.
«Sarei dovuto venire prima, mi dispiace» esordisco a voce strozzata, tenendo lo sguardo basso. «È che non... non sapevo cosa dire. Chiederti scusa per una cosa che non ricordavo di aver fatto sarebbe stato un atto egoistico, solo per stare meglio con me stesso. Ma era un conforto che non meritavo. A essere sincero, non merito molto di ciò che mi è stato dato. I miei fratelli, per esempio. Matt, Alaric, l'uomo buono, mia zia... e te, soprattutto te».
Un fascio di luce trafigge le nubi, seguito subito da un tuono assordante che fa tremare il suolo e anche me. «Vorrei poter tornare indietro per cambiare tutto, perché dovresti esserci tu sulla mia tomba, non il contrario. Vorrei che non mi avessi amato così tanto da vedere in me qualcosa di spezzato che potevi ricostruire. E vorrei averti amata abbastanza da essere il cavaliere destinato a salvarti, anziché quello che ti ha uccisa».
Mi ammutolisco, la voce che minaccia di spezzarsi. Sento il sapore salato delle lacrime che mi colano sulle guance e si mescolano all'acqua; non mi ero neanche reso conto di stare piangendo. «Mi manchi tanto, Liz. Ogni giorno. Ti penso di continuo e... mi odio, Liz. Mi odio per ciò che ti ho fatto in un modo che non puoi immaginare».
Gli occhi iniziano a bruciarmi, colpiti dalle sferzate del vento, e li chiudo. «Non posso prometterti che avrai giustizia, ma ti giuro che sarò punito per il male che ho fatto. Qualsiasi cosa ci sia di... di cattivo, di storto in me, Vincent può aggiustarla. So che non lo approveresti, o forse sì, ora che sai come sono davvero. Devo farlo, me lo merito. Ne ho bisogno».
Con un profondo respiro, sollevo le palpebre e mi alzo a fatica, a causa delle gambe intorpidite per il gelo e le ginocchia doloranti. «Non ho protetto te, e non ci sono parole per dirti quanto mi dispiace. Ma proteggerò lei, Liz. Non solo perché l'ho promesso all'uomo buono, ma anche perché...»
Esito un secondo, prima di pronunciare per la prima volta il segreto che mi ha logorato negli ultimi giorni.
«So chi è, Liz. Non volevo crederci quando Alizée me l'ha detto, come non volevo credere alla dottoressa Mills sul fatto che fossi stato io a decidere di dimenticare quanto è successo quella notte. Ora però ho capito. Ho capito perché mi hai portato allo chalet e cosa significava la frase che mi hai detto».
La sua voce mi riecheggia nella mente, delicata come le note di un'arpa pizzicata da un angelo: "Klaus, mia madre non esiste. Laurel Moore non è mai esistita".
«All'inizio, credevo di amare Keeley perché ti somigliava» ammetto in un sibilo. Gli ululati del vento e lo scroscio della pioggia mi rubano la voce, magari per portarla fino a lei, in cielo. «Poi, per un brevissimo momento, ho anche pensato che fosse un sentimento vero. Autentico. Puro. Ed era così bello».
Un sorriso spento si forma sulle mia labbra. «Ma sto solo cercando di rimediare a qualcosa che non può essere cambiato. Sto trattando Keeley come una seconda occasione, come un bambino che rompe un giocattolo e ne prende un altro identico, sperando di fare meglio. Ma ciò che provo è per te, non per lei. Deve essere così. Perché è sbagliato, Liz».
Un singhiozzo mi sale su per la gola. «Non posso amarla, sapendo che è tua sorella».
Non so quanto tempo rimango lì, immobile, frustato da folate gelide e grondante di pioggia, perso nel passato.
Sono solo vagamente consapevole che i miei fratelli mi stanno chiamando incessantemente o dei minuti che passano uno dopo l'altro. Avverto i capelli fradici appiccicati al viso e il cappuccio del giubbotto scuro gettato all'indietro, persino la camicia sotto è orma umida, tanto che mi aderisce al torace come una seconda - freddissima- pelle.
Alla fine, mi carico di nuovo lo zaino sulla spalle. Passo un dito sul nome scolpito sulla stele, chiedendomi se sia giusto o meno. Elizabeth Reed.
«Inizio a ricordare, Liz».
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