51. PER UCCIDERE IL TUO DEMONE
P.O.V. KLAUS
"Com'è andata la cena?
Ah! Il tuo consiglio faceva schifo. Ho fatto un casino".
È ciò che scrivo nel messaggio, dopo essermi buttato sul muretto intorno a uno dei cortili della scuola. È un parchetto collocato non lontano dall'osservatorio, con eleganti gazebi di legno per ripararsi dalla pioggia e un ventaglio di panche che si stende di fronte a un grande palco. Al momento, nessuno si sta esibendo, ma dalle casse ai lati è sparata a tutto volume una martellante canzone trap che un manipolo di scalmanati si diverte a storpiare.
Ripongo il telefono nei jeans e sollevo la testa, socchiudendo le palpebre per proteggermi dalla luce accecante. Nonostante sia ancora primo mattino, il sole spicca alto sul fondo azzurro di un cielo limpido e terso. I suoi raggi cocenti incendiano di riverberi dorati la distesa di foglie secche, sparpagliate sull'erba del prato o ammassate ai piedi degli alberi che costeggiano i sentieri lastricati. Solo una brezza pungente, con le sue timide raffiche, ricorda che siamo in pieno autunno.
Passandomi accanto, molte ragazze mi rivolgono sorrisini stucchevoli e sembrano fare di tutto per attirare la mia attenzione. Alcune si sono addirittura avvicinate per salutarmi e, posta la domanda di rito («Sai già con chi andrai al matrimonio?»), hanno cercato di trascinarmi in una conversazione.
Alla fine, stanche delle mie risposte a monosillabi o vaghe alzate di spalle, hanno capito che non avevo voglia di parlare e se ne sono andate, in parte deluse e in parte oltraggiate. Probabilmente, avranno confabulato sul mio comportamento, associandolo al mio essere "strano e disturbato". Credo sia la definizione più gettonata per descrivermi, sebbene venga applicata spesso anche agli Hallander in generale.
Potrei dire che ero troppo assorto nei miei pensieri, ma in realtà ne ho uno solo da stanotte. Un chiodo fisso che mi si è conficcato nel cervello dall'istante in cui mi sono messo sotto il getto della doccia per eliminare i residui di cloro, ma soprattutto per schiarirmi le idee. L'ho baciata...
Come diavolo ho potuto baciarla?
Non era ciò che avevo programmato. Durante la cena avevo approfittato dell'assenza di Keeley, in punizione per essere sgattaiolata chissà dove con Stefan nel pomeriggio, in modo da ragionare a mente fredda su cosa dirle. Dovevo scusarmi, dovevo spiegarle quanto disperatamente volessi il suo perdono: questo era indispensabile.
Le parole di mio zio, però, continuavano a ronzarmi nelle orecchie e mi sono ritrovato a essere onesto con lei, forse più di quanto lo sia mai stato con qualcuno da tanto tempo: nel mio piano, le avrei confessato i miei sentimenti, certo, ma anche qualcos'altro.
La verità. Quella che avrei dovuto dirle fin da quel giorno che ha scoperto della morte di Elizabeth, quella che mi ha rinfacciato Alizée nel suo studio, aprendomi gli occhi su quanto sia orrendo quello che - involontariamente - sto facendo. Invece, ho rovinato ogni cosa. L'ho baciata, pur sapendo che non avrei dovuto, che sta uscendo con Simon e... ed è stato magnifico.
«Ehi, amico! Siamo mattinieri, oggi!» Alaric mi raggiunge, con i capelli neri plastificati da un quintale di gel e la carnagione olivastra che scintilla come bronzo. «Chi ha messo questa roba? Vorrei dargli delle dritte sui suoi discutibili gusti musicali» esclama, agganciando i pollici alla fascia che gli sorregge i pantaloni alla turca.
Con un brivido di piacere, ripenso a Keeley che mi afferra per la cintura e mi tira contro di sé, senza la minima traccia di esitazione. Non sembrava avere dubbi su ciò che voleva. E, per qualche assurda ragione, voleva me.
