53. IL BRANCO PT.2

P.O.V. KLAUS

Ci infiliamo in una viuzza gradinata, un po' meno affollata, punteggiata di chioschi che vendono soprattutto articoli che dovevano andare di moda nell'antichità, tutto di chiara impronta europea. Corone, cofanetti borchiati a forma di bauli, miniature di strumenti di tortura o ghigliottine, coppie di fermalibri con statuine in metallo brunito, lanterne in ottone...

Kal prende una banda di ferro da legare in vita con una fascia rivestita di cuoio nella parte interna, chiusa da grossi lucchetti, e un lampo malizioso si accende nei suoi occhi neri. Non è truccato, ma si è messo un'infarinatura di glitter che brilla alla luce del sole. «Una cintura di castità. Leen può essere la soluzione al tuo problema» sghignazza.

«Peccato che non ci siano per aiutare i maschietti a farlo. Quello sarebbe servito a te».

«Colpito e affondato» ridacchia Simon.

Keeley arcua un sopracciglio. «Beh, non mi sembra che il resto di voi sia formato proprio da play boys» replica in tono dispettoso, facendo avvampare mio fratello.

«È un falso storico». Edric gli strappa la cinghia di mano e la ributta sul bancone. «Le cinture di castità sono un'invenzione ottocentesca, non risalgono davvero al periodo medievale. È solo un modo per accentuare la fama negativa dei "secoli bui"».

Kal fa spallucce. «Ed ecco perché sei il cervellone della famiglia».

«Ehi, aspettate! Idea bomba!» Keeley si allunga sotto uno dei tendoni e afferra un oggetto conservato su un cuscino di velluto, in una scatola sul piano da esposizione. Si volta e ci mostra un pugnale con una croce sul pomo dorato e l'impugnatura di legno riccamente rilegata in pelle marrone intrecciata. «Che ne dite? Potrebbe essere un fidanzato ideale per il mio coltello svizzero».

Scuoto la testa, divertito. «E io che pensavo fossi gelosa del tuo stuzzicadenti».

«Solo quando un ladruncolo me lo ruba per scassinare una porta!» ribatte scontrosa, scagliandomi un'occhiataccia.

Faccio per risponderle, ma intercetto lo sguardo torvo di Simon e decido di restare in silenzio. Non ci siamo rivolti la parola tutto il giorno, l'ho tenuta all'oscuro dell'incidente di Gladys e –anche se questo non può saperlo– ho mantenuto la promessa fatta a Liam di non confessarle che suo padre è sospettato di essere un nemico degli Hallander.

Che diavolo si aspetta, più di così?

Toby comincia a scalpitare, rifilando a Liam delle tallonate sul torace. «È un pugnale templare! Che figata! Ci sono anche in Assassin's Creed

«Io ti vedrei più nell'Ordine degli Assassini». Kal sfodera un ghigno. «Però, se lo porti al matrimonio e infilzi gli invitati, avrai tutta la mia stima».

«Guardate che non è affilato» fa notare Edric.

Keeley corruga la fronte. «È un'altra tua perla da Maestro Jedi? Stai per rivelarci che, in realtà, i templari erano dei porno divi che usavano armi di gomma?»

Lui si scosta una ciocca dalla fronte in un atteggiamento di superiorità. «No, genio. È scritto sul cartellino».

Lo osservo per un secondo. La sua camicia grigia acciaio gli mette in risalto il contrasto dei capelli nerissimi con la carnagione chiara: come me, quella è l'unica cosa che ha ereditato da Alizée, almeno fisicamente.

È ironico che io somigli così poco alla donna che mi sono sempre rifiutato di chiamare mamma. Anche se il pensiero che mi tormenta è un altro: quanto ho di Michael, oltre al suo sangue avvelenato nelle vene? Era biondo e magro come me? E di che colore erano i suoi occhi?
Ogni volta che Alizée mi guarda, è costretta a rivedere lui, il mostro che le ha fatto del male?

Eileen mi si avvicina e mi stringe una mano con dolcezza, facendomi irrigidire appena. «Tutto okay, Kla?» mi sussurra, guardandomi con i suoi smeraldi pieni di apprensione.

Faccio una smorfia. Dentro di me, però, sorrido nel sentirmi chiamare con il tremendo soprannome che usava quando eravamo piccoli. «Ti prego, non chiamarmi così con Keeley nei paraggi o mi prenderà in giro fino alla morte. Abbi pietà di me».

Mi dà una spallata scherzosa, ridendo. «Idiota!»