«Allora?» Alaric mi dà un colpetto alla spalla e si guarda intorno. Le sue iridi scure sono accese di riflessi perlati. «Dov'è il resto della squadra?»
«Arriveranno fra poco. Avevo bisogno di riflettere e mi sono alzato presto per fare una passeggiata» rispondo, scendendo dal muretto. Noto la sua espressione delusa e abbozzo un sorrisetto. «Però complimenti. Era un metodo molto sottile per chiedermi se Ed fosse già qui».
Alaric mi affianca lungo il selciato, scalciando i sassolini con la punta degli anfibi militari. «Mi evita come la peste» sospira amareggiato. «E non capisco che cosa ho fatto di sbagliato».
Arrotolo le maniche della camicia blu notte fin sotto ai gomiti. «Il vostro appuntamento è andato così male?»
«No, per niente! È questo il pun...» Si ammutolisce di colpo. Mi scocca uno sguardo esterrefatto, poi lo sostituisce con una smorfia innocente a cui non crederebbe neanche Toby. «Non so di cosa parli. Io non sono mai uscito con il tuo fratellino dichiaratamente etero. Beh, nella mia mente sì, un sacco di volte, e anche altro...»
«Preferisco non saperlo, grazie». Scuoto la testa, infastidito dalle nuvole di polvere che, sollevate dai calci a terra di Alaric, il vento continua a soffiarmi in faccia. «E poi è ovvio che Ed sia uscito con te. Avevo preso io la tua auto quel sabato, infatti ha dovuto accompagnarti, ed era agitatissimo quando Alizée ha voluto sapere con chi dovesse vedersi. Non ne avrebbe avuto motivo, se fosse stata davvero Sily».
«Magari sono solo coincidenze».
Mi volto e lo fisso con un sopracciglio inarcato. L'arrivo di una notifica mi fa vibrare il telefono. «Ric, non sono idiota. Mi sono accorto che non è indifferente a te. Sei l'unico che riesce a innervosirlo solo con la sua presenza».
Detto questo, estraggo l'apparecchio dalla tasca e leggo l'SMS di Matt: "Scusa, sono una frana. Se hai bisogno di parlare, io ci sono. Quanto alla cena, ha detto che era tutto perfetto... una bugia a fin di bene, immagino". Sogghignando, gli invio una risposta sbrigativa, rassicurandolo che è tutto okay, e lo metto via, sentendomi appena più leggero.
«Eh vabbè, ci ho provato» si arrende Alaric in tono disinvolto. «Non dire a Edric che l'hai scoperto, però. È molto paranoico sull'argomento e mi darebbe la colpa per non aver negato fino allo stremo».
Puntiamo in direzione del museo, una struttura rettangolare dal frontone alla greca che, cinta da un colonnato di marmo bianco, viene impiegata nelle lezioni di storia o nei corsi di archeologia, dato che vi sono conservati degli artefatti ritenuti rari e antichi. La nostra destinazione, tuttavia, è un locale all'aperto poco lontano, il Mythology, piuttosto vistoso per il suo ingresso composto da un arco in mattoni rossicci su cui si arrampicano due draghi di pietra con le fauci che sputano fumo artificiale.
«Non ha torto. Alizée ha la mentalità aperta quanto un ago da cucito». Passiamo tra le ali divaricate delle creature, piegate verso il basso, che incorniciano l'entrata e mi siedo per primo a un tavolo libero, ai margini della staccionata che delimita il bar. «Ma non mi è chiaro perché lo nasconda a noi. Dovrebbe sapere che non avremmo nulla in contrario».
«Già, strano». Con un movimento plateale, Alaric si getta sulla sedia di fronte. A causa del gel, il vento non riesce a smuovere neanche una ciocca dei suoi capelli perfettamente ordinati. «Eppure voi Hallander siete sempre così aperti e sinceri sui vostri sentimenti o sui vostri problemi... Molto strano, sì».
Faccio finta di non cogliere la frecciatina e intreccio le dita dietro la nuca, appoggiandomi allo schienale. All'ombra del parasole aperto, posso godermi finalmente un po' di fresco, anche se non è facile ignorare le persistenti occhiate e il chiacchiericcio che esplode in commenti eccitati nei miei confronti.
All'improvviso, mi ricordo di quello che mi ha detto Liam, ieri mattina, quando mi stava aggiornando su un possibile nemico della nostra famiglia. Aveva accennato a uno scherzo che Edric aveva subito quest'estate, il giorno del mio compleanno, e che "stava per finire molto male".
«A proposito, tu sai cosa gli è successo? A mio fratello, intendo». Devo sforzarmi per non lasciar trapelare nessuna emozione. Dentro, invece, avverto la rabbia ribollirmi nel sangue. «Sono mesi che è... diverso. Turbato».
«Oltre ad accorgersi di essere gay con una madre apertamente omofoba e retrograda?» replica Alaric con una punta di amarezza. Un lampo tetro gli balena sul volto. «Ha litigato con quello scarafaggio su due piedi di Daniel "Idiota" Tanner. A quanto pare, un ragazzo che cerca di baciarlo commette un peccato capitale, secondo i suoi criteri. Davvero ti stupisce che non si fidi a essere onesto sull'argomento?».
Con un mugolio d'assenso, riporto le mani sui braccioli e li stringo forte. Essendo il migliore amico di Edric fin dalle medie, in passato Daniel era una presenza fin troppo ricorrente alla villa, tanto che Alizée era arrivata ad auspicare una sua possibile relazione con Eileen.
Forse anche per questo, non ho mai nutrito molta simpatia per lui, unito al fatto che io e Kal siamo sempre stati nella sua lista di persone da cui tenersi alla larga. I genitori dovevano averlo istruito che frequentare un ragazzo notoriamente problematico, da anni in terapia da una psicologa, o uno di cui si diceva da sempre che amasse trucchi e vestiti stravaganti poteva rovinare la sua preziosa reputazione.
Ma davvero sarebbe arrivato a fare del male a Edric? E che ragione avrebbe avuto di collaborare con Vincent, o con Maxwell Storm? Sempre ammesso che Alizée abbia ragione, e non sia qualcun altro ad avercela con noi...
«Ciao, Klaus». Una ragazza mi si accosta, sfoderando un sorriso smagliante, e mi posa davanti un frappè, bianco e ghiacciato, con una cannuccia che spunta dal doppio strato di panna. Indossa un top che le lascia scoperto l'ombelico, tempestato di piercing, lilla ma con una bordatura viola che le fascia il seno generoso in maniera provocatoria. «Un regalo per il ragazzo più carino della scuola. Ti piace il cocco, vero?» ammicca, sfiorandomi un braccio.
Irrigidito, mi ritraggo e scanso bruscamente la sedia per mettere tra noi la giusta distanza. Scambio uno sguardo interrogativo con Alaric, che scrolla le spalle e si copre la bocca con un pugno, cercando di rimanere serio.
Lei non sembra badarci né aspetta una mia replica. Con un gesto altezzoso, si scosta una ciocca ondulata dal viso affilato. «Allora, congratulazioni per le nozze di tuo zio. Ci vediamo a lezione, Klaus». E si allontana, facendo ondeggiare i fianchi stretti sotto la gonna aderente.
Alaric, diventato quasi paonazzo, smette di trattenersi ed esplode in una fragorosa risata. «La cosa più divertente è che tu detesti il cocco».
«La pianti?» Increspo le sopracciglia, seccato. «Ho promesso a Liam di non attirare l'attenzione e mi ritrovo al centro di una tempesta ormonale. Fantastico!»
«Sei un gran figo con una vistosa cicatrice sull'occhio che fa Hallander di cognome. Non puoi passare inosservato» sghignazza, fingendo di asciugarsi una lacrima. «Ma la conoscevi almeno?»
«Si chiama Jennifer. Facciamo chimica insieme, ma le avrò parlato una, due volte al massimo». Emetto un sospiro esasperato. «Fra poco, giuro che porto te al matrimonio». Prendo un sorso di frappè e storco il naso. «Che schifo, il cocco» sussurro, spingendo il bicchiere verso il centro del tavolo.