Passiamo le tre ore successive a compiere le attività più disparate. Dopo una passeggiata – fin troppo lunga – tra bancarelle di abiti in stile medievale, imposta da nostra sorella, assistiamo a uno spettacolo in piazza di una compagnia teatrale che mette in scena la Lisistrata di Aristofane.
La commedia racconta di donne ateniesi che, per indurre i loro mariti a porre fine alla guerra del Peloponneso, protestano con uno sciopero del sesso e, nel discorso conclusivo, Keeley ha sottolineato con molta enfasi le numerosi allusioni maliziose ed espliciti doppi sensi.

In seguito, Kal insiste per giocare d'azzardo a dadi e gettoni con la scusa che era usanza di quell'epoca, finendo per perdere più di cinquanta dollari, e dobbiamo trascinarlo via a forza per evitare di rimanere senza un soldo per la cena. In compenso, però, Liam ne vince una ventina in una partita a scacchi alla quale lo abbiamo iscritto contro la sua volontà: grazie al cielo, ha avuto il buonsenso di ascoltare i miei suggerimenti, e non quelli di Keeley.

Dopodiché, ci dirigiamo al castello che sorge sulla collina, entro la cinta muraria interna, il cuore pulsante del festival. Nel cortile d'addestramento, ci sfidiamo a una gara di tiro con l'arco che vinco con una certa soddisfazione, battendo Simon per un soffio.

A un certo punto, Toby ci chiede il permesso di unirsi ai bambini che si fronteggiano in un'arena di sabbia, simulando un vecchio gioco del tempo: due piccoli "combattenti" stanno in equilibrio ciascuno sulle spalle di un ragazzo più grande e l'obiettivo è far cadere l'avversario almeno due volte su tre.
Purtroppo, quando spieghiamo della sua malattia al maestro d'armi che fa da supervisore, ovvero un addetto munito di cotta di ferro e spadone arrugginito, ce lo sconsiglia dato che potrebbe farsi male.

Alla fine, con il sole che inizia a tuffarsi sotto un orizzonte rossastro, ci fermiamo a riposare in un parchetto pressoché deserto, tranne che per gli ultimi indovini che offrono ai clienti di predire la loro sorte nelle carte, in palle di vetro, sul palmo della mano o roba del genere.

Imbroglioni, a mio parere.

«C'è una signora inquietante là, con un gatto attorno alla gola come una sciarpa, che legge le foglie di tè». Stesa sull'erba accanto a Simon, Keeley indica un punto verso la fontana mentre Liam si allontana per rispondere a una chiamata. «Dovresti provare, biondino».

Quasi sussulto dalla sorpresa di essere interpellato da lei, considerato che mi ha ignorato fino adesso. Eileen, rannicchiata sulle mie gambe, se ne accorge e solleva la nuca dall'incavo del mio collo, incuriosita.

«Possiamo sfatare questo stereotipo secondo cui a tutti gli inglesi piace il tè?» ribatto esasperato, avvolgendo mia sorella tra le braccia.

Alla luce infuocata del tramonto, gli occhi ambrati di Keeley sembrano bruciare come fiamme dorate. «Ti piace il tè?»

Per un attimo, per l'ennesima volta, mi ritrovo a pensare a come possa essere così incredibilmente bella, senza neppure provare ad apparire tale. Con una felpa larga messa al contrario, jeans strappati sulle ginocchia e un paio di scarpe sportive, ha un fascino meno prorompente rispetto a quello di mia sorella, provocante nel suo top bianco con jacquard e una lunga gonna attillata.

Tuttavia c'è qualcosa di magnetico in lei che, se non attira l'attenzione, ti rende impossibile smettere di ammirarla dopo che l'hai notata. È come una pietra rara di cui nessuno conosce il valore, ma che tutti vorrebbero poter studiare soltanto per carpirne i segreti e diventarne gli unici custodi.

«Allora?» mi incalza stizzita, riscuotendomi.

«Beh sì, ma...»

«Zitto e incassa, inglese!» gongola Keeley, assumendo un'espressione trionfante. «E poi avresti serio bisogno di qualcuno che ti legga il futuro. È un ottimo modo per evitare di fare cose stupide di cui poi ti penti e fingi di non ricordare».

Un fremito mi scende lungo la spina dorsale. Sul serio, vuole affrontare l'argomento davanti a tutti, a Simon? «Dovresti seguire il tuo consiglio, ficcanaso. Tipo, subito».

Kal si stiracchia, stravaccato al mio fianco, e porge la coppetta vuota della granita a Edric, accoccolato ai piedi della panchina con il telefono in mano. «Fratello, me la butti, per favore?»

«Devi fare letteralmente dieci passi!» bofonchia lui seccato.

«Troppi. Non ho voglia di alzarmi».

«Arrangiati».