Alaric lo afferra e comincia a mangiare la panna montata con il mignolo. «È un'idea geniale, in realtà. Le nostre compagne ti lascerebbero in pace e faresti venire un infarto a quella progressista di tua madre. Due piccioni con una fava... beh, una fava dalla rara bellezza, in questo caso».
Roteo gli occhi, ma poi mi sporgo in avanti e mi schiarisco la gola, leggermente a disagio. «Già, riguardo ad Alizée» esordisco, abbassando il tono. «Ha scoperto che la scorsa notte sono uscito con... Non importa, ti risparmio i dettagli. Comunque, non l'ha presa benissimo...»
«Sei in punizione? Di nuovo?» obietta lui, scioccato. «Ti ha tolto l'auto, poi i soldi. Che altro? Di questo passo, dovrai andare in giro in mutande».
«La casa» aggiungo in un soffio. «Però i vestiti posso tenermeli».
Alaric, che stava succhiando il frullato, dischiude le labbra per la sorpresa e un rivolo di liquido gli cola sul mento. Deglutisce, strappando un tovagliolo dal dispenser. «Stai scherzando? Ti ha cacciato?» Accigliato, si pulisce distrattamente e accartoccia il pezzo di carta nel palmo. «William lo sa?»
Un moto di fastidio mi assale. «No, non vado a piagnucolare dal mio fratello maggiore perché mammina è cattiva con me. E comunque ha già abbastanza cose di cui preoccuparsi». Faccio spallucce. «In fondo, la vita sotto i ponti non è male, se sai suonare la chitarra. Sono bravo, vedrai che riceverò delle elemosine coi fiocchi».
«Oppure puoi sempre prostituirti».
Mi costringo a ridacchiare, malgrado la sensazione di avere un pesante macigno incastrato nel petto. Negli anni, Alizée ha minacciato spesso di rispedirmi a Londra da mio zio o di mandarmi, finito il liceo, in qualche college sul capo opposto degli Stati Uniti, ma non l'ho mai presa sul serio. Mi detesta, ovvio, però è anche vero che ha avuto molte occasioni per mandarmi via, se davvero lo avesse voluto.
Questa volta è diversa. L'ho capito subito, fin da quando mi ha fatto convocare da Carol nel suo ufficio, dopo la chiamata di Matt, e mi ha comunicato che avrei dovuto fare le valigie entro la fine della settimana. Non ha posto condizioni o vie di mezzo: un semplice "vattene", condito da un discorso di frasi gelide e insulti velati che ho ascoltato a malapena. Sul momento, avevo pensato che fosse la cosa migliore.
La prospettiva che non avrei più vissuto con Keeley mi aveva infuso coraggio: le avrei parlato e me ne sarei andato, mi sarei fatto da parte lasciando a Simon il compito di rimettere insieme ciò che io avevo distrutto.
Invece, ora che quell'eventualità sta prendendo forma, mi si presenta il rovescio della medaglia su tutto ciò che perderei. Le serate pizza con i miei fratelli, gli scherzi a Edric, le infinite partite alla Playstation con Kal, le coccole con mia sorella sul divano, i monologhi di Toby su qualsiasi cosa legata a Harry Potter, persino le noiosissime sessioni di studio della domenica.
«Va bene. Battute a parte, lo sai che puoi contare su di me». L'ironia è svanita dalla voce di Alaric, sostituita da una pacata risolutezza. «Puoi rimanere per tutto il tempo che vorrai. Come si dice da me: "Watashinoie wa anata no iedesu"».
Corrugo la fronte. «Che?»
«Mi casa es su casa, ma in giapponese. Se vieni a stare da me, mia madre te ne insegnerà un po', soprattutto parolacce. Quando si arrabbia, dimentica l'inglese». Alaric lancia il tovagliolo appallottolato nel bidone e riprende a bere il frappè, ormai a metà. «Quando lo dirai ai tuoi fratelli? Mentire a Eileen su una cosa simile ti costerà un arto».
Ridacchio. È più probabile che Leen mi stacchi direttamente la testa. «Pensavo di farlo oggi pomeriggio. La mia sorellina ha organizzato qualcosa in famiglia per "farmi stare meglio", ma io sono già terrorizzato da...» Non riesco a terminare la frase.
All'improvviso, la voce mi muore sulle labbra e il cuore inizia a pulsare con ferocia, pompando sangue fino alle orecchie come ghiaccio sciolto che si solidifica in frammenti aguzzi nelle mie vene. In un angolo remoto della mente, sono consapevole del mio corpo che si paralizza in una prigione d'acciaio di muscoli tesi e nervi tirati.
L'uomo cattivo mi osserva dall'altra parte del Mythology, appoggiato allo steccato con le grosse braccia incrociate e uno sguardo lampeggiante che mi trafigge come una freccia. È lontano, eppure la nitidezza con cui riesco a distinguere ogni particolare di lui mi fa tremare, quasi la sua immagine sia rimasta marchiata a fuoco dentro di me. Lineamenti duri e freddi, scolpiti tra solchi profondi che gli scavano le tempie e incorniciati da ciuffi di capelli color polvere, radi e unti.
Ha l'aspetto che aveva sempre avuto: arrabbiato, terrificante, con un'accusa d'odio scritta sul volto.
«Non sei qui» sibilo tra me, le parole che mi raschiano le corde vocali. «So che non ci sei. Non puoi farmi del male».
«Cosa... ma che dici? Perché dovrei farti del male, scusa?»
Sbatto le palpebre e Vincent è scomparso, dissolto nel nulla. Al suo posto, si è materializzato un brutto goblin di granito, identico ai dispettosi mostriciattoli delle favole. Mi accorgo di stare stringendo i braccioli della sedia così forte che mi si sono intorpidite le dita, il metallo dell'anello talmente penetrato nella carne da tracciare una scia rossa sotto la pelle. Sono schiacciato contro lo schienale della sedia, come se avessi tentato di sottrarmi al mostro dei miei incubi.
Alaric segue la traiettoria dei miei occhi fino alla statua, poi torna a guardarmi e si volta di nuovo, chiaramente confuso. «Che stai...»
Mi alzo di scatto, sperando di non avere un'espressione troppo stravolta. «Devo andare. I miei fratelli saranno arrivati».
«Klaus...»
«Grazie per la proposta, ci penserò» mormoro distratto, aggirando il tavolo.
Alaric si solleva e mi acciuffa per il polso. A quel tocco inaspettato, vengo scosso da un fremito di paura e do uno strattone per liberarmi, ma è troppo forte e non posso impedirgli di tirarmi indietro. «Scusa, non volevo» mi dice, lasciandomi subito dopo. «Ma dimmi che stai bene, Klaus. Che stai bene sul serio».
Lo fisso intensamente per un attimo, esitante, infine abbasso lo sguardo, incapace di reggere la preoccupazione sul suo viso. «Non lo so».
***
Con la testa infilata nel mio armadietto, in mezzo al corridoio all'ingresso della scuola, continuo a rigirare sul palmo una scatolina quadrata, delle dimensioni adatte a contenere una pallina da golf.
In realtà, all'interno giace un braccialetto di cuoio usurato dagli anni, adagiato su un soffice cumulo d'ovatta. Ultimamente, ho preso l'abitudine di portarne la custodia con me, anche se non riesco a metterlo, non sapendo che ormai ha perso il suo significato.
Il primo uomo che me l'ha consegnato mi aveva salvato e portato sulla soglia della mia nuova vita, con la promessa di un futuro migliore. Vincent, invece, è l'emblema di quella vecchia, del passato che vorrei soltanto cancellare, racchiuso nelle cicatrici che sono costretto a portarmi addosso.
Sollevo il tappeto di cotone nella scatola e sotto, appiattita sul fondo, è appiccicata una striscia di carta con un numero di telefono scritto in una calligrafia perfetta. Rabbrividisco, sentendo un dolore remoto sul dorso della mano sinistra, nel punto in cui lui mi schioccava dei colpi mentre scrivevo perché non sopportava che fossi mancino.