«Lo faccio io!» Toby prende la coppetta e si precipita fino al bidone, sprizzando entusiasmo. Ha ancora gli occhietti verdi lucidi per il pianto, ma sono bastati due giganteschi coni al cioccolato a togliergli il broncio per non aver potuto giocare con gli altri bambini.

«Ma i bagni sono moderni, vero?» chiede Simon all'improvviso, allarmato. «Dovrei andarci».

«Bagni? A che servono?» Kal schiocca le dita. «Forza, tira fuori l'arnese e falla come un vero uomo!»

Scoppio a ridere. Eileen, invece, si lascia ricadere contro il mio petto e lo rassicura: «Sì, ci sono. Non dovrai farla in una latrina».

«Grazie a Dio!» Simon si raddrizza gli occhiali storti sul naso. «Ma non mi mandate da solo, vero? Il festival è enorme e sapete che vado nel panico, se mi perdo...»

Toby, che intanto è salito sull'altalena, agita una mano a mezz'aria con l'indice in alto. «Scappa anche a me! La numero uno!»

Liam torna da noi, infilando il telefono in tasca. «Oliver Hale ci mette a disposizione il tavolo migliore al suo ristorante. Unico inconveniente, ce lo ha riservato dalle otto» annuncia, sistemandosi la giacca legata intorno ai fianchi.

Nel corso del pomeriggio, ha dovuto cedere al caldo e, con non poca riluttanza, ha accettato di toglierla. Kal ha anche scherzato sul fatto che alle ragazze che incrociavamo non sembrava dispiacere la sua camicia bianca che gli esalta il profilo degli addominali scolpiti e le spalle possenti, ma questo non gli è stato granché di conforto. Quando ha visto di avere degli aloni di sudore, ho sospettato gli sarebbe venuto un infarto.

«Ricordatemi perché andiamo a mangiare dal preside, sapendo che ci spia per conto di vostra madre?» soggiunge Keeley interdetta.

«Proprio perché ci spia per conto di nostra madre». Liam appoggia la spalla a un lampione, le braccia incrociate sul petto. «Se avessi rifiutato, sarebbe corso a riferirglielo. E non è mai un bene uscire dai piani tracciati da lei».

«Che bello essere Hallander, non dobbiamo mai fare nulla che non vogliamo!» Eileen si stringe più forte nel mio abbraccio e sbircia l'orologio al mio polso. «Manca un'ora. Come ammazziamo il tempo?»

Faccio un sorrisetto. «Beh, Keeley ha un pericolosissimo coltellino».

«Che ti arriverà in un punto off limits, se non stai zitto» replica lei, facendomi la linguaccia.

Edric solleva lo sguardo dal suo smartphone. «Ci sono ancora le giostre, se volete. Finiscono alle sette e tre quarti, avremmo anche il tempo di raggiungere il ristorante».

«Ah ah! Anche questo è un falso storico, Mister So-Tutto-Io!» esclama Kal infervorato. «Nel Medioevo, mica esistevano le giostre!»

«Idiota, sto parlando degli scontri tra i cavalieri!»

«D'accordo». Liam fa scendere Toby dall'altalena, prendendolo per mano. «Lo accompagno ai bagni, voi invece andate a prendere i biglietti. Ci vediamo sugli spalti». E, senza aspettare risposta, si incammina con il nostro fratellino che gli trotterella accanto e Simon alle calcagna.

«Muoviamoci allora!» dice Eileen, alzandosi.

Non ho il tempo di imitarla che la suoneria degli Imagine Dragons esplode nell'aria. Tiro fuori il telefono dalla tasca e, abbassando il volume, controllo il numero. Appena lo riconosco, il cuore prende a tuonare così forte e rapido nel petto da essere quasi doloroso.

«Che c'è?» Contrariamente alle mie aspettative, la domanda viene da Keeley. «Sei sempre pallido, ma in questo momento un fantasma potrebbe darti consigli d'abbronzatura».

Immobile sulla panchina, mi strofino il palmo libero sui pantaloni. «È Ric». Abbozzo un sorriso, il più credibile che mi riesca. «Conoscendolo sarà di sicuro una cosa lunga, quindi vi raggiungo appena posso. Voi andate».

Edric e Kal sono i primi ad avviarsi, seguiti dopo qualche secondo da Eileen e Keeley, anche se nessuna delle due sembra molto convinta e continuano a gettare occhiate indietro nella mia direzione.

Aspetto che abbiano varcato il cancelletto del piccolo parco, poi porto il telefono all'orecchio con un movimento esitante. È già alla seconda chiamata. «P-pronto?» sibilo con un tremito.

«Lo sai che non mi piace aspettare».