"La mano del diavolo" la definiva.
Forse, mi sbagliavo. La dottoressa Mills, la mia psicologa, mi ripeteva spesso che, per andare avanti, devo ricordare ciò che mi sono lasciato indietro. E comincio a pensare che avesse ragione. Non devo dimenticare, devo...
«Hai letto il giornale?»
Pur essendo immerso nei miei pensieri, ritorno subito alla realtà. La voce di mia sorella riuscirebbe a raggiungermi anche da un altro pianeta. «Mmh no» rispondo assente, affrettandomi a riporre la scatola dietro un'ordinata pila di libri, disposti in ordine alfabetico, di grandezza e di materia. «Perché?»
Appena mi scosto dall'armadietto, Eileen si protende verso di me e mi deposita un bacio sulla guancia. Indossa una camicetta di seta bianca con delicate perline come bottoni, pantaloni attillati color verde bottiglia e un paio di décolleté panna dal tacco alto abbinate alla borsa.
Anche se mantiene un atteggiamento indifferente, la conosco abbastanza da sapere che adora il modo in cui tutti i ragazzi si voltano ad ammirarla con la bava alla bocca e sono grato di non poter vedere cosa stia passando nelle loro menti.
Probabilmente per il caldo, oggi ha raccolto i suoi boccoli rossi in un elegante chignon, trattenuto da un fermaglio di diamanti, ma alcune ciocche le ricadono comunque sul viso spruzzato da una manciata di lentiggini. Sorrido al pensiero che i suoi ricci sono un po' come lei: impetuosi, ribelli e impossibili da controllare.
Alle sue spalle, ritto come un'ombra, c'è Simon. Ha una mano infilata nella giacca a vento, la zip tirata su fino alla gola, mentre nell'altra stringe una copia arrotolata del Sunset Times, il più prestigioso quotidiano della città. Il cenno di saluto che mi rivolge è privo di entusiasmo, i suoi intensi smeraldi che scintillano da dietro le lenti. In questo momento, puntati su di me, sono piccoli e freddi, identici a quelli di Alizée.
Lo stomaco mi si attorciglia nelle viscere. Non può sapere del bacio. Sarebbe impossibile. Non c'era nessuno, no? Nemmeno questa consolazione, però, basta a contrastare i dilanianti sensi di colpa. Sono sempre stato un pessimo figlio, e ora sono diventato anche un pessimo fratello.
Mi pulisco il viso dalle tracce di rossetto. «Dov'è...» "Keeley" vorrei dire, ma correggo subito il tiro. «... Kal? Ed Edric?»
«Kal è andato con Keeley al Savage. Pensavo volesse vedere Amelia, invece se n'è scappato via per non incontrarla». Dal modo in cui mi guarda Eileen, è chiaro che abbia intuito a chi fosse davvero riferita la mia domanda. «E anche Ed si è volatilizzato. Secondo me voleva schivare Ric, non saprei». Rilascia un sospiro frustrato. «Sul serio, perché voi maschi dovete sempre fare i difficili?»
«Beh, non è che con voi sia una passeggiata». Mi abbandono con la schiena contro l'armadietto, incurvando le labbra in un sorrisetto forzato. «E poi, di solito, non vi piacciono i tipi enigmatici e misteriosi?»
«Sì, finché non ci stufano e li prendiamo a calci. Non è il mio caso, tanto io becco solo idioti di prima categoria».
Simon si intromette con un finto colpo di tosse. Ha una maschera stranamente inespressiva sul volto che non mi convince per niente. Insieme a Toby, che ha la tipica purezza infantile dei bambini, è sempre stato il più trasparente della famiglia riguardo alle proprie emozioni.
«Ah, giusto». Facendosi seria, Eileen strappa il giornale dalla presa del gemello, facendo tintinnare i braccialetti d'oro e d'argento che porta al polso.
Quando me lo dispiega davanti alla faccia, leggo il titolo a caratteri cubitali che campeggia sulla prima pagina: "DONNA DI QUARANT'ANNI MUORE IN UN INCIDENTE STRADALE A BAKER STREET".