Al suono del suo timbro, secco e autoritario, così privo di calore, chino la testa di scatto e abbasso lo sguardo a terra. È come se fosse un riflesso automatico che riemerge dal passato, risvegliato da quella voce che non sento da sette anni e che avevo pregato di non dover mai più ascoltare.

«Ah» sospira Vincent, compiaciuto. «È bello sapere di farti ancora lo stesso effetto, nipotino».

"No, non sei mio zio! Il mio unico zio è Matt! Tu mi facevi del male! Sei l'uomo cattivo, nient'altro!" penso tra me, ma nessuna di queste parole esce dalla mia gola arida e bruciante. Eppure, non avevo sete, un attimo fa.

«Il cinque dicembre, alle cinque del pomeriggio. Al Lucky House, come volevi». La sua risata sguaiata mi fa trasalire. «Apprezzo l'ironia che tu abbia scelto questo posto. Aspetto con ansia di rivederti... Mi sono sentito molto solo, senza di te, sai?»

Oh sì, non ho dubbi di quanto ti sia mancato il bambino che prendevi a calci sul pavimento, che mettevi sulle tue gambe per spegnergli le sigarette sul petto, che rinchiudevi in un armadio per ore e ore, che tenevi fermo per i capelli mentre...

No! Devo mordermi il labbro fino a sanguinare per scacciare quei ricordi, sentendo in bocca un acre sapore metallico. «Il cinque dicembre è la prossima settimana. Perché non domani?» sibilo a voce strozzata.

«Perché ho deciso così» taglia corto Vincent, languido. «Inoltre, voglio che quel giorno ti metta una camicia nera. Scommetto che ne hai una anche adesso».

La richiesta mi coglie alla sprovvista. «Che importa cosa indosso?»

«Il nero ti ha sempre donato molto. In fondo, è il colore del male, il colore perfetto per le persone cattive come te».

«Io...» Socchiudo le palpebre, inspirando profondamente. «Non è vero».

«Hai ucciso una ragazza. Esisti soltanto perché il tuo papà non ha voluto un no come risposta. Non sono prove sufficienti che hai qualcosa di marcio dentro?» Il suo sorriso sghembo, viscido, orrendo prende forma nella mia mente. «Ma a me non importa. Ti voglio bene, comunque».

Chiudo la mano libera a pugno e mi colpisco forte sulla coscia. La fitta di dolore mi aiuta a tornare a respirare, finalmente. «Quello non... non era volere bene».

«E quello di Alizée, lo è?» Per quanto assurdo, il suo tono tradisce una nota ferita. Ferita, quasi considerasse un'ingiustizia ciò che gli ho detto. «A proposito, non portare nessun fastidioso Hallander con te. Puoi nasconderti quanto vuoi dietro un nome che non ti appartiene, ma non cambierai mai ciò che sei».

Rigiro l'anello con il leone intorno al dito. La pietra d'onice è talmente scura che sembra inghiottire i raggi morenti del giorno e, incisa in quel cuore di tenebra, scintilla la lettera H. «Abbiamo finito?»

«Un'ultima cosa». Lui fa un verso simile a un ringhio. «Voglio che ti slacci un bottone della camicia».

Per poco, l'apparecchio non mi scivola dalla mano. Lo stringo forte e aggrotto la fronte, perplesso. «Cosa? Perché?»

«Non mi piace ripetermi».

Rabbrividisco e, prima ancora di rendermene conto, ho già fatto quello che mi ha ordinato. «Che senso aveva? Non sei qui...» sussurro ansioso, tirandomi in piedi.

D'istinto comincio a guardarmi intorno. Dall'altra parte della linea, la totale assenza di rumori di sottofondo non mi permette di capire dove possa trovarsi.

«No, non ci sono. Era una dimostrazione, su cui dovresti riflettere. Anche se non posso vederti, non posso toccarti e siamo lontani da anni... ancora mi obbedisci». Fa una breve pausa, come per gustarsi il sapore del potere che ha su di me. «Un cane ben addestrato torna sempre dal padrone che lo bastona, piccolo mio».

Impiego alcuni istanti ad accorgermi che ha riagganciato. Scaglio il telefono sulla panchina e mi butto sull'erba. Affondo il viso tra le ginocchia, facendo dei lunghi respiri. Con l'indice, sfioro la cicatrice che dal sopracciglio mi taglia l'occhio destro e ripenso al giorno che mi è stata fatta, quando avevo cinque anni...

D'un tratto, avverto che qualcuno mi sta fissando, una presenza famigliare stagliata proprio di fronte a me. Sollevo il capo e il grigio dei miei occhi si scontra con l'oro luminoso dei suoi.

«Tu. Con me. Subito» dice Keeley in tono perentorio. «Dobbiamo parlare».

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