Sotto, è stampata l'immagine della carcassa fumante di una Ford Puma schiantata contro un grosso albero mezzo sradicato: i finestrini sono esplosi, il cofano scoperchiato e un ramo nodoso ha sfondato il parabrezza. In origine, l'auto doveva essere di un nero specchiante, ma ormai polvere e terra le ingrigiscono le fiancate, piene di graffi e ammaccature.
«È una cosa orribile, ma che...»
«Era la vicina di Raf, Gladys. Gladys Mitchell» mi interrompe mia sorella. «Aspetta, forse tu non la conosci. Io e Simon l'abbiamo vista solo poche volte, ma a me stava simpatica. Che brutta fine, cavolo».
La notizia si abbatte su di me con l'impeto di una mazzata in pieno petto. Me l'aspettavo, ovvio.
Già dall'esito della visita mia e di Keeley nel suo appartamento - oggetti personali scomparsi, lo spigolo del tavolo incrostato di sangue, telefono usa e getta nascosto in tutta fretta sotto il materasso - avevo immaginato che le fosse successo qualcosa.
Tuttavia avere la certezza che sia morta, in quello che tutto può essere stato fuorché un banale incidente, mi lascia attonito.
Immagini fugaci mi balenano a sprazzi davanti agli occhi. La donna da cui mi ha portato l'uomo buono, dopo aver attraversato mezza Londra su una macchina dal motore stridente. Quella che, al mio arrivo, mi ha messo il ghiaccio sui lividi, guardando con orrore il mio corpo pelle e ossa quasi temesse che mi potessi sfaldare da un momento all'altro.
La stessa che, alla fine, mi ha dato un cono gelato per premiarmi di essere stato bravo e si è ritirata nella stanza accanto, prendendo a litigare con il mio eroe che le sanguinava sul divano. E, infine, il nostro viaggio in aereo verso l'America, che lei aveva trascorso sussurrandomi parole di conforto mentre io ero troppo intontito per ascoltarla, piombato in una sorta di trance.
Ricodo di essere rimasto in quello stato per giorni, anzi settimane, sentendomi prigioniero di un sogno da cui non potevo svegliarmi.
Gladys Mitchell. O Turner, poco importa ormai. Un altro nome da aggiungere alla lista di persone a cui ho rovinato la vita.
«Mi dispiace soprattutto per papà». Eileen dà una scrollata al giornale, prima di restituirlo a Simon. Solo allora noto che le occhiate di quest'ultimo si sono fatte ancora più taglienti. «L'articolo dice che lui e Gladys si frequentavano ai tempi del college. Assurdo, eh?»
«Già» mormoro frastornato. «Assurdo».
Il suono della campanella ci coglie alla sprovvista, seguito dal frastuono della mandria di studenti che si mobilita per andare a lezione.
Con la scusa di dover ancora mettere i libri nello zaino, saluto Eileen e, mentre lei si indirizza verso la classe, apro di nuovo l'armadietto. Ho appena il tempo di far scivolare la scatola con il braccialetto in tasca che qualcuno mi afferra per il colletto della camicia e mi costringe a voltarmi.
La mia spalla urta allo sportello metallico, che si richiude all'impatto, ma il tonfo è attutito dalla cacofonia di rumori che invadono il corridoio.
Avrei potuto prevedere di tutto, tranne di ritrovarmi davanti il viso di Simon contratto dalla rabbia, a pochi centimetri dal mio.
Non l'ho visto così arrabbiato neanche quella volta che, durante un campeggio estivo con Matt, io e Kal gli avevamo messo un serpente lungo trenta centimetri nella tenda. Era una specie del tutto innocua, ma gli si era avvinghiato al braccio così forte che Liam aveva avuto il suo bel daffare per districarlo, dopo che Eileen era riuscita a calmare Simon che correva gridando all'impazzata.
Tutto questo mentre noi ci sbellicavamo dalle risate assieme allo zio; persino Edric si era divertito un mondo, o magari era solo felice di non essere stato la vittima dello scherzo.
«Sarò breve. So che tu e Keeley stavate cercando Gladys, due giorni fa. Sono stato io a darle il suo indirizzo e non ci vuole un genio a capire che siete andati da lei, quella notte. E adesso è morta». La voce di Simon è apatica, ma il suo sguardo è più determinato di quanto credessi possibile. «Non ti chiederò cosa stai combinando. Tanto non me lo diresti, vero?»
Rimango in silenzio, il verde freddo dei suoi occhi che congela l'argento fuso dei miei. Non mi divincolo alla sua presa, lasciando che mi scuota per la camicia senza opporre resistenza. Non sono preoccupato, so che non mi farà niente. Se c'è un aggettivo che non gli è mai calzato affatto è proprio "violento".
«Appunto. Non so come faccia Liam a cercare ancora di capirti, io ho rinunciato. Se non tieni a te stesso, okay, al diavolo tu e i tuoi istinti autodistruttivi». Quelle parole sono come pugnali di vetro scheggiato che mi trapassano i polmoni a ogni respiro, ma mi impongo di restare impassibile. «Qualunque cosa sia questa storia, però, lascia fuori Keeley dai tuoi casini, Klaus!»
«Ci sto provando» replico di getto.
Simon mi lascia andare e si carica lo zaino a tracolla. «Beh, lasciatelo dire, fratello. Lo fai da schifo» replica con amarezza, per poi mischiarsi al viavai di studenti.
A passi svelti e rabbiosi, mi incammino nella direzione opposta e attraverso una serie di corridoi fiancheggiati da armadietti, sfrecciando di fronte alla segreteria, e percorro spedito la scala di marmo. A metà, collegato con i gradini che piegano a destra e a sinistra fino al piano superiore, si trova un pianerottolo illuminato da una grande vetrata aperta su un larghissimo terrazzo.
Appena esco, una piacevole folata di vento mi scompiglia i capelli biondi e, con il sole che mi picchia sulla testa, vengo subito avvolto da una cappa di calore che mi fa inspirare profondamente alla ricerca di ossigeno.
Mi avvicino alla lastra di vetro rinforzato che funge da balaustra. Il panorama è affacciato sul retro del corpo centrale dell'istituto, dominando su un lussureggiante giardino coperto di serre e filari di alberi di mele, di limoni e altra frutta. Dalla parte opposta, intravedo l'imponente struttura verniciata di blu e giallo dell'edificio in cui alloggiano i ragazzi o gli insegnanti che provengono da fuori città. Più che un liceo, mio nonno lo aveva progettato per essere un campus.
Con lo sguardo perso nel vuoto, tiro fuori il braccialetto dalla scatola e prendo a giocherellarci in maniera distratta. Alla fine serro le dita, stringendolo così forte da far pizzicare il taglio fasciato sul polso. Se è vero che per sconfiggere il tuo demone devi affrontarlo, allora forse è giunto il momento che io uccida il mio.
Sfilo il telefono dai jeans e comincio a comporre il numero. Per un attimo, sono sul punto di chiamarlo, ma la sola idea di sentire la sua voce è sufficiente a suscitarmi un fremito inorridito. No, non ci riuscirei. Provando un moto di disprezzo per la mia debolezza, cambio piano e rimango immobile almeno un minuto a riflettere su cosa scrivere.
Optato per un messaggio freddo e conciso, digito con i pollici tremanti: "Dobbiamo parlare di mio padre. Ti dirò dove e quando ci possiamo vedere". Trattenendo il fiato, premo invio.
E, con mia enorme sorpresa, la risposta di Vincent è quasi immediata. Leggendo, riesco a sentirlo mentre pronuncia quelle parole, con quel suo timbro autoritario, quasi possessivo, che mi dava l'impressione di essere un oggetto di sua proprietà, piuttosto che un bambino a lui affidato. A distanza di sette anni, l'effetto è ancora lo stesso.
"Il luogo te lo concedo, ma quando lo decido io. Non vedo l'ora di passare del tempo con te, marmocchio... abbiamo tanto da dirci.
Sapevo che mi avresti cercato, comunque; dopotutto, ti ho addestrato a essere un bambino obbediente".
